di Corrado Caruso
Con due recenti pronunce, decise a distanza di poche ore l’una dall’altra, la Corte suprema degli Stati Uniti d’America ha dato nuova linfa al dibattito su alcuni temi di vitale interesse per la nostra disciplina.
New York State Rifle & Pistol Association v. Bruen e, a seguire, Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, entrambe deliberate a maggioranza, hanno posto quesiti di ampio respiro che riguardano l’interpretazione costituzionale, la portata e i limiti del judicial review of legislation, il riconoscimento di nuovi diritti e lo svolgimento del federalizing process. Si tratta di questioni che interessano non solo la dottrina americana di diritto costituzionale ma anche la teoria generale della Costituzione.
Sono sentenze che toccano tematiche distinte e presentano esiti diversi (la prima accoglie le doglianze di incostituzionalità, la seconda le rigetta). Esse sono però accomunate dall’ampio ricorso al canone originalista e, prima ancora, da una analoga visione politico-costituzionale.
New York State Rifle Ass. ha ritenuto incostituzionale una legge dello Stato di New York che subordinava il diritto di portare armi all’ottenimento di una licenza, rilasciata sulla base di una «giusta causa» (proper cause) connessa ad uno «special need for self-protection». Ad avviso della Corte, simile previsione è è contraria alla Costituzione perché non trova adeguati precedenti normativi né negli anni della “fondazione” dell’ordine costituzionale statunitense, e cioè nel periodo immediatamente successivo all’entrata in vigore del II emendamento, né in quelli della “ricostruzione”, successivi alla Guerra civile e all’adozione del XIV emendamento, che ha consentito di opporre le garanzie del Bill of Rights anche agli Stati federati (grazie alla dottrina dell’incorporation, definitivamente affermatasi con la giurisprudenza della Corte Warren a partire dagli anni Sessanta del Novecento). Nella tradizione costituzionale americana, scrive il Justice Thomas, non vi è alcun riferimento storico che possa giustificare il requisito della giusta causa prescritto dalla legge dello Stato di New York.
Forse ancora più estreme le considerazioni della majority opinion redatta dal Justice Alito nel caso Dobbs. Con questa decisione, la Corte suprema ha salvato una legge del Mississippi che vieta l’interruzione di gravidanza a partire dalla quindicesima settimana. Sono stati così superati due storici precedenti (Roe v. Wade, 1973, Planned Parenthood v. Casey, 1992) che avevano riconosciuto il diritto di aborto, ancorandolo ora al diritto alla privacy (Roe), ora alla libera autodeterminazione della donna, desunta da una concezione sostanzialistica della due process clause (XIV em.). Secondo la Corte, i diritti non espressamente previsti dai primi nove emendamenti alla Costituzione possono essere tutelati solo ove siano «profondamente radicati» nella storia e nella tradizione statunitense ed essenziali allo «schema di una ordinata libertà», di una libertà cioè non assoluta ma ben ponderata, capace di «predeterminare i [propri] limiti e definire i [propri] confini» rispetto ad altri interessi costituzionalmente rilevanti.
L’interruzione di gravidanza non risponderebbe al modello di una «ordinata libertà». L’aborto era considerato illecito penale dalla common law (secondo la lettura che ne davano, diversi secoli fa, i suoi studiosi: Bracton, Coke, Hale, e Blackstone) e dagli ordinamenti statali all’indomani dell’entrata in vigore del XIV em. Nel 1868, ricorda Alito, l’interruzione di gravidanza era punita, a prescindere dallo stato di avanzamento della gestazione, dalla stragrande maggioranza delle legislazioni statali.
In ogni caso, continua la majority opinion, fino a Roe nessuno Stato riconosceva un diritto all’aborto in senso proprio. I giudici di Roe e di Casey avrebbero dunque misconosciuto il consolidato assetto normativo degli Stati della Federazione e realizzato una «usurpazione del potere del popolo» e dei suoi legittimi rappresentanti in nome di una lettura partigiana della Costituzione. È necessario guardarsi, ammonisce la Corte suprema, dalla «naturale tendenza umana a confondere ciò che il [XIV] emendamento protegge con le proprie ardenti visioni della libertà di cui dovrebbero godere gli Americani».
La majority opinion non ha dunque esitato ad allontanarsi dallo stare decisis: il rispetto dei precedenti non può essere invocato quando questi violino il testo costituzionale, disconoscano la storia della Nazione o esprimano test giudiziali not workable, che sprigionano effetti applicativi imprevedibili o capaci di disorientare cittadini e istituzioni.
Simili pronunce sollevano plurimi interrogativi. Il primo riguarda la portata del canone originalista. Tale criterio non si limita a registrare l’intenzione dei Framers (non coincide, per intendersi, con il canone del legislatore storico) ma coglie il significato delle disposizioni costituzionali al tempo della loro adozione, nel contesto storico, politico e culturale che le ha viste sorgere. Per l’originalismo, ciò che rileva è il significato primigenio, la “pre-comprensione”, socialmente e storicamente situata, della Costituzione da parte di una data comunità politico-culturale nel momento in cui ha scelto di dotarsi della higher law.
Anche in una prospettiva tutta interna all’originalismo l’analisi della Corte appare però troppo netta, ad esempio per ciò che concerne il II emendamento. Per i Framers, tale disposizione avrebbe dovuto porre a military check of federalism (Amar), una garanzia a favore degli Stati contro possibili esondazioni autoritarie del governo centrale. Duecentotrenta anni dopo la sua adozione, superato l’assetto confederale, rimane da chiarire come possa porsi in contrasto con la finalità originaria dell’emendamento una legge, di provenienza statale, che richiede ai cittadini che vogliano armarsi di dimostrare una concreta necessità di autodifesa.
L’originalismo è comunemente considerato un canone in grado di ancorare il giudice al testo, allontanando la tentazione delle corti di adottare leggi in forma di sentenza. Secondo i suoi sostenitori, tale strategia interpretativa impedirebbe alla giurisdizione costituzionale di sconfinare nell’agone politico del legislative realm. I due casi che qui si presentano smentiscono però questa conclusione: la Corte Suprema ha dimostrato uno spiccato attivismo, prima espungendo la legge newyorkese che regolava l’utilizzo di armi, poi allontanandosi dallo stare decisis che, nell’ordinamento statunitense, è garanzia della certezza del diritto e limite al potere creativo dei giudici.
Si ha allora l’impressione che l’argomento originalista non sia altro che uno stratagemma retorico-persuasivo funzionale alla realizzazione di un attualissimo programma politico di stampo conservatore, volto a rivedere alcune tra le più importanti conquiste giurisprudenziali in tema di diritti civili (Bologna). Nihil sub sole novum, forse: come notava Tocqueville un paio di secoli or sono, il giudice è il depositario del potere, per sua natura conservatore, della tradizione, e somiglia «al sacerdote egiziano: come questi è l’unico interprete di una scienza occulta». La scelta di superare i propri consolidati precedenti attraverso un risicato voto a maggioranza squarcia però il velo della sacralità giudiziale, adombra il volto neutrale del chierico e muove la giustizia costituzionale verso i lidi del volontarismo decisionista. L’originalismo diviene così strumento di una precisa politica costituzionale, realizzata da giudici che coltivano prospettive di egemonia sulla società.
Polarizzazione, attivismo, superamento dei precedenti possono però portare a una crisi di legittimazione della Corte Suprema, alla sua perdita di credibilità di fronte alle istituzioni politiche e ai cittadini che non si riconoscono nelle sue decisioni. In effetti, il significato della Costituzione non riposa esclusivamente nelle (più o meno) raffinate interpretazioni delle élites in toga, ma anche nelle letture, più o meno avanzate, dei soggetti (formazioni sociali, movimenti organizzati, comuni cittadini) che costellano il sistema politico (Tushnet).
L’argomento originalista pietrifica ex auctoritate il senso della Costituzione, estrapolandone l’unico significato giuridicamente ammissibile secondo lo spirito del tempo che fu. L’originalismo elide l’elasticità della Costituzione, e cioè la sua naturale adattabilità ai nuovi contesti politici e, allo stesso tempo, ne pregiudica la capacità di orientare gli inevitabili processi di cambiamento sociale.
Una Costituzione pietrificata rischia di risultare inutile, frustrando la sua stessa ragione d’essere. Le Costituzioni devono durare per unire, mantenersi efficaci nel tempo o, per dirla con Hart, essere generalmente riconosciute dai consociati per svolgere la loro funzione unificante. Là ove non fossero capaci di unire le generazioni presenti alle passate, di orientare l’evoluzione sociale nella continuità istituzionale, scolorirebbero in un’istantanea del passato, nella fotografia sbiadita di una comunità politica superata dalla storia. Una Costituzione sclerotizzata darebbe forza all’obiezione democratica, di stampo jeffersoniano, in forza della quale ciascuna generazione ha il diritto di darsi una nuova costituzione che ne rifletta la volontà.
Con queste sentenze, e con Dobbs in particolare, la (maggioranza della) Corte Suprema dimentica che l’ordinamento costituzionale non può ridursi al solo testo costituzionale o al suo significato originario: la Costituzione è la cuspide di un più ampio sistema che ricomprende il contesto normativo e i valori di cui sono depositarie forze politico-sociali che si rinnovano nel tempo (Barbera). Può essere che Roe e Casey fossero eccessivamente creative o esprimessero test poco funzionali: esse però erano figlie della stagione dei diritti civili, di una fase di cambiamento politico trasfuso nell’ordinamento attraverso un vero e proprio momento costituzionale (Ackerman). Non è questa la sede per approfondire il tema dei rapporti tra la Costituzione e i mutamenti costituzionali, e cioè quei cambiamenti, per dirla con Mortati, «che hanno luogo senza l’impiego delle forme legali per esse previste». È però ormai comunemente accettato che anche gli ordinamenti retti da Costituzioni rigide conoscano questi mutamenti, e che anzi la capacità di governare questi cambiamenti senza sfociare nell’instaurazione di un nuovo ordine costituzionale sia prova di buona salute della Costituzione.
Vedremo se New York State Rifle e Dobbs, la radicalizzazione del Partito Repubblicano e del suo elettorato siano sintomi di un nuovo momento costituzionale, eguale e contrario a quello che, sessant’anni fa, ha portato gli Stati Uniti d’America sulla strada dei diritti e dell’emancipazione delle minoranze.
Di certo, nel contesto statunitense, la debolezza dei “nuovi” diritti, tra cui quello alla interruzione di gravidanza, riposa proprio nella loro origine giurisprudenziale, nella loro riduzione a semplice opzione interpretativa delle corti. Roe e Casey hanno illuso che fosse sufficiente una avanzata giurisprudenza per riconoscere e tutelare (in una parola: per fondare) rinnovati diritti costituzionali.
L’ordine di esecuzione, firmato pochi giorni fa dal Presidente Biden per garantire, nonostante Dobbs, l’accesso ai servizi abortivi, conferma l’impressione di una certa arretratezza istituzionale: ciò che è mancato, in quell’ordinamento, è un processo di unificazione politica che, al di là delle differenziazioni territoriali, desse fondamento giuridico unitario alla interruzione di gravidanza. Non a caso, nel percorso argomentativo della majority opinion la necessità di garantire the will of the people va di pari passo con l’esigenza di assicurare un ampio margine di azione agli Stati.
Negli Stati Uniti è mancato ciò che è avvenuto in Italia: l’interruzione di gravidanza, oggi disciplinata dalla legge n. 194/1978, è stata resa possibile da un processo di istituzionalizzazione che ha visto protagonista una pluralità di soggetti: la Corte costituzionale (sent. n. 27/1975), i cittadini (prima con la raccolta delle firme per il referendum del 1975 e poi con il voto referendario del 1981, che ha respinto gli opposti quesiti, di matrice cattolica e radicale, sulla legge 194), lo stesso legislatore rappresentativo. Certo, al contrario di Roe e Casey, legislatore e Corte costituzionale non hanno mai riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo all’aborto: nei primi 90 giorni l’interruzione di gravidanza è ammessa allorché la maternità arrechi un pregiudizio serio alla salute psicofisica della madre, sulla base dell’assunto «che non esiste equivalenza fra il diritto (…) alla vita (e) alla salute proprio di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell'embrione che persona deve ancora diventare» (sent. n. 27/1975). Una soluzione più moderata (e forse più equilibrata) dell’omologa statunitense, ma destinata a resistere nel tempo perché parte della Costituzione vivente del Paese.