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Destinato alla pubblicazione sulla rivista "Diritto pubblico"

L'ordinamento della comunicazione

di Alessandro Pace

Versione integrale con note PDF

1. Il significato di «ordinamento della comunicazione». Un approccio preliminare.

L’unilaterale riforma del titolo V della Parte II della nostra Costituzione, da parte della maggioranza di centrosinistra, nella XIII legislatura, ha determinato, com’è ormai unanimamente riconosciuto(), conseguenze gravissime sul terreno politico-istituzionale, avendo, tra l’altro, accreditato la tesi che la revisione della Costituzione possa essere effettuata anche da una striminzita maggioranza.

Ma oltre che per la sua unilateralità e per la esigua maggioranza con la quale è stata votata, la legge cost. n. 3 del 2001 è criticabile per la sua sostanziale «monocameralità», essendo a tutti noto che, per la fretta di approvare la revisione prima della fine della XIII legislatura, il Senato non fu posto in grado di dare il suo fattivo contributo critico al testo predisposto e approvato dalla Camera.

Ebbene, di questo duplice vizio - l’unilateralità e la frettolosa monocameralità - è segnato, profondamente e indelebilmente, proprio il punto centrale dell’architettura generale della riforma del titolo V, e cioè quell’elenco delle materie, al quale, com’è noto, «è, in massima parte, rimessa la funzione di individuare il punto di equilibrio tra le ragioni dell’unità e quelle dell’autonomia: tra gli interessi unitari ed infrazionabili (il cui soddisfacimento richiede l’intervento del legislatore statale) e le esigenze di differenziazione (che chiamano in causa i legislatori periferici)»().

Significativo, in tal senso, è proprio l’ «ordinamento della comunicazione» - rientrante tra le materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3, Cost.) -, formula che, nella sua assolutezza semantica, potrebbe far ritenere che tutte le forme di comunicazione (da quella «interindividuale e riservata» a quella «pubblica e impersonale»), e quale che sia il mezzo trasmissivo da esse utilizzato, rientrino, sia pure per la sola disciplina di dettaglio, nella competenza legislativa concorrente e nella corrispondente competenza amministrativa delle regioni().

A tale conclusione non è però giuridicamente possibile pervenire:

- in primo luogo perché è assolutamente pacifico che alla comunicazione, in un senso così ampio, il nostro ordinamento non ha mai riservato una specifica disciplina settoriale (e la disciplina di settore è l’unico significato possibile per una disciplina che pretenda di essere «ordinamentale»)();

- in secondo luogo, perché alle comunicazioni «interindividuali e riservate» la Costituzione conferisce, all’art. 15 Cost., una tutela sia contenutistica che procedimentale, tale da escludere, per definizione, qualsivoglia intervento del legislatore regionale.

Nei confronti di queste ultime non possono infatti, secondo l’art. 15 Cost., essere imposti quei limiti - come invece nell’art. 21 Cost. - che presuppongono la «manifestazione», e cioè la pubblica esternazione, del pensiero (limiti del buon costume, della diffamazione, del vilipendio ecc.). Inoltre, diversamente dalla stessa libertà di manifestazione, solo l’autorità giudiziaria può disporre limitazioni ad essa «per atto motivato» e «con le garanzie stabilite dalla legge»().

Di qui l’ovvia conclusione dell’esclusiva competenza del legislatore statale relativamente alla disciplina attuativa dell’art. 15 Cost., venendo in gioco, nella specie, le materie previste dall'art. 117, comma 2, lett. l), Cost. (giurisdizione e norme processuali, ordinamento civile e penale)() nonché, in via eccezionale, quelle previste alle lett. d) ed l) dello stesso articolo (sicurezza dello Stato, ordine pubblico e sicurezza, nelle ipotesi di reati di mafia, eversione politica e terrorismo).

2. La esclusiva ricomprensione delle telecomunicazioni e della radiotelevisione nell’ ordinamento «delle comunicazioni».

Se, allora, è alla disciplina «delle comunicazioni» (e non «della comunicazione») che deve farsi riferimento, sembra difficilmente contestabile che la locuzione indicata nell’art. 117, comma 3, concerna esclusivamente le telecomunicazioni e la radiotelevisione.

A tale conclusione è del resto immediatamente pervenuto, subito dopo l’entrata in vigore della legge cost. n. 3 del 2001, il Presidente dell’AgCom, prof. Enzo Cheli, nell’ambito delle audizioni sugli effetti, nell’ordinamento, della revisione del titolo V della Parte II della Costituzione. In quella sede il prof. Cheli ha infatti rilevato che «…in questo vuoto di riferimenti, quello più diretto alla materia che è stata così indicata nella riforma può essere ricercato nella legge 31 luglio 1997, n. 249. Quest’ultima, nell’istituire l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e nel modificare la denominazione del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni in Ministero delle comunicazioni, ha adottato il termine “comunicazioni” al plurale, riferendolo sia al settore delle telecomunicazioni che a quello radiotelevisivo. Se così è, l’espressione “ordinamento della comunicazione” - concludeva il prof. Cheli - potrebbe ritenersi coincidente con quel sistema delle comunicazioni che è stato posto ad oggetto della legge n. 249 del 1997 e delle successive modifiche»().

Così opinando il Presidente dell’AgCom ha di fatto seguito, per l’interpretazione della locuzione in esame (rectius, della locuzione «ordinamento “delle comunicazioni”»), il criterio «storico-normativo», il quale notoriamente individua il significato delle materie sulla base della normazione vigente all’epoca del suo intervento(). Del resto, come vedremo nel prosieguo, a tale conclusione si perviene anche alla stregua di un’interpretazione di tipo sia sistematico che finalistico. Per contro di scarsa utilità sono i lavori preparatori, che o provano troppo oppure sono contraddittori().

Del pari non sembra condivisibile la tesi, pur autorevolmente sostenuta, secondo la quale l’ordinamento della comunicazione si presenterebbe «non come una materia in senso tradizionale, ma come un insieme di valori costituzionali, la cui implementazione spetta a tutti i soggetti titolari di funzioni politiche, dunque non solo allo Stato, ma anche alle Regioni, con riferimento ovviamente agli interessi localizzati sul territorio regionale ed alla cui cura l’ente Regione è preposto»(). Al riguardo sembrano prospettabili talune riserve. E’ bensì vero che la dottrina in esame intende sviluppare un pensiero già enunciato dalla Corte costituzionale nella famosa sent. n. 348 del 1990, ma lo fa largamente eccedendo quella premessa. Infatti mentre allora la Corte aveva fondato, sull’informazione considerata come «un valore essenziale per la democrazia», una specifica competenza legislativa regionale avente un oggetto determinato (l’erogazione di provvidenze all’editoria), la dottrina qui esaminata va ben oltre e - in un quadro costituzionalmente variato - assoggetta alla competenza sia dello Stato che delle Regioni tutti i settori nella quale opera «la più ampia libertà di comunicazione sociale» e, quindi, «tutti i mezzi attraverso i quali tale libertà può essere esercitata»().

Che le norme giuridiche sottendano sempre giudizi di valore è ovviamente condivisibile. Da ciò tuttavia non consegue che un «valore», di per sé considerato (e quale che esso sia), possa costituire il contenuto di una competenza (). L’evocazione del valore si limita infatti a giustificare l’allocazione della competenza in un senso o in un altro (ne costituisce, cioè, il presupposto); ma di per sé non ci dice nulla sull’identificazione del contenuto (e cioè sulle modalità operative) di essa. Ciò è così vero, che la stessa dottrina in esame è costretta ad ammettere che «se si accetta l’impostazione proposta (…), il confine tra competenza statale e competenza regionale probabilmente è un confine mobile e non cristallizzabile nel modello di competenza concorrente»().

Ma v’è di più. Potrebbe infatti osservarsi che la mera evocazione dei valori (come contenuto della competenza) dà vita non già al prospettato «confine mobile» tra le competenze dello Stato e delle Regioni, ma piuttosto ad un «concorso libero tra più fonti». E un siffatto concorso non solo è estraneo al principio di competenza(), ma ne costituisce addirittura la negazione(), posto che il concorso libero tra più fonti non suppone né una «distinzione di fonti in relazione a materie», né una «differenziazione di contenuti normativi in relazione a materie»().

…E ciò senza contare che, in conseguenza del ribaltamento della potestà legislativa residuale (art. 117, comma 4, Cost.), l’idea sottesa alla sent. n. 348 del 1990 si ritorce contro le stesse Regioni che, dal concorso libero tra più fonti, hanno, di conseguenza, tutto da perdere().

3. Una condivisibile perplessità metodologica.

Si è detto che alla conclusione di ricomprendere nella locuzione in oggetto le sole telecomunicazioni e radiotelevisione si perviene agevolmente in considerazione delle materie disciplinate dalla legge n. 249 del 1997(), la quale, in effetti, configura una disciplina unitaria, e quindi, se così si vuole, un ordinamento delle comunicazioni elettroniche(). Quanto all’esclusione dell’editoria e stampa si è però osservato, con riferimento all’interpretazione offerta dal Presidente dell’AgCom, che il richiamo alla legge n. 249 del 1997 potrebbe «condurre ad esiti diversi a seconda che sia inteso con riferimento alla disciplina sostanziale della legge n. 249, relativa essenzialmente alla radiotelevisione e alle telecomunicazioni, o piuttosto alla sfera di competenze attribuite all’Autorità, relative alla stampa e all’editoria»().

Di qui la conseguenza che, quale che sia l’impostazione preferibile, ci si deve comunque far carico di spiegare - quanto meno a fini di completezza - la causa dell’esclusione dall’ordinamento delle «comunicazioni» dell’editoria e stampa, della disciplina della cinematografia e del teatro (e in genere dello spettacolo) e infine delle poste. Queste ultime - nonostante tutto() - potrebbero infatti teoricamente rientrare nell’ordinamento delle «comunicazioni», qualora si sostenesse che le competenze ivi considerate siano quelle previste dall’art. 5 d.l. n. 217 del 2001, in quanto tale disposizione, ancorché successiva all’approvazione parlamentare della legge cost. n. 3 del 2001, si sarebbe limitata, a formalizzare competenze già in precedenza attribuite al Ministero PP.TT. con leggi e regolamenti().

4. La conferma dell’esclusione dell’editoria e stampa dall’ordinamento «delle comunicazioni».

Ebbene, volendo iniziare dal problema dell’editoria e stampa, non può dimenticarsi che tra stampa e televisione (e a fortiori tra stampa e telecomunicazioni) c’è una fondamentale differenza, che le esclude dalla disciplina della legge n. 249 del 1997.

Tale differenza non consegue, ovviamente, da ciò che la stampa non costituirebbe un mezzo di comunicazione di massa (il che sarebbe non solo inesatto ma addirittura antistorico)(); ma consegue dalla circostanza che la stampa ha sempre goduto della sua stretta prossimità con la libertà individuale di manifestazione del pensiero (confondendosi talora con essa), come è storicamente comprovato da talune Carte costituzionali sette- e ottocentesche, nelle quali, com’è noto, la proclamazione della sola libertà di stampa (e non quindi anche la libertà di parola)(), stava appunto a significare che la stampa veniva affermata come «ellitticamente riassuntiva del mezzo allora storicamente prevalente e di maggiore importanza politica, e dell’attività spirituale attraverso di esso estrinsecantesi»().

In secondo luogo, tale fondamentale differenza è comprovata dalla constatazione che, mentre la televisione è stata considerata un aliud rispetto alla libertà individuale di manifestazione del pensiero(), mai la stessa affermazione è stata fatta con riferimento alla stampa.

E’ infatti noto che tutte le Corti costituzionali, tra cui quella italiana, mentre hanno identificato le garanzie costituzionali dell’editoria e della stampa nel riconoscimento delle situazioni giuridiche soggettive delle persone fisiche e giuridiche operanti nell’impresa editoriale, così come proclamate dall’art. 21 Cost., le stesse Corti hanno invece sempre individuato le garanzie delle imprese radiotelevisive nelle garanzie più labili (e sfumate) conseguenti alla tutela del valore del pluralismo, che ovviamente non è la stessa cosa della tutela del diritto di ciascuno().

E’ pur vero che, contro la tesi qui esposta - secondo la quale l’art. 21, commi 2-5, Cost. disciplinerebbe esaustivamente, a livello costituzionale, la stampa e l’editoria (con la conseguenza che solo la legge statale potrebbe disciplinarne l’esercizio su scala nazionale) - si può obiettare che, da gran tempo, è pacificamente ammesso che la proclamazione di un diritto costituzionale non esclude che la competenza normativa relativa alla disciplina del suo esercizio possa spettare alle Regioni (come è appunto il caso dei limiti legittimamente apponibili dalle Regioni alla libertà di circolazione, ex art. 16 Cost., e alla libertà individuale, ex art. 23 Cost.). Tuttavia è altrettanto vero che non si vede quale mai possa essere il ruolo della potestà legislativa regionale in materia di editoria e stampa se non quello di disporre provvidenze().

Se, infatti, è alla mera possibilità di disporre provvidenze, e non ad altro, che mira il riconoscimento della competenza legislativa concorrente regionale ai sensi del «nuovo» art. 117, comma 3, Cost., non può allora non ricordarsi, con la già citata sentenza della Corte costituzionale n. 348 del 1990, che la legge regionale allora ritenuta legittima non disciplinava le «modalità di esercizio della libertà d’informazione attivabile attraverso la stampa e la radiotelevisione», ma si limitava ad incentivare il pluralismo dell’informazione, il quale - «per il fatto di collegarsi, nel nostro sistema, all’esercizio di una libertà fondamentale (quale quella di espressione del pensiero) ed alla presenza di un valore essenziale per la democrazia (quale quello del pluralismo) - non può essere collocata sullo stesso piano delle materie elencate nell’art. 117 Cost.». Essa, per la Corte, costituirebbe piuttosto «una condizione preliminare (o, se vogliamo, un presupposto insopprimibile) per l’attuazione ad ogni livello, centrale o locale, della forma propria dello Stato democratico».

Se così è, perché allora affermare che la locuzione «ordinamento della comunicazione» implicherebbe una competenza regionale in materia di editoria e stampa se il perseguimento di tale finalità, con riferimento alle provvidenze erogabili, sarebbe già di per sé implicitamente assicurata dalla forma propria dello Stato democratico? Si vorrebbe forse (inammissibilmente) sottoporre alla competenza concorrente delle Regioni la stessa disciplina delle situazioni giuridiche soggettive concernenti la libertà d’impresa editoriale?

Del resto, a definitiva conferma che non vi sono, per il legislatore regionale, spazi d’intervento sull’editoria e stampa diversi da quello delle provvidenze, non deve essere nemmeno dimenticato che la competenza dell’AgCom, con riferimento all’editoria e stampa, è esclusivamente finalizzata alla tutela ex post della concorrenza, in quanto tale settore è, per definizione, «non regolato» né assoggettabile a regolazione ex ante appunto per la essenziale diversità della stampa dagli altri mezzi di comunicazione di massa; e la tutela della concorrenza, com’è noto, è attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato (art. 117, comma 2, lett. e).

A riprova di ciò, vale del resto la pena di ricordare che l’unico oggetto concernente l’editoria che risulta disciplinato dall’allegato “A” all’accordo-quadro del 25 giugno 2003 intercorso tra l’AgCom, la Conferenza dei Presidenti delle Regioni e delle Province autonome e la Conferenza dei Presidenti dell’Assemblea dei Consigli regionali e delle Province autonome (art. 3, comma 2, lett. h) è, per l’appunto, «la vigilanza sull’applicazione della normativa antitrust, con riferimento al mercato dell’editoria quotidiana in ambito regionale».

5. La ricomprensione della disciplina degli spettacoli nella competenza legislativa concorrente regionale in materia di promozione culturale.

La risposta negativa al problema della ricomprensione della disciplina del cinema e del teatro nell’«ordinamento della comunicazione» deriva da un duplice rilievo.

Il primo risiede nella considerazione che, in materia di spettacolo (entro cui si collocano sia le manifestazioni teatrali che quelle cinematografiche), le relative situazioni giuridiche soggettive si risolvono nei diritti di libera manifestazione del pensiero (v. l’art. 21, comma 6, Cost.) e di espressione artistica (art. 33, comma 1, Cost.), i quali non possono non essere garantiti in pari misura a tutti i cittadini italiani sull’intero territorio nazionale anche con riferimento ai profili connessi alla polizia dello spettacolo().

Il secondo sta invece in ciò, che in materia di spettacolo, e a prescindere dai profili testé esaminati, è assorbente la considerazione - recentemente fatta propria anche dalla Corte costituzionale() -, della competenza concorrente regionale relativa sia alla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali» che alla «promozione e organizzazione di attività culturali»(). Conseguentemente rientrano in tale competenza «tutte le attività riconducibili alla elaborazione e diffusione della cultura, senza che vi possa essere spazio per ritagliarne singole partizioni come lo spettacolo», pur con i limiti indirettamente derivanti dalle materie di competenza esclusiva dello Stato (ad es. le norme generali sull’istruzione, la tutela dei beni culturali ecc.) ().

6. La conferma dell’esclusione delle poste dall’ordinamento «delle comunicazioni».

Anche le poste, ancorché ricadano tra le competenze del Ministero delle comunicazioni (ma non tra quelle dell’AGCom, né tra gli oggetti disciplinati dalla legge n. 249 del 1997), non sembra possano essere fatte rientrare nell’«ordinamento della comunicazione»().

Diversamente dagli estensori dei due progetti licenziati dalla Commissione bicamerale per le riforme istituzionali - nei quali le poste e le telecomunicazioni erano attribuite alla competenza esclusiva statale() (analogamente a quanto dispone la Legge fondamentale tedesca)() - gli estensori del nuovo Titolo V non hanno avvertito che la disciplina delle poste deve tener conto di esigenze diverse da quelle a cui si ispira la disciplina della radiotelevisione nonché delle comunicazioni telematiche non coperte da riservatezza (come le «chat» aperte).

Mentre questa concerne anche, e soprattutto, i contenuti e le modalità delle «manifestazioni» (e cioè delle espressioni pubbliche) di pensiero veicolate per il tramite di un mezzo accessibile dalla generalità dei soggetti (e quindi concerne gli obblighi contenutistici e modali che possono essere imposti al concessionario o al titolare della licenza individuale), per contro le esigenze a cui si ispirano i servizi postali solo marginalmente (ed in funzione di divieti e non di obblighi) concernono i contenuti delle corrispondenze non riservate. Tali esigenze essenzialmente ed istituzionalmente concernono piuttosto l’apprestamento delle tecnologie più idonee a far pervenire la corrispondenza (epistolare e non, chiusa o aperta) da un mittente ad un destinatario, secondo regole che, ancorché relative a servizi in procinto di essere ulteriormente liberalizzati(), non possono non essere uniformi e quindi identici per tutto il territorio nazionale, pena la violazione dell’art. 120, comma 1, Cost.

Non a caso, perciò, una siffatta competenza legislativa rientra tra quelle tipiche del potere centrale in tutti gli ordinamenti federali o comunque fortemente autonomistici(), il che farebbe propendere per l’esclusione della potestà concorrente regionale, in tema di disciplina dei servizi postali, già in forza del principio dell'unità della Repubblica (art. 5 Cost.), ancorché - me ne rendo ben conto - il richiamo di tale disposizione per giustificare l’attribuzione di una data materia alla potestà legislativa esclusiva dello Stato può sollevare perplessità.

D’altro canto, contro l’inclusione delle poste nell’«ordinamento della comunicazione» milita pure la considerazione che la disciplina dei servizi postali è fortemente condizionata dalla normativa comunitaria (dir. 97/67/CE del Consiglio e del Parlamento europeo, attuata con d.lvo 22 luglio 1999, n. 261), in forza della quale, da un lato, al Ministero delle comunicazioni sono state attribuite le funzioni di autorità di regolamentazione del settore postale (art. 2 del cit. d.lvo n. 261 del 1999), e, dall’altro, è imposto ai singoli Stati di garantire che il servizio sia di qualità uniforme nel mercato unico().

7. La disciplina comunitaria delle telecomunicazioni e le sue conseguenze sul diritto nazionale.

Non v’è invece alcun dubbio che le telecomunicazioni rientrino nell’«ordinamento della comunicazione», sia che tale locuzione sia interpretata alla luce dei lavori preparatori sia che si utilizzi il criterio storico-normativo. Tuttavia è parimenti indubbio che le stesse premesse costituzionalistiche del problema risultano ora mutate a seguito sia dell’adozione della dir. 2002/21/CE (cd. direttiva «quadro») del Consiglio e del Parlamento europeo nell’ambito delle direttive in materia di comunicazione elettronica(), sia della sua mancata tempestiva impugnazione davanti alla Corte di giustizia CE, sia infine, e assorbentemente, dal recepimento di essa, insieme con le altre tre direttive del 7 marzo 2002 (), nel d.lvo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche).

Sta di fatto che, con tale direttiva, la Comunità europea ha limitato la stessa autonomia degli Stati «nello scegliere l'assetto organizzativo e il funzionamento dell'autorità di regolazione»(). Come esattamente sottolineato da Cassese, «(g)li Stati nazionali, dopo la nuova direttiva, non sono più liberi di stabilire l’organizzazione, i compiti, le procedure e l’attività delle autorità di regolazione, perché ognuno di questi quattro aspetti è condizionato da principi dettati dalla direttiva quadro (…). Per l’organizzazione, l’art. 3, commi 1-3, stabilisce i seguenti vincoli: che tutti i compiti assegnati alle autorità nazionali siano affidati a un organismo competente; che esso sia distinto legalmente e (sia) funzionalmente indipendente dagli operatori; che esso eserciti i suoi poteri imparzialmente e in modo trasparente»().

Il primo dei tre vincoli «obbliga a non lasciare funzioni adespote ed è sottoposto al controllo della Commissione, alla quale occorre notificare i compiti assegnati e le responsabilità attribuite (art. 3, comma 6)»(). Ebbene, già da questo discende una decisiva conseguenza sul nostro discorso ().

Poiché la competenza a porre in essere la regolamentazione delle reti di comunicazione elettronica è stata intestata ad autorità nazionali (art. 3), ne consegue che è il solo legislatore statale a poter disciplinare, anche nel dettaglio, le competenze dell’autorità nazionale di regolazione [siano esse attribuite alla sola AgCom - come dovrebbe essere alla luce del disegno comunitario che pretende l’indipendenza e l’imparzialità di tali autorità: art. 3, commi 2 e 3, dir. 2002/21/CE() - o anche al Ministero delle comunicazioni(), come invece disposto dall’art. 7 d.lvo 1° agosto 2003, n. 259()]. Di qui l’esclusione - confermata dall’art. 16, comma 2, lett. b), della legge 3 maggio 2004, n. 112 (cd. legge Gasparri)() - della potestà legislativa delle Regioni in materia di reti di telecomunicazione, nonostante l’intestazione ad esse della competenza legislativa concorrente nell’«ordinamento della comunicazione»(). L’AgCom potrà, beninteso, operare anche a livello locale per l’attuazione della disciplina comunitaria del settore delle comunicazioni elettroniche (così come recepita e attuata dal legislatore nazionale), in ciò assistita da organi locali, ma solo se da essa dipendenti e delegati (Co.re.com); e quindi senza ulteriori pericolosi frazionamenti a livello locale(), che inciderebbero sull’unitarietà funzionale del disegno comunitario e sull’obbiettivo di questo di mantenere la regolazione al minimo indispensabile().

Il secondo vincolo derivante dalla dir. 2002/21/CE - sottolineato da Cassese relativamente all’organizzazione - concerne la distinzione legale e l’indipendenza funzionale delle Autorità nazionali di regolazione nei confronti degli operatori; il terzo è invece relativo al modo imparziale e trasparente col quale tali Autorità devono esercitare i loro poteri (e quindi la loro indipendenza anche nei confronti del potere politico)().

Sia il secondo che il terzo vincolo costituiscono il contenuto di principi già astrattamente deducibili dal nostro ordinamento costituzionale (art. 97 Cost.)(). A proposito del secondo (al quale si è già accennato poco sopra), si deve però aggiungere che «la permanenza di interessi dello Stato in uno o più organismi di telecomunicazioni» fa dubitare che la normativa comunitaria (oltre a quella costituzionale) sia rispettata dalle disposizioni() che attribuiscono al Ministero la competenza al rilascio dei provvedimenti abilitativi nei settori delle comunicazioni elettroniche e radiotelevisive(). Il che, a maggior ragione, non può non ripetersi con specifico riferimento alla peculiare situazione personale dell’attuale Presidente del Consiglio dei ministri nel settore radiotelevisivo.

Né si può dire - con riguardo al terzo vincolo - che i criteri di nomina dei componenti l’AgCom soddisfino l’indipendenza dell’Autorità nei confronti del potere politico(). L’art. 1, comma 3, della legge n. 249 del 1997 pretenderebbe infatti di assicurare l’indipendenza dell’AgCom mediante l’elezione dei suoi componenti da parte di ciascuna delle Camere del Parlamento con il sistema del voto limitato a due nominativi (su quattro): una formula che, nella sua ottimale realizzazione (e cioè quando vi sia una sostanziale equivalenza del numero dei parlamentari della maggioranza e dell’opposizione)(), si risolve, tutto al più, in una mera «lottizzazione politica paritaria».

Sotto questo profilo il problema di legittimità dell’art. 1, comma 3, della legge n. 249 del 1997 (relativo alla discutibile indipendenza verticale dell’AgCom) si trasforma da questione sottoponibile alla sola Corte costituzionale() - dove il problema dell’influenza della nomina sull’indipendenza della funzione non è mai stato adeguatamente affrontato e risolto() - in questione sottoponibile anche alla Corte di giustizia CE, ma - è doveroso aggiungerlo - con esiti difficilmente prevedibili. In ambienti culturalmente diversi da quello italiano, si ritiene infatti generalmente - e ciò in conseguenza di una prassi eticamente ben più rigorosa di quella italiana - che la provenienza della nomina non sia in grado di incidere, di per sé, sull’indipendenza funzionale del titolare di un pubblico ufficio.

8. Segue. Precisazioni costituzionalistiche sul punto.

Le conclusioni a cui si è pervenuti nel precedente paragrafo - secondo le quali la dir. 2002/21/CE avrebbe determinato conseguenze addirittura rilevanti sotto il profilo costituzionale - potrebbero sollevare perplessità, come in effetti è accaduto, qualora si parta dalla premessa che le norme comunitarie non potrebbero comportare «un’alterazione nell’ordine delle competenze attribuite dalla Costituzione»().

Ma, a parte il fatto che tale premessa è stata già stata posta in dubbio da più di una decisione della Corte costituzionale ancor prima della legge cost. n. 3 del 2001(), è assorbente sottolineare che, al fine di esigere il rispetto, da parte della CE, dell’ordine delle competenze costituzionali degli Stati membri, questo limite deve essere fatto positivamente valere dallo Stato interessato dinanzi alla Corte di giustizia del Lussemburgo, e ciò sempre che la violazione dell’ordine interno delle attribuzioni costituzionali - da parte degli organi comunitari - derivi da un abuso delle funzioni ad essi spettanti in forza dei Trattati vigenti.

E, come già ricordato, né lo Stato italiano, né le Regioni() hanno ritenuto di dover eccepire alcunché a proposito del contenuto del direttive del 7 marzo 2002.

Di qui l’ulteriore e definitiva conclusione che, ove una Regione pretendesse di legiferare in materia di reti di comunicazione elettronica, essa violerebbe l’art. 117, comma 1, Cost. (nella parte in cui vincola il legislatore all’ordinamento comunitario), per il fatto stesso di aver contravvenuto la norma interposta, nella specie costituita dall’art. 1, comma 1, dir. 2002/21/CE.

Unico spazio disponibile alla potestà legislativa concorrente delle Regioni, per ciò che riguarda le reti, è infatti solo quello relativo alla localizzazione degli impianti, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale nella sent. n. 324 del 2003, ancorché nell’ambito di una decisione di accoglimento di una legge regionale.

Riferendosi alle materie «governo del territorio», «tutela della salute» e «ordinamento della comunicazione», la Corte ha infatti affermato che «non può escludersi una competenza della legge regionale in materia, che si rivolga alla disciplina di quegli aspetti della localizzazione e dell’attribuzione dei siti di trasmissione che esulino da ciò che risponde propriamente a quelle esigenze unitarie alla cui tutela sono preordinate le competenze legislative dello Stato nonché le funzioni affidate all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni»().

9. Ammissibilità e limiti della potestà legislativa di dettaglio in materia di comunicazioni elettroniche e radiotelevisive.

Restano da affrontare le problematiche che solleva il settore delle comunicazioni elettroniche e radiotelevisive con specifico riferimento alla disciplina dei contenuti(), la quale, con riferimento alle seconde, è stata però avocata solo in minima parte a livello comunitario (promozione delle opere europee, limiti pubblicitari, tutela dei minori, diritto di rettifica)().

Ricollegandomi a quanto osservato all’inizio, è opportuno ricordare che le comunicazioni elettroniche che vengono qui in considerazione sono solo quelle che, ancorché intercorrenti tra due o più persone determinate, non presentino caratteristiche esteriori di riservatezza (le quali rientrano, per le ragioni dette, nella potestà esclusiva statale)().

Ciò premesso, corre l’obbligo di sottolineare che la formula dell’art. 117, comma 3, Cost. («ordinamento della comunicazione») non distingue tra reti televisive e infrastrutture di comunicazione nazionali e locali. Ci si deve allora chiedere se la potestà legislativa regionale di dettaglio sui contenuti e sulle modalità delle comunicazioni elettroniche e delle trasmissioni radiotelevisive oltre che applicarsi alle diffusioni in ambito regionale (come sembrerebbe confermato dall’art. 16, comma 2, lett. c), della legge n. 112 del 2004), si estenda anche alla disciplina dei contenuti delle comunicazioni elettroniche a livello nazionale nonché dei programmi della concessionaria del servizio radiotelevisivo pubblico() e delle emittenti private operanti su scala nazionale.

Contro una siffatta eccessiva conclusione può però osservarsi in primo luogo che la potestà legislativa statale relativa ai principi fondamentali dell’«ordinamento della comunicazione» si intreccia, nella disciplina dei contenuti della radiotelevisione e delle comunicazioni elettroniche, con la potestà esclusiva statale in materia di limiti alla manifestazione del pensiero a tutela dell’onore dei privati e delle istituzioni, del buon costume, dell’ordine e della sicurezza pubblica ecc. [art. 117, comma 2, lett. h) ed l)](); con la potestà esclusiva statale in materia elettorale [art. 117, comma 2, lett. p)], da cui sembrerebbe potersi dedurre l’attribuzione in favore dello Stato della potestà legislativa esclusiva della par condicio, ma, forse, non anche quella in materia di comunicazione politica(); infine con la potestà esclusiva statale in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale» [art. 117, comma 2, lett. m)] ().

A ciò dovrebbe poi essere aggiunto, quanto ai contenuti delle comunicazioni elettroniche e della disciplina dei servizi, che se è «difficile ipotizzare un ruolo regionale nella definizione di “contenuti ulteriori” (e differenziati) rispetto a quelli fissati dallo Stato» con riferimento alla disciplina del servizio universale(), non è invece impossibile prospettare, con riferimento alle reti regionali e pluriregionali (ma non nazionali), la possibilità del legislatore regionale di dettare regole di dettaglio sui contenuti e sui servizi. Con riferimento alle emittenti nazionali o ultraregionali, ancorché aventi la sede legale nel proprio territorio regionale, deve invece essere osservato che la potestà legislativa regionale concorrente potrebbe essere esercitata dalle singole Regioni, solo a seguito di accordi tra di esse sui contenuti normativi della disciplina regionale di dettaglio, sulla falsariga di quanto avviene in Germania con gli Staatsverträge stipulati tra i Länder(). E lo stesso dovrebbe ripetersi per le comunicazioni elettroniche.

In altre parole se deve prendersi sul serio il tenore della locuzione in esame, (che, a torto o ragione, non distingue tra reti nazionali e locali), si dovrebbe ritenere che, per disciplinare i contenuti delle trasmissioni televisive nazionali e delle reti di comunicazione elettronica, occorra un «accordo nazionale» (e, per i contenuti delle trasmissioni ultraregionali, un accordo interregionale) da pubblicare sulle singole Gazzette ufficiali regionali, al quale le singole Regioni sarebbero conseguentemente tenute ad adeguarsi nella loro specifica legislazione radiotelevisiva (si noti bene: gli Staatsverträge esistono in Germania sia per l'emittenza pubblica sia per l'emittenza privata operanti su scala nazionale).

Questa proposta, tempestivamente avanzata nelle più varie sedi, anche istituzionali(), ancorché coerente con l’architettura della riforma(), è stata però ritenuta «non facilmente attuabile in Italia data la mancata previsione di meccanismi di raccordo di questo tipo»(), il che è però discutibile, posto che la sede esiste, ed è la Conferenza dei Presidenti delle Regioni.

La verità è un'altra, e risiede nella volontà del Governo Berlusconi, sottesa alla cd. legge Gasparri, di conservare lo status quo ante delle reti Mediaset () e quindi di non lasciare nulla di sostanziale al legislatore regionale per ciò che attiene alla possibile disciplina dell’emittenza nazionale().

Al di là dei vizi d’incostituzionalità che contrassegnano la fase d’avvio del digitale terrestre come espediente per evitare che la terza rete Mediaset dovesse trasmettere esclusivamente via satellite() - vizi che qui interessano solo indirettamente -, sono comunque evidenti (e generalmente rilevanti), nella legge n. 112 del 2004, le violazioni del pluralismo che discendono tanto dai vantaggi concorrenziali che tale legge attribuisce agli incumbents rispetto ai new entrants (siano essi locali o nazionali) quanto dalla composita e stravagante struttura del Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC), che hanno entrambi costituito oggetto di tempestivi rilievi critici dell’AgCom, dell’Autorità Antitrust e, addirittura, del Presidente della Repubblica().

A ciò si aggiunga che la legge n. 112 del 2004 non solo solleva perplessità derivanti da ciò, che la previsione dei principi fondamentali per la disciplina legislativa regionale dell’«ordinamento della comunicazione» viene delegata al Governo(), ma le solleva altresì per il fatto che paradossalmente i limiti indicati dall’art. 16 come principi fondamentali [elencati al comma 2, lett. a), b), c), d), e), e), f)] varranno in concreto…per «come» essi saranno (in futuro!) «indicati» nel testo unico delle disposizioni legislative in materia di radiotelevisione().

Ebbene, è sorprendente che le Regioni non abbiano ritenuto di dover impugnare in via diretta la legge n. 112 del 2004. Che esse ne fossero direttamente pregiudicate discende da quanto si è detto relativamente alla spettanza alle medesime della potestà legislativa di dettaglio relativamente ai contenuti delle comunicazioni elettroniche e radiotelevisive, con conseguente possibilità delle stesse di «sviluppare una legislazione che valorizzi il criterio dell’articolazione territoriale della comunicazione come espressione delle identità e delle culture locali» (come appunto era stato auspicato dal Presidente della Repubblica nel messaggio alle Camere del 23 luglio 2002).

Ma non basta. La famosa sentenza n. 348 del 1990, già in precedenza citata, è stata notoriamente esaltata dalle Regioni e dalla cd. dottrina regionalista per i fatto che in tale decisione la Corte costituzionale ebbe ad affermare che l’informazione (pluralistica) costituisce «una condizione preliminare (…) per l’attuazione ad ogni livello, centrale o locale, della forma propria dello Stato democratico». Ma se ciò è vero, si deve allora sottolineare che le Regioni, non ricorrendo alla Corte contro la legge n. 112 del 2004, hanno mancato una grande occasione per far riaffermare quei valori fondamentali in un momento particolarmente cruciale per la nostra storia e per le nostre istituzioni.

(13/12/2004)


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