di Massimo Cavino
Il rapporto tra potere politico e sapere è una declinazione di quello, più generale, tra autorità e libertà e cade, per questo, nell’ambito della riflessione costituzionalistica. Essa lo considera osservando come il potere possa conformare l’accesso al sapere e alla sua diffusione. Ma anche valutando quanto le diverse forme del sapere, da quella scientifica a quella umanistica e sociale, possano a loro volta condizionare l’esercizio del potere, sia in ragione dei mutamenti sociali da esse prodotti, sia, più direttamente, sul piano pratico degli strumenti che esse forniscono a chi ne sia titolare (questo è stato il senso dell’ultimo convegno annuale della nostra Associazione Lingua Linguaggi Diritti). E dal momento che anche la riflessione costituzionalistica produce una forma di sapere, essa finirà per divenire una sorta di introspezione quando concentrerà l’attenzione sui propri rapporti con il potere. Il dilemma che questa introspezione pone al costituzionalista è sostanzialmente quello della sua autonomia epistemologica. Poiché lo studio costituzionalistico delle dinamiche normative del potere conduce alla formazione di una “expertise costituzionale” (secondo l’espressione utilizzata all’articolo 2 dello statuto dell’Association Française de Droit Constitutionnel) che può certamente rappresentare uno strumento utile ai titolari di quello stesso potere, il costituzionalista deve essere particolarmente attento a non esaurire la sua funzione in quella utilità: ove non vi riuscisse avrebbe certamente smarrito il senso della sua funzione.
E di smarrimento parla una voce, già autorevole nella nostra disciplina, contestando il ruolo di “consulenti” al quale, a suo dire, sono stati degradati i costituzionalisti; ruolo che sarebbe confermato dall’atteggiamento della nostra Associazione, disimpegnata rispetto al dibattito sulle riforme istituzionali e concentrata su temi marginali. Una critica molto dura che pone due questioni strettamente connesse: quale criterio si può adottare per stabilire se la riflessione dei costituzionalisti rimane fedele alla sua missione? Quale posizione deve assumere la nostra Associazione rispetto al dibattito politico quando esso richiede expertise costituzionale?
Chi oggi parla di smarrimento non pare offrire elementi utili per rispondere alla prima domanda, ma si limita a riproporre la distinzione tra loro (diranno) e noi (diciamo) che identifica nella adesione ad un preciso orientamento culturale e politico la legittimazione dei (veri) costituzionalisti: una sorta di ius publice respondendi ex auctoritate principis, molto lontano da una mite composizione tra diverse posizioni.
La contrapposizione tra loro diranno e noi diciamo non riesce ad essere utile perché si fonda sulla distinzione personale tra i parlanti e non si interessa dei loro argomenti. In altri termini: una distinzione corretta non dovrebbe separare i buoni dai cattivi costituzionalisti, ma gli argomenti costituzionalistici da quelli che tali non sono. È lo stesso concetto di argomento che permette di risolvere il nostro dilemma: un argomento è una «proposizione destinata a farne ammettere un’altra» come plausibile dall’uditorio cui è destinata (O. REBOUL, Introduzione alla retorica, (1994), il Mulino, Bologna, 1996, 110). Il concetto di argomento presuppone un confronto tra chi lo enuncia e il suo uditorio che si può dire realizzato quando il primo riesca a persuadere il secondo. Ciò presuppone una componente tecnica: l’esistenza di un linguaggio comune adatto all’occasione in cui sia pronunciato il discorso di cui l’argomento è parte; ma anche una componente che potremmo definire valoriale, che consiste nel reciproco riconoscimento dei rispettivi ruoli: chi propone un argomento deve rispettare la libertà di chi ascolta, accettando che muova da posizioni diverse dalle sue (poiché la persuasione, diversamente dall’inganno, presuppone una libera scelta di chi si vuole persuadere), e chi ascolta deve riconoscere a chi parla l’abilitazione a proporre un argomento, la dignità dell’attenzione.
Se accettiamo questa prospettiva un argomento potrà dirsi costituzionalistico quando sarà proposto nell’ambito di un discorso rivolto all’uditorio composto dalla comunità dei costituzionalisti (i soggetti che condividono lo stesso linguaggio tecnico) da chi sia riconosciuto come degno di attenzione perché membro della stessa comunità. Non dunque un discorso tra loro e noi, ma un discorso tra di noi che permetterà di distinguere non già quel siamo, ma quel che diciamo, a partire dalla padronanza degli strumenti tecnici per finire con la valutazione del rispetto della libertà di ciascuno. Va da sé che chi dovesse ripetutamente proporre argomenti tecnicamente scorretti o volti a promuovere, non la persuasione, ma la propaganda, finirebbe per perdere la dignità dell’attenzione: ma ancora, non per quel che è, ma per quel che dice.
E se accettiamo questa prospettiva possiamo rispondere anche alla seconda questione, quella relativa al ruolo della nostra Associazione.
Basta leggere il nostro statuto. L’articolo 1 ci impone di impegnarci per il mantenimento di un elevato livello tecnico del nostro linguaggio, preservandone le peculiarità, a partire dalla formazione universitaria, per arrivare alla valutazione della ricerca e alla selezione di professori, ricercatori e altro personale docente. L’articolo 2 ci impegna a organizzare continue occasioni di confronto, anche a livello internazionale.
Basta guardare alla nostra storia. In questi giorni nei quali siamo nuovamente portati a riflettere sulle problematiche costituzionali della guerra è utile ricordare un episodio. Il 27 marzo 1999 l’Associazione dei Costituzionalisti Jugoslavi inviò una lettera al consiglio direttivo della nostra Associazione chiedendo che essa prendesse una esplicita posizione sul conflitto in corso in Kosovo. Il consiglio direttivo si riunì il 23 aprile 1999 e deliberò di organizzare a Torino, il successivo 11 giugno, un seminario di studi per consentire il confronto tra le diverse posizioni. La premessa al volume che raccoglie gli atti di quel seminario (M. Dogliani, S. Sicardi, Diritti umani e uso della forza. Profili di diritto costituzionale interno e internazionale, Giappichelli, Torino, 1999) chiarisce in modo inequivocabile il “posto” della nostra Associazione che «non è comunque competente ad esprimersi nel merito di questioni scientifiche e tantomeno politiche complesse, ma solo, come è già accaduto per le proposte di riforma della Commissione Bicamerale, a promuovere un dibattito tra i Soci».
La nostra Associazione non deve proporre argomenti – nel senso poco sopra precisato – ma favorire l’incontro e il confronto tra di noi, riconoscendoci reciprocamente, alle condizioni che abbiamo detto, la dignità dell’attenzione.
Se abbiamo il coraggio di confrontarci non ci possiamo smarrire.