di Claudio Panzera
A distanza di un anno dal rivoluzionario overruling in tema di diritto all’aborto (caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, commentato nella precedente Lettera 07/2022), un’altra decisione della Corte suprema degli Stati Uniti torna ad alimentare il dibattito intorno alle basi costituzionali della convivenza democratica. Allora era in gioco una questione di limiti alla libertà di autodeterminazione della donna; ora la controversia investe l’estensione del principio di eguaglianza.
In Students for Fair Admissions, Inc. v. President and Fellows of Harvard College, decisa lo scorso 29 giugno, la Corte ha riconosciuto che le procedure di ammissione seguite dalle Università di Harvard e della North Carolina violano la garanzia della equal protection of the laws di cui al XIV emendamento, in quanto prevedono la razza quale fattore che “può” essere preso in considerazione – e, di fatto, abitualmente lo è – ai fini della composizione delle classi annuali degli studenti che avranno il privilegio di accedere a tali elitarie istituzioni. L’opinione di maggioranza, stesa dal Chief Justice Roberts e approvata dagli altri cinque membri di orientamento conservatore, sembra voler porre una pietra tombale sulla complessa e vessata questione della costituzionalità delle c.d. “azioni positive”.
Il tema delle virtualità “proattive” del principio di eguaglianza nel settore dell’istruzione e altrove, com’è noto, si impose a seguito delle diffuse resistenze di privati e istituzioni statali ad attuare il mandato contenuto nella giustamente famosa Brown v. Board of Education of Topeka del 1954. Fatto cadere, dopo oltre mezzo secolo, il velo di ipocrisia che garantiva lo status quo della segregazione razziale alla luce della dottrina del separate but equal (Plessy v. Ferguson del 1896), si trattava di rendere effettivo il principio di equal protection in una fase in cui il divieto di discriminazione in ragione della razza e il riconoscimento di un’astratta libertà di scelta della scuola da frequentare non bastava più. Era necessario dichiarare l’esistenza di un affirmative duty a carico delle istituzioni scolastiche «to take whatever steps might be necessary to convert to a unitary system in which racial discrimination would be eliminated root and branch» (Green v. County School Board of New Kent County del 1968). Ad imprimere un’accelerazione a tale percorso fu la presa in considerazione di specifici effetti discriminatori di scelte formalmente neutrali sul piano razziale (Griggs v. Duke Power Co. del 1971): l’argomento del disparate impact – che può essere accostato alla nozione di discriminazione “indiretta” nel diritto e nella giurisprudenza UE – estese i paletti del giudizio di eguaglianza e aprì la strada all’adozione, spontanea o incentivata da programmi federali, delle azioni positive in ambiti quali il mercato del lavoro e la formazione professionale. L’apice fu raggiunto negli anni Ottanta del secolo scorso (Fullilove v. Klutznick del 1980), quando ebbe inizio la parabola discendente che indusse la Corte a dichiarare incostituzionali le misure preferenziali statali (Richmond v. J.A. Croson Co. del 1989) e federali (Adarand Constructors, Inc. v. Peña del 1995) sulla base di una chiave di lettura neutrale (colorblind) e individualistica del XIV emendamento. Questa ebbe l’effetto di espungere dal novero degli interessi legittimamente perseguibili dal governo (compelling public interests) il compito di rimediare, o quanto meno alleviare, gli effetti pregiudizievoli di discriminazioni sociali consolidate, soprattutto se a pagarne il prezzo erano innocent victims, individui cioè che non avevano responsabilità per i pregiudizi patiti dagli appartenenti ai gruppi storicamente discriminati.
L’odierna decisione si confronta direttamente con due importanti precedenti in tema di ammissione universitaria.
Già in Regents of University of California v. Bakke del 1978, una Corte profondamente divisa (fragmented) e incapace di raggiungere una maggioranza (6 distinte opinioni vennero redatte) decise – grazie al voto determinante del giudice Powell, estensore della controlling opinion – che la riserva di una quota di posti da assegnare con procedura speciale e separata a candidati appartenenti a minoranze razziali (neri, ispanici, asiatici e nativi) violava il XIV emendamento, da intendersi come proibizione generale di qualsivoglia discriminazione etnica o razziale tra gli individui: pregiudizievole o benigno che sia l’intento ad essa sotteso, questa andava infatti considerata intrinsecamente sospetta (inherently suspect) e soggetta al più rigoroso test di idoneità, necessità e proporzionalità (strict scrutiny). Per altri versi, continua saggiamente l’opinion, in certi casi la razza “poteva” essere presa in considerazione nelle procedure di ammissione universitaria se impiegata in maniera strettamente conseguente (narrowly tailored) – come un plus tra i fattori da considerare all’interno di una valutazione complessiva (holistic) del profilo del candidato – al fine di pervenire alla diversificazione del corpo studentesco, quale interesse meritevole di tutela (compelling) non in sé e per sé, bensì in quanto diretto alla sviluppo di un contesto educativo plurale, integrato, dinamico, aperto alla discussione e maggiormente stimolante per la formazione di cittadini e classe dirigente di una Nazione composita come quella statunitense («‘nation’s future depends upon leaders trained through wide exposure’ to the ideas and mores of students as diverse as this Nation»). Quanto la diversificazione del corpo studentesco fosse essenziale per la missione educativa dell’istituzione universitaria, poi, era una valutazione da rimettere al giudizio dell’ente, parte della sua academic freedom garantita dal I emendamento.
Nella successiva pronuncia Grutter v. Bollinger et al. del 2003, una risicata maggioranza (5-4) mandò esente da censura il ricorso soft al criterio razziale con cui la Law School del Michigan mirava alla formazione di una “massa critica” delle minoranze altrimenti sottorappresentate per conseguire l’obiettivo di un corpo studentesco diversificato. Anche in tale vicenda, la razza rappresentava uno dei criteri nella valutazione individualizzata dei candidati, da ponderare in maniera elastica (a flexible tool) ma senza comportare l’assegnazione “automatica” e generalizzata di punti aggiuntivi (come in Gratz v. Bollinger del medesimo anno, risolto infatti nel senso dell’incostituzionalità dell’azione positiva). Inoltre, il concetto di critical mass veniva in rilievo non tanto perché il pluralismo razziale rappresentasse un obiettivo da realizzare in sé, ma per i benefici sostanziali che quella diversità avrebbe assicurato sul piano formativo-educativo, «including cross-racial understanding and the breaking down of racial stereotypes». Infine, mentre non poteva tollerarsi una misura preferenziale che avesse prodotto un danno eccessivo agli altri candidati, si precisava che la costituzionalità di programmi di ammissione “sensibili” alla razza era subordinata alla prospettiva di un’applicazione temporalmente limitata degli stessi, che l’opinione di maggioranza si aspettava potesse ragionevolmente cessare entro 25 anni.
Con Students for Fair Admissions la Corte adesso “azzera” la facoltà per le istituzioni universitarie di adottare politiche di ammissione race-oriented persino nella più blanda forma fin qui ammessa, ritenendole vietate da una rigorosa interpretazione della equal protection clause sulla base di tre argomenti principali: a) i programmi contestati non soddisfano le condizioni per uno scrutinio “stretto” (i benefici attesi dalla diversificazione del corpo studentesco – giustificazione addotta dai resistenti – non sarebbero concretamente misurabili in sede giudiziaria e le classificazioni impiegate risulterebbero ambigue, troppo ampie o fuorvianti); b) si legittima un uso “negativo” del fattore razziale in danno agli individui sfavoriti (l’ammissione universitaria come un gioco a somma zero) e un rafforzamento degli stereotipi (assumendosi che i membri di un gruppo razziale pensino necessariamente in modo simile); c) non si prevede alcun un termine finale di applicazione del preferential treatment (né potrebbe supplire la verifica periodica svolta dall’università circa la necessità della misura adottata in base ai progressi conseguiti). Nella prospettiva della Corte, l’appartenenza razziale potrebbe rilevare al limite indirettamente, all’interno della narrazione di sé che ciascun candidato offre, purché sia volta a far emergere una sua «qualità personale o una capacità esclusiva» di cui l’università si avvantaggerebbe.
Diversi sono gli spunti di riflessione che la decisione in commento suscita, a partire dalla stigmatizzazione dello strumento delle azioni positive race-oriented in uno dei pochi ambiti – l’istruzione universitaria – che finora era riuscito ad avvalersene con continuità, seppur in una variante “debole”. La giurisprudenza della Corte sul tema è oggettivamente ondivaga e talvolta si fatica – come nel caso Bakke – persino a capire se la decisione abbia dato vita a un precedente vincolante. Questo può spiegare come, nella pronuncia in esame, tanto la maggioranza quanto la minoranza dissenziente rivendichino la pretesa di muoversi in continuità con i precedenti, scambiandosi reciproche accuse di spacciare personali preferenze dottrinali o politiche (magari espresse in passati dissent) per diritto costituzionale vivente. In tale prospettiva, anche il rovesciamento dialettico del senso e delle implicazioni di alcuni argomenti invocati (come il pregiudizio razziale o l’uso degli stereotipi) si presta bene al gioco di accreditare l’interpretazione difesa come l’unica “corretta” e fedele alla giurisprudenza. Nonostante gli sforzi in senso contrario (v. spec. l’opinione concorrente di Kavanagh), come si diceva sembra che la (maggioranza della) Corte intenda mettere la parola fine ad un’esperienza pluridecennale, segnando una discontinuità rispetto all’equilibrio faticosamente ricercato nei precedenti citati. Vanno in tal senso, fra l’altro: la scelta di sostituire la tradizionale deference verso l’ente universitario con un controllo penetrante sulla misurabilità dei risultati perseguiti; l’insistenza sul carattere (inevitabilmente) negativo dell’uso della razza in un ragionamento imperniato sull’argomento della zero-sum delle procedure di ammissione; il rilievo decisivo assegnato alla necessità che le misure preferenziali a un certo punto (per l’esattezza, da ora in avanti) cessino.
È inevitabile interrogarsi sull’influenza che il reasoning della Corte finirà per avere in contesti diversi da quello considerato ove ancora residua uno spazio di applicazione delle affirmative actions razziali. La Corte stessa, ad esempio, lascia emblematicamente aperta la porta ad una opposta conclusione con riguardo ai programmi di ammissione nelle accademie militari, in ragione dei loro «potentially distinct interests» nella composizione etnicamente plurale dei rispettivi corpi (slip op., p. 22, nt. 4).
Al netto della polarizzazione ideologica tra fautori di un approccio individualistico e strettamente antidiscriminatorio (formale) alla equal protection clause e assertori, invece, di una lettura guidata dall’appartenenza collettiva e con finalità di eguagliamento sostanziale, va comunque riconosciuto che i limiti più stringenti allo strumento delle azioni positive rimangono il non automatismo della procedura e la necessità – trasversale a tutti i tipi di misure, dalle più radicali (l’assegnazione riservata del beneficio finale), alle intermedie (le quote di accesso) fino alle più blande (criteri preferenziali) – che il loro impiego sia temporalmente limitato. Il ragionamento, avanzato dai tre giudici dissenzienti, secondo cui le azioni positive devono perdurare fino a che la discriminazione rimarrà un dato endemico nella società, a ben vedere, prova troppo. Se l’abbandono da parte di alcune istituzioni universitarie di procedure di accesso race-oriented lungamente sperimentate ha determinato di fatto un sensibile decremento della presenza di gruppi minoritari storicamente sfavoriti nelle rispettive coorti di studenti, se ne deve dedurre che lo strumento impiegato purtroppo non ha dato i risultati nei termini (e nei tempi) sperati, non è stato cioè efficace nell’eradicare o ridurre in modo stabile le discriminazioni sociali. La sua prosecuzione renderebbe conseguentemente più arduo giustificare la deroga al principio di eguaglianza formale, col quale anche le meritorie clausole di trasformazione sociale – come quella prevista dall’art. 3, c. 2, della Cost. italiana – devono armonizzarsi. I problemi generati da una diffusa segregazione de facto, tuttora esistente nella realtà scolastica e universitaria nordamericana, richiedono forse l’adozione di strumenti – o meglio – criteri diversi, che agiscano su un versante ulteriore, ma spesso contiguo e sovrapposto, all’appartenenza razziale, ossia l’emarginazione sociale e la povertà economica all’origine dell’enorme disparità di opportunità che concorre, a pari delle capacità e del merito, al successo o al fallimento di un percorso educativo.