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Il presente saggio è destinato alla pubblicazione nella Rivista “Diritto pubblico comparato ed europeo” , n.4, 2004, all’interno di una sezione monografica della stessa dedicata alle democrazie protette e curata da Alfonso Di Giovine.

La libertà personale nell’emergenza costituzionale

di Tommaso Edoardo Frosini e Carla Bassu

(PDF Versione integrale con note)

Parte prima: 1.1. In una importante raccolta di studi di diritto pubblico comparato dedicata alla libertà personale e apparsa nel 1977, nella premessa vi si leggeva che “le tristi vicende dell’ordine pubblico e della convivenza civile in molti paesi […] hanno conferito al tema della libertà personale una attualità tanto indiscutibile quanto dolorosa”. Parole che a distanza di un quarto di secolo, possono essere nuovamente utilizzate per rappresentare la presenza di questo contributo, dedicato alla libertà personale nel diritto comparato, all’interno di una ricerca monografica sulle democrazie protette (e la protezione delle democrazie). Contributo che si divide in due parti: una prima, teorica, dedicata alla libertà personale in rapporto ad alcuni problemi, quali la sicurezza e la tecnologia; una seconda parte, invece, che affronta la vicenda del “caso Guantanamo” e le connesse sentenze della Corte Suprema U.S., svolgendo così una sorta di focus sulla libertà personale, alla luce di un recente evento giuridico-costituzionale assai significativo, che segna una tappa importante del costituzionalismo contemporaneo.

C’è da dire, che oggi più di ieri il tema della libertà personale si è imposto al centro della riflessione giuridico-costituzionale e deve essere analizzato secondo una prospettiva comparatistica: anche perché non è più un tema circoscrivibile alla sola dimensione nazionale. Dal tragico 11 settembre 2001 fino alla strage di bambini nella scuola russa dell’estate 2004, si è assistito con crescente sgomento, in ogni parte del mondo (da Madrid a Giacarta), a una sequenza di attentati, che hanno portato morte e distruzione, e che sono frutto di un terrorismo internazionale, che si caratterizza per la dimensione sovranazionale dell’organizzazione, per il fatto di essere operativo sull’intero pianeta e per la sua finalità, che è quella di voler colpire “il mondo occidentale e i suoi valori”. Tra quei valori che si vorrebbero soffocare c’è la libertà personale, quale primo, fondamentale tassello del mosaico del costituzionalismo liberale. E qui si pone il dilemma: come difendere la libertà personale?  E’ lecito difenderla ricorrendo a misure che la negano, o che comunque la limitano significativamente? I periodi di emergenza, quelli in cui viene a messa a repentaglio la tenuta democratica di un paese a causa di un nemico interno o esterno, sono sempre contrassegnati da legislazioni speciali, che riducono la libertà personale cercando però di non rompere con l’impianto costituzionale, magari ponendosi proprio al limite dello stesso. Per fare un esempio italiano, basti pensare alla legislazione emergenziale che venne varata negli anni Settanta e Ottanta durante il periodo del terrorismo rosso e nero (il quale, intendiamoci, è diversissimo dal nuovo terrorismo globale); tale legislazione, sia pur nel suo rigore e rigidità, non sconvolse la disciplina costituzionale dei diritti. Non si vuole qui affrontare il complesso tema della ammissibilità delle sospensioni o delle deroghe alla Costituzione; se queste possano, secondo la nota tesi del Mortati, intervenire su singoli istituti o, addirittura, sull’intero assetto costituzionale, sia pure a fine di conservazione e a titolo precario. C’è da dire però, che fin tanto che le Costituzioni liberaldemocratiche contemporanee non prevedano delle norme specifiche, in base alle quali vengono a essere regolamentate le situazioni di emergenza, derivanti dal terrorismo interno ed esterno, allora si dovrà necessariamente far ricorso a situazioni di deroga o sospensione di alcune garanzie costituzionali. Soltanto la Costituzione spagnola, condizionata fin dalla nascita dalla endemicità del terrorismo basco, ha disciplinato l’istituto della sospensione dei diritti e delle libertà prevedendo, all’articolo 55, che possano essere sospesi alcuni diritti “per persone determinate, in relazione alle indagini rispetto alla partecipazione a bande armate o a formazioni terroristiche”; rinviando poi a una legge organica il compito di definire in dettaglio la forma e i casi. Certo, altre Costituzioni, come noto, prevedono e disciplinano norme sull’emergenza, ma nessuna con specifico riguardo a quella provocata dal terrorismo, il quale proviene da luoghi indeterminati ed è svolto da soggetti che non coincidono con organizzazioni di stati territoriali. Questa è l’emergenza con la quale dover fare i conti nel Ventunesimo secolo. E lascia piuttosto perplessi il fatto che il Trattato costituzionale europeo taccia su questo specifico punto.

La situazione odierna, a fronte della continua minaccia terroristica, richiede però un’altra impostazione del problema. Come è stato scritto: “Nella realtà di questi anni il problema dei limiti si è posto prescindendo dalla instaurazione di un regime giuridico di formale sospensione delle garanzie […]. In altre parole la minaccia terroristica viene considerata come presente a lungo termine in quanto connaturata all’attuale stato dei rapporti della comunità internazionale e dei gruppi e organizzazioni non statali che si muovono nel suo ambito”. Si viene così a configurare una sorta di “normalizzazione dell’emergenza” affidata alla legislazione ordinaria, che si modella e si modula all’interno della costituzione materiale, in modo tale da “bypassare” gli eventuali effetti derogatori alla costituzione formale.

1.2. A rafforzare questo percorso interpretativo, dando a esso solidità e certezza, vi è il riconoscimento tra i diritti fondamentali – secondo un percorso di costituzionalismo già tracciato fin dalla storica Dichiarazione del 1789 – del “diritto alla sicurezza”, quale diritto dello stato nei rapporti internazionali e interni e diritto dei cittadini. E’ il bisogno di sicurezza, che si impone nella società odierna: sia come attività statale per tutelare il cittadino da rischi e pericoli sociali, sia come diritto fondamentale, quale condizione “per l’esercizio delle libertà e per la riduzione delle disuguaglianze”. La sicurezza, quindi, diviene un valore che assurge al rango di diritto della persona, nonché come situazione ambientale che caratterizza lo stato dell’intera comunità in cui la persona si esprime. Nella cultura giuridica europea si è venuto sempre più affermando il concetto di sicurezza come diritto: in Spagna, nella cui Costituzione (art.9, terzo comma) vi è un esplicito riferimento alla tutela della securidad juridica; in Francia, dove la sicurezza privata è divenuta un principio fondamentale di libertà del cittadini, affermato anche in via legislativa; in Germania, dove si è elaborato il concetto di Rechtssicherheit, inteso come sicurezza garantita dal diritto e quale concetto chiave dello stato di diritto in senso formale. Certo, va detto che il nuovo pensiero costituzionale si orienta all’ideale di sicurezza in modo altrettanto forte di quanto non si orienti all’ideale di libertà. La loro stretta interconnessione funzionale risulta chiara se si considera la dimensione della sicurezza del diritto. Molti dei classici diritti di libertà del liberalismo, primo fra tutti la libertà personale, possono realizzare la loro funzione sociale solo se sono diritti certi: certi nell’attribuzione e delimitazione della sfera di tutela, certi dal punto di vista del riconoscimento giurisprudenziale e certi con riferimento agli strumenti di sostegno statale. Questa funzione della certezza del diritto non ha perduto nulla del suo significato ma piuttosto alcuni presupposti della sua efficacia. Tanto più ampia diviene oggi la richiesta di garanzia della sicurezza, intesa principalmente come sicurezza civile-politica. Allora, l’intenzione del legislatore si deve rivolgere perciò direttamente ad assicurare i beni giuridici minacciati e messi in pericolo; in tal senso lo stato di diritto, che garantisce la certezza del diritto, viene a essere ampliato dallo stato di prevenzione, che deve direttamente tutelare i beni giuridici. Sicurezza, allora, significa non solo la coscienza della libertà garantita all’individuo ma l’affermazione di un’attività statale, che può essere in via di principio addirittura illimitata, per tutelare il cittadino da rischi e pericoli sociali causati dal crimine. Questa diretta intenzione di tutela dei beni giuridici nasconde, a sua volta, pericoli per la certezza del diritto, nel senso della garanzia della libertà.

Si può pertanto sostenere, che “libertà personale e sicurezza si presentano come le polarità con le quali bisogna in primo luogo fare i conti”. Senza restare prigionieri dell’alternativa secca tra libertà e sicurezza. Come è avvenuto nello spazio giuridico europeo, e precisamente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea il cui art.6 afferma: “Ogni individuo ha diritto alla libertà e alla sicurezza” (ribadendo quanto già previsto all’art.5, comma primo, della Cedu): questa disposizione si riferisce propriamente alla libertà personale, da intendersi altresì come “libertà della persona” e quindi comprensiva di gran parte dei cosiddetti “nuovi diritti”, quale i diritti di identità personale (diritto di immagine, diritto all’identità sessuale), alla integrità fisica (diritto alla vita) e alla interiorità (diritto di privacy, libertà di coscienza); mentre il richiamo alla sicurezza è stato finora interpretato, in dottrina e nella giurisprudenza della Corte Edu, come un rafforzamento della tutela della libertà personale.

E sempre in tema di libertà e sicurezza, come polarità con le quali occorre fare i conti, si può qui ricordare la recente vicenda del “muro” israeliano: ovvero della “barriera difensiva” eretta da Israele a tutela della propria popolazione contro gli attacchi kamikaze dei terroristi palestinesi. Senza volere entrare nei particolari, la vicenda va richiamata in quanto rappresentativa dell’atteggiamento assunto da uno stato con riferimento proprio alla polarità libertà-sicurezza, con netta preferenza per la seconda rispetto alla prima. La questione è stata oggetto di alcune significative pronunce giurisdizionali di diritto interno (la Corte Suprema israeliana) e internazionale (la Corte internazionale di giustizia dell’Aja) e poi di una decisione dell’Assemblea generale dell’Onu: ognuna delle quali, sia pure con diversa intensità, ha condannato la decisione del governo israeliano di alzare il muro, negando in tal modo a Israele lo stato di necessità. Perché il muro si edifica all’interno del territorio palestinese occupato, e così facendo viola i diritti umani dei palestinesi perché li sradica dal loro territorio di appartenenza. La vicenda del muro, al di là della drammatica situazione nel Medio Oriente, si viene a collocare proprio sulla questione, oggi centrale nelle democrazie contemporanee, di come bilanciare il diritto alla sicurezza con i diritti di libertà, e chi deve essere il custode del giusto bilanciamento. Problema questo, che affronteremo con maggiore estensione più avanti, con riferimento alla vicenda statunitense del “caso Guantanamo”. Qui ci si limita soltanto a segnalare un punto in comune tra la vicenda israeliana e quella americana, così come si sono venute a determinare a seguito dei rispettivi interventi giurisdizionali: entrambe rendono manifesta la volontà di affermare la forza prioritaria dei diritti fondamentali, anche in situazione di particolare gravità come quelle legate alla lotta contro il terrorismo. E’ l’affermazione dello stato di diritto, del principio di legalità; è la dimostrazione di come le democrazie siano in grado di proteggersi senza tradire e violare le regole sulle quali esse stesse si fondano; è l’indicazione di un percorso, difficile ma ineludibile, che ricerchi il punto di convergenza fra l’esigenza di lotta al terrorismo e il mantenimento delle garanzie.

1.3. Di fronte ai grandi problemi che attentano la libertà dei cittadini, come quelli finora riferiti del terrorismo internazionale, e le risposte che le democrazie provano a dare nel tentativo di riuscire a conciliare la libertà con la sicurezza, ci sono anche le quotidiane libertà, ovvero per dirla col titolo di un noto libro di Arturo Carlo Jemolo, “i problemi pratici della libertà”. Questi sarebbero in forte aumento, il che starebbe determinando una sostanziale diminuzione delle condizioni di libertà quotidiane, specialmente nei paesi occidentali. Un recente volume di Michele Ainis ha messo a nudo le libertà negate per mano degli Stati occidentali, i quali stanno sempre più assumendo varie forme di controllo e di gestione del privato, fino al punto di ridurre, e di molto, le quotidiane libertà del cittadino. In tale contesto, lo Stato sta diventando sempre più: poliziotto che, con l’ausilio delle nuove tecnologie, invade in forma crescente la riservatezza e il privato del cittadino; balia, in quanto pretende di imporre stili di vita salutisti ingaggiando crociate contro il fumo, gli alcolici, i grassi; avaro, perché lesina soldi destinati alla sanità, all’istruzione e all’assistenza, e quindi ai diritti sociali; moralista e censore, dal momento che condanna e punisce una serie di comportamenti che giudica “impropri” anche tra le mura domestiche. Ma non è solo lo Stato, ovvero l’indirizzo che questo sta assumendo nelle società occidentali, a ridurre le libertà. Sono anche gli eccessi di diritti, rivendicati sempre e ovunque, perché da un lato corrodono l’autorità della legge, dall’altro sviliscono il valore dei diritti nella coscienza collettiva. Così come l’inflazione di Corti dei diritti ha di fatto aumentato i conflitti di competenza e i contrasti giurisprudenziali, a scapito sempre più della tutela dei diritti di libertà del cittadino.

Le libertà negate passano attraverso una legislazione repressiva, che si espande in tutti gli Stati occidentali. Sul punto, il citato libro di Ainis è ricchissimo di esempi e di casi; a esso si rimanda per una casistica davvero internazionale e per la discussione teorica sui singoli aspetti. Tra il banco degli imputati, ovvero tra coloro che hanno concorso a ridurre la libertà personale c’è (anche) la tecnologia, la quale “offre in astratto formidabili occasioni di partecipazione alle scelte di governo, ma in concreto determina viceversa effetti d’istupidimento e di straniamento collettivo”; e poi, in essa aleggia sempre la minaccia dell’occhio elettronico che vigila, scruta e controlla, con i connessi rischi per la privacy. Su questo specifico aspetto del rapporto fra libertà e tecnologia, si vuole qui ribaltare la questione per sostenere, invece, come la tecnologia abbia di fatto aumentato le chances di libertà, e specialmente della libertà personale.

1.4. Anzi, la tecnologia ha determinato la nascita di una nuova forma di libertà personale: la libertà informatica. Tipico nuovo diritto scaturito dalla evoluzione della civiltà tecnologica, il diritto di libertà informatica manifesta un nuovo aspetto dell’antica idea della libertà personale e costituisce l’avanzamento di una nuova frontiera della libertà umana verso la società futura. Il diritto di libertà informatica assume una nuova forma del tradizionale diritto di libertà personale, come diritto di controllare le informazioni sulla propria persona, come diritto dello habeas data. L’evoluzione giurisprudenziale ha riconosciuto ed affermato questo nuovo diritto di libertà nei termini di protezione dell’autonomia individuale, come pretesa passiva nei confronti dei detentori del potere informatico, dei privati o delle autorità pubbliche. Con la legislazione sulla tutela delle persone rispetto al trattamento dei dati personali (presente in ogni Paese di democrazia costituzionale; in Italia, con la l. n.675 del 1996), arricchita da una normazione europea, la nozione del diritto di libertà informatica ha trovato riconoscimento nel diritto positivo; ma nel frattempo ha subìto una trasformazione, giacché il diritto di tutelare i propri dati si attua nei confronti di qualunque trattamento di essi, anche non elettronico; e ha subìto altresì un mutamento del suo carattere, prima ispirato al principio della difesa dinanzi al potere informatico, ora considerato come un diritto attivo di partecipazione del cittadino al circuito delle informazioni. Emerge così il problema del riconoscimento di un diritto all’identità personale come nuovo diritto della personalità, costituito dalla proiezione sociale della personalità dell’individuo cui si correla un interesse del soggetto ad essere rappresentato nella vita di relazione con la sua vera identità. La libertà di custodire la propria riservatezza informatica è divenuta anche libertà di comunicare ad altri le informazioni trasmissibili per via telematica, per esercitare così la libertà di espressione della propria personalità avvalendosi dei sistemi di comunicazione automatizzata.

E proprio con riferimento alla libertà informatica e il suo sviluppo entro la cornice del costituzionalismo, si ricorda qui l’importante decisione della Corte Suprema U.S. del 1997, a proposito del rapporto fra Internet e le libertà costituzionali. La questione originava da una pronuncia di incostituzionalità della Corte distrettuale della Pennsylvania nei riguardi del Communications Decency Act (quale Titolo V del Telecommunications Act, la legge di riforma delle telecomunicazioni approvata dal Congresso nel 1996), che regolamentava i contenuti indecenti su Internet, perché in contrasto con il Primo Emendamento alla Costituzione degli Stati Uniti. La Corte Suprema nel confermare la decisione di incostituzionalità della legge, metteva in evidenza il profilo di manifestazione del pensiero piuttosto che quello relativo alla riservatezza e segretezza della comunicazione. Vale la pena citare l’affermazione con la quale si chiude la sentenza: “I fatti accertati dimostrano che l’espansione di Internet è stata, e continua ad essere, fenomenale. E’ tradizione della nostra giurisprudenza costituzionale presumere, in mancanza di prova contrarie, che la regolamentazione pubblica del contenuto delle manifestazioni del pensiero è più probabile che interferisca con il libero scambio delle idee piuttosto che incoraggiarlo. L’interesse a stimolare la libertà di espressione in una società democratica è superiore a qualunque preteso, non dimostrato, beneficio della censura”. La sentenza esamina il fenomeno Internet come problema costituzionale, evidenziandone i limiti ma soprattutto le potenzialità ai fini di un accrescimento delle libertà, e quindi estrapola dal vecchio Primo Emendamento, che è del 1791, le forme di tutela e garanzia per la libera espressione del pensiero su Internet. Il messaggio che ci arriva, allora, è quello, ancora una volta, delle straordinarie capacità ermeneutiche del testo costituzionale, i cui principi possono essere adattati a tutti i tempi e a tutti gli scenari tecnologici. La Corte Suprema nell’utilizzare il Primo Emendamento, come parametro per l’incostituzionalità della legge repressiva della libertà in Internet, lo ha reinterpretato alla luce del ventesimo secolo; cioè lo ha fatto rivivere dando ad esso un nuovo significato, che non è e non può essere quello originario. Pertanto, il Primo Emendamento alla Costituzione americana nell’età tecnologica protegge non solo il tradizionale diritto di libertà del pensiero ma anche la libertà di parola elettronica, la libertà di stampa elettronica, la libertà di riunione elettronica. Insomma, il Primo Emendamento alla Costituzione afferma e garantisce il diritto di libertà informatica, quale nuovo diritto di libertà costituzionale ricavabile dai tradizionali diritti e principi costituzionali, che vanno letti e interpretati nel contesto della società tecnologica.

Anche nell’Europa costituzionale che sta per nascere, si è affermato il principio della libertà informatica, che è stato introdotto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000. In questo testo, il quale sia pure ancora privo di cogenza giuridica sta però esercitando influenza sull’interpretazione di norme interne e addirittura di principi costituzionali, all’art.8, dedicato alla Protezione dei dati di carattere personale, si afferma che: “Ogni individuo ha il diritto di protezione dei dati di carattere personale che lo riguardano. Tali dati devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate e in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni individuo ha il diritto di accedere ai dati raccolti che lo riguardano e di ottenerne la rettifica […]”.  E si può anche segnalare l’art.11 della stessa Carta, laddove nell’affermare la libertà di espressione e quella d’informazione stabilisce che queste sono esercitate “senza limiti di frontiera”. Un richiamo questo, che ci appare significativo anche ai fini di una tutela della libertà di comunicare via Internet; sebbene, sul punto sarebbe opportuno che proprio l’Europa provasse a darsi delle regole comuni agli Stati membri per assicurare a tutti l’uso libero di Internet, e quindi un diritto comune di Internetgiammai come vincolo alla libertà in rete ma piuttosto come condizione per la sua corretta espansione. Lo slogan “libere reti in libero cyberspazio” per quanto possa essere efficace e suadente cozza con un principio che noi giuristi conosciamo bene, ovvero che la libertà ha sempre bisogno di un quadro istituzionale che le consenta di rimanere al riparo dagli attacchi che a essa possono essere portati anche senza una volontà censoria.

La libertà informatica comprende anche la libertà politica e l’organizzazione istituzionale. Sul punto, non ci si sofferma. Certo, non si può negare che nelle società contemporanee si assiste a un crescente avanzamento della cosiddetta “democrazia elettronica”. Una concezione questa, che ha ricevuto opposte valutazioni, dividendosi i suoi interpreti in due schiere, l’una di sostenitori e l’altra di detrattori, divisi sulla risposta alla questione di fondo, che può essere così formulata: l’impatto politico delle tecnologie informatiche su quei fragili sistemi complessi che sono le democrazie contemporanee favorirebbe la costruzione di un agorà o di un totalitarismo elettronici?.

1.5. Non si vuole fare qui una miope apologia della tecnologia quale strumento di libertà; a essa vanno riconosciuti dei meriti, come si è finora detto, ma anche dei rischi. E’ normale che sia così. C’è una torsione verso il controllo diffuso e capillare, la sorveglianza in luogo della libertà, nella quale il bilanciamento democratico tra sicurezza e libertà rischia di entrare fortemente in crisi, proprio perché non riesce a bilanciarsi come dovrebbe. Certo, va altresì detto, che a fronte di un uso finalizzato a espandere le forme di libertà, oggi la tecnologia è adoperata soprattutto a fini di creare strumenti per la sicurezza. Con una ricaduta limitativa delle libertà. Si pensi al progetto dell’amministrazione americana, il Terrorism Information Awareness System, con il quale si vuole programmare il controllo totale sulle comunicazioni di tutti i cittadini del mondo! E poi, a prescindere dai progetti in atto, si pensi a tutta la legislazione “post 11 settembre” varata nei Paesi occidentali, per rendersi conto di quanto è rilevante, se non addirittura determinante, il contributo degli strumenti tecnologici per la tutela della sicurezza. Prendiamo quale esempio, con riferimento all’uso degli strumenti tecnologici, la legge varata negli Stati Uniti d’America, quale la USA Patriot Act del 26 ottobre 2001. Ebbene, questa legge prevede la possibilità di svolgere, da parte degli organi di polizia e sicurezza, un sistematico controllo dei movimenti on-line, e quindi conversazioni telefoniche, messaggi e-mail, navigazioni sul web, cartelle cliniche, senza la preventiva richiesta di autorizzazione all’autorità giudiziaria, pertanto privi di qualsiasi forma di garanzia; prevede altresì l’obbligo a carico dei Provider Internet di concedere informazioni confidenziali, ovvero dati personali dei propri clienti, alle forze di polizia o ai servizi di sicurezza; prevede ancora la facoltà in capo alle forze di polizia di eseguire intercettazioni telefoniche sulla stessa persona e su più apparecchi, in presenza di un semplice sospetto, utilizzando un solo provvedimento autorizzatorio. Per queste previsioni, insieme ad altre non meno limitative, la legge, nonché le misure successivamente adottate (come il President Issues Military Order del 13 novembre 2001), è stata da subito oggetto di forti critiche da una parte della dottrina giuridica americana, che ha denunciato il sacrificio delle libertà civili in nome della sicurezza nazionale, evidenziando l’avvenuta violazione della Costituzione, perché consente al governo di operare in segretezza e di condurre indagini a carico di individui sospetti senza dover rispettare i tradizionali limiti giuridici.

Certo, qui più che la sicurezza è la prevenzione, che induce a regolamentare fattispecie che possono stridere e confliggere con la libertà personale. E’ stato affermato, che “lo stato di prevenzione è lo stato dell’aspirazione della massima sicurezza. Sembra paradossale ma è così: le strategie di prevenzione intese a produrre e garantire questa sicurezza finiscono per distruggere la certezza del diritto”. C’è da dire, però, che mentre le politiche di sicurezza dovrebbero indirizzarsi alla tutela dei cittadini dalla percezione di insicurezza, sia questa collegata o meno alla presenza di fenomeni criminali, le politiche di prevenzione, invece, sono dirette a impedire che vengano commessi reati e dovrebbero quindi tutelare i cittadini dal rischio oggettivo di essere vittime di eventi criminosi. Il bisogno di sicurezza e la domanda di tutela che ne consegue possono nascere sia da una situazione di oggettiva esposizione al rischio, sia da una percezione di insicurezza non fondata oggettivamente su una minaccia di criminalità. Mentre le politiche di prevenzione intervengono sulla prima di queste due situazioni, le politiche di sicurezza si rivolgono soprattutto alla seconda e rappresentano quindi una risposta più globale rispetto alle strategie preventive in senso stretto. Il privilegiare l’uno o l’altro dei due termini dipende da molti fattori: dalle caratteristiche delle politiche criminali di questo o di quel paese, dagli orientamenti criminologici prevalenti, dai tipi di attori istituzionali che si assumono la responsabilità di rispondere alla richiesta di sicurezza.

E’ giunto ora il momento di esaminare il “caso Guantanamo”, una vicenda nella quale le questioni finora accennate trovano tutte una loro concretezza. Riemerge altresì, con forza e nettezza, il problema di dover fare i conti con le due polarità: libertà personale e sicurezza. Ma il suo epilogo è una grande lezione di costituzionalismo, che proviene ancora una volta dalla Corte Suprema. In nome e a tutela delle civil liberties, che sono a fondamento di ogni edificio di democrazia costituzionale: a limitarle, ad attenuarle oppure a metterle in discussione, si rischia di produrre una crepa irreparabile sull’edificio stesso.

Parte seconda: 2.1 La centralità che la questione del trattamento dei detenuti nella base americana di Guantanamo occupa nel dibattito internazionale, costituisce la dimostrazione di come le tematiche relative al rispetto dei diritti fondamentali in generale, e alla garanzia della libertà personale in particolare, abbiano assunto una posizione di assoluta priorità in ambito mondiale. La mobilitazione delle Organizzazioni internazionali e l’interessamento che istituzioni, media e opinione pubblica rivolgono a tale situazione, rivelano una ferma volontà di opporsi ai soprusi che si manifestano nello slancio a comprendere a pieno le dinamiche delle operazioni di bilanciamento di interessi, che possono giustificare e rendere legittime le limitazioni alle libertà individuali ma che devono sempre comunque tradursi in misure eccezionali e limitate nel tempo.

La politica attuata dal Governo degli Stati Uniti nei confronti dei soggetti ritenuti conniventi con la rete terroristica, non è stata altro che la reazione alla situazione di emergenza causata dall’ondata di terrorismo abbattutasi sull’Occidente a partire dai tragici eventi dell’11 settembre 2001. Come spesso accade in casi simili, quelle nate come misure di emergenza si sono consolidate fino a divenire prassi costante, determinando un clima di incertezza ed il reiterarsi di interventi fortemente repressivi della libertà individuale. Per comprendere a pieno la portata delle azioni governative in questo senso, è necessario percorrere a ritroso il travagliato processo storico e politico intrapreso negli ultimi tre anni negli Stati Uniti, operando una ricostruzione delle vicende che hanno portato al determinarsi dello status quo. Una volta chiarito l’antefatto storico, occorre individuare le condizioni in base alle quali è stato possibile per l’Esecutivo americano porre in atto interventi eccezionalmente repressivi e limitativi della libertà personale. In particolare, appare opportuno concentrare l’attenzione sui presupposti giuridici che hanno permesso al Governo di agire in deroga alla clausola del Due Process of Law, che garantisce i cittadini dall’arbitraria privazione della libertà, della vita, della proprietà, disponendo per tutti il diritto ad un “giusto processo”.

Attraverso l’esame del “caso Guantanamo” è possibile considerare fino a che punto un potere dello Stato possa intervenire sulla sfera dei diritti soggettivi in ragione di un fine superiore, come la sicurezza nazionale; quali siano gli strumenti in possesso degli individui per rivendicare i propri diritti e quali i meccanismi di bilanciamento e le possibilità di riequilibrio del sistema. Questa vicenda si rivela esplicativa delle dinamiche istituzionali operanti in un sistema democratico consolidato come quello statunitense, e ci consente di individuare gli strumenti predisposti dall’ordinamento per proteggere se stesso.

2.2. In seguito agli attentati dell’11 settembre, rivendicati dall’organizzazione terroristica “Al Qaeda”, gli Stati Uniti guidano una spedizione militare in Afghanistan al fine di debellare il regime talebano, reo di avere offerto appoggio e ospitalità al leader di “Al Qaeda”, Osama Bin Laden, e ai suoi seguaci. Nel corso del conflitto armato centinaia di persone, ritenute direttamente o indirettamente coinvolte nel networkinternazionale del terrore, sono fatte prigioniere dalle forze statunitensi e trattenute nei carceri militari in Afghanistan, per poi essere trasferite nella base navale di Guantanamo, dove anni prima venivano ospitati i rifugiati cubani e haitiani. E’ probabile che sulla scelta di questa destinazione abbia giocato un peso determinante il fatto che l’Amministrazione Bush ritenesse tale luogo sottratto alla giurisdizione delle Corti statunitensi, ma su questo specifico punto torneremo in seguito.

Gli Stati Uniti non hanno mai comunicato l’identità dei soggetti catturati e, fin dal momento dell’arresto, i prigionieri sono stati sottoposti a ripetuti interrogatori in assenza di garanti legali; non è stato loro concesso alcun contatto con i familiari e nessuno ha avuto l’opportunità di usufruire di consulenza legale. L’importanza strategica della base militare di Guantanamo fa si che l’accesso sia precluso ai civili non autorizzati e solo alcuni giornalisti hanno potuto visitare la base, a condizione di rispettare il tassativo divieto di tenere alcun contatto con i prigionieri. Il Governo statunitense ha creato a Guantanamo quello che un tribunale britannico ha definito “a legal black hole: dato che i detenuti non hanno avuto modo di affrontare un regolare procedimento giudiziario nell’ambito del quale impostare una difesa ad accuse, che spesso non sono state formulate chiaramente.

E’ in ragione della situazione straordinaria dettata dall’emergenza terrorismo, che il Congresso emette la Joint Resolution n. 23 con la quale autorizza il Presidente «to use all necessary and appropriate force against those nations, organizations or persons he determined planned, authorized committed, or aided the terrorists attacks on September 11, 2001». L’Esecutivo è messo così in condizione di poter gestire nel migliore modo possibile lo stato di emergenza, che viene dichiarato con la Declaration of National Emergency by Reason of certain terrorist Attacks e che comporta, tra le tante misure straordinarie previste a tutela della sicurezza nazionale, la possibilità di agire in deroga all’ordinario apparato di garanzie giurisdizionali. L’Esecutivo statunitense assume così anche l’autorità di determinare unilateralmente lo status degli individui arrestati, senza che a tal fine sia interpellato un tribunale. Questo comporta che, nonostante i prigionieri siano accusati di aver violato norme di diritto internazionale, non necessariamente a essi verranno applicate le disposizioni previste dalla Convenzione di Ginevra del 1949: le quali, sostiene il Governo, riguardano solo i prigionieri di guerra. L’Esecutivo nega l’applicazione della Convenzione di Ginevra ai detenuti di Guantanamo, perché afferma che al momento della cattura essi non indossassero uniformi o segni di appartenenza a uno Stato belligerante e perciò non possono essere considerati prigionieri di guerra. Essi vengono invece indicati come “unlawful combatants”, “enemy combatants” o “enemy aliens”, nel caso in cui si tratti di cittadini stranieri. Secondo le stime statunitensi, circa i due terzi dei detenuti, di nazionalità dell’Arabia Saudita, pakistana, yemenita, algerina, australiana, svedese, britannica, belga e francese, appartiene all’organizzazione “Al Qaeda” definita “nonstate actor”, e ciò comporta la loro sottrazione alla sfera di protezione della Convenzione, visto che questa trova piena applicazione nel caso in cui uno Stato contraente sia sotto occupazione o nell’ipotesi in cui Paesi firmatari abbiano intrapreso una “guerra dichiarata” o un “conflitto armato”. A proposito dell’applicazione delle leggi internazionali in materia di diritti umani, in un memorandum del 22 gennaio 2002, redatto dal capo dell’ufficio legale del Dipartimento di Giustizia, Jay. S. Bybee, si afferma che il Presidente Bush non è vincolato dalle leggi internazionali nei confronti dell’Afghanistan perché questo è un “failed State”, vale a dire uno “Stato mancato”, e in quanto tale non farebbe parte della comunità internazionale degli Stati soggetti alla legislazione internazionale. Dunque, secondo il memorandum, lo status di “failed State” dell’Afghanistan costituisce da solo motivo sufficiente perché il Presidente sospenda la Convenzione di Ginevra.

L’atteggiamento del Governo americano nei confronti dei detenuti per terrorismo, richiama l’attenzione degli osservatori internazionali e provoca accese contestazioni e proteste da più fronti, istituzionali e no. Sulla base della Dichiarazione americana dei diritti e dei doveri dell’uomo, alcuni attivisti per i diritti umani presentano, nel 2002, un’istanza di fronte alla Inter-American Commission of Human Rights, denunciando la violazione da parte degli Stati Uniti di numerosi accordi internazionali. La Commission of Human Rights,quale misura preliminare, chiede agli Stati Uniti di “provvedere urgentemente a quanto necessario perché lo statuslegale dei detenuti di Guantanamo sia determinato da un tribunale competente”. Tuttavia il Governo americano si rifiuta di obbedire, contestando il fatto che la Commissione abbia la competenza di richiedere “precautionary measures” e di sollecitare l’applicazione del diritto internazionale umanitario.

Nel novembre 2001, il Presidente George W. Bush emette un Presidential Ordersulla detenzione, il trattamento e il procedimento nei confronti di alcuni non-cittadini nella guerra al terrorismo, e dichiara che «an extraordinary emergency for national defense purposes necessitate extraordinary treatment of any noncitizen whom we should determine belongs to Al Qaeda or is somehow involved in acts of international terrorism, harmful to the United States, its citizens, national security, foreign policy or economy». Nel ricordato decreto presidenziale emesso in forza dei pieni poteri conferiti dal Congresso, Bush ordina al Segretario di Stato di arrestare e trattenere coloro i quali rispondano alla definizione di “enemy alien” (“combattente nemico”). Va ricordato che la qualifica di “enemy alien” è stata utilizzata per la prima volta nel 1942, in una decisione nella quale la Corte Suprema, chiamata a sindacare sulla legittimità di un processo speciale di fronte a “Commissioni militari” a carico di alcuni sabotatori tedeschi, si dichiarò incompetente a giudicare sui prigionieri di guerra, i quali però non erano propriamente tali e fu perciò coniata l’inedita definizione di “enemy aliens. Tale qualifica è stata poi adottata anche durante la seconda Guerra Mondiale nei confronti di cittadini giapponesi residenti negli Stati Uniti, i quali erano stati privati della libertà personale per tutta la durata del conflitto, in ragione della loro supposta infedeltà alla Costituzione americana. Accusa questa rivelatasi poi del tutto infondata.

Di particolare interesse risulta il preciso riferimento che il Governo fa ai “non cittadini” coinvolti in attività terroristiche, nell’indicarli come destinatari di misure straordinarie e non soggetti agli strumenti di tutela garantiti a un cittadino statunitense. La differenza di trattamento emerge chiaramente nel momento in cui si scopre che alcuni degli arrestati sono di nazionalità americana: come John Walker Lindh, un californiano residente in Medio Oriente, il quale viene catturato in Afghanistan e mandato direttamente in un carcere militare della Virginia, dove da subito gli è concesso di usufruire dell’ assistenza legale per difendersi dalle accuse a lui rivolte di fronte ad un tribunale federale. Più complicata è, invece, la vicenda di Yaser Esam Hamdi: il quale, residente in Arabia Saudita, ha passato quasi due anni di reclusione a Guantanamo prima che gli ufficiali statunitensi si convincessero del fatto che fosse nato in Louisiana, e che non avesse mai rinunciato alla cittadinanza americana; anche Hamdi viene trasferito in Virginia, ma al contrario di Lindh non è processato da un tribunale federale.

Il Presidential Order del novembre 2001 dispone che i “nemici combattenti” detenuti a Guantanamo ricevano a “human and non-discriminatory treatment e che, nel caso in cui vengano sottoposti a procedimento, siano giudicati da speciali tribunali militari, per violazioni del diritto di guerra. L’espletamento dei processi viene dunque affidato a speciali Commissioni militari, organi creati ad hoc, sui generis, situati al di fuori degli ordinari percorsi di giustizia, sia civile che militare, poiché «adherence to the principles of law and the rules of evidence generally recognizd in federal criminal courts was deemed not practicable». Uno dei punti focali del decreto presidenziale è costituito proprio dal passaggio in cui si dispone che «enemy aliens, when tried, will to be tried for the violations of the laws of war and other applicable laws by military tribunals». Il Presidente afferma che la predisposizione di un procedimento legale nei confronti degli enemy aliens sia solo un’ipotesi eventuale: elemento questo tutt’altro che trascurabile dal momento che, ipoteticamente, coloro i quali non subiscano un processo potrebbero rimanere in detenzione per un tempo indeterminato, o perlomeno fino a quando lo stesso Capo dell’Esecutivo non disponga altrimenti. A questo proposito risulta eloquente la dichiarazione del Vicepresidente Dick Cheney: «The detainees do not deserve the same guarantees and safeguards that would be used for an American citizen going through the normal judicial process».

Il Presidential Order, rinforzato da alcuni provvedimenti del Dipartimento della Difesa, dispone comunque l’organizzazione di processi da tenersi di fronte a commissioni militari appositamente formate, e composte da tre fino a sette ufficiali nominati da una speciale Appointing Authority del Dipartimento di Difesa. Ciò però determina l’effettiva realizzazione di un percorso giudiziario parallelo a quello istituzionale, che proprio per questo rifugge dalle regole e dai meccanismi di garanzia e di controllo predisposti nell’ambito dell’ordinamento. Pertanto, affidando i processi ai detenuti di Guantanamo a speciali commissioni militari, il Governo degli Stati Uniti ha escluso la competenza dei tribunali del paese a giudicare la legalità delle azioni da esso intraprese nei confronti dei soggetti ritenuti collegati a organizzazioni terroristiche, per quanto esse possano aver comportato la violazione dei principi sanciti nella Costituzione e delle norme di diritto internazionale. Ma i procedimenti di fronte a queste commissioni possono ritenersi legali?

2.3. La competenza dei tribunali militari dovrebbe limitarsi soltanto al giudizio sulla violazione delle norme del diritto di guerra, mentre il decreto presidenziale di Bush, nel definire l’ambito di azione delle Military Commissions, dispone che esse siano competenti a giudicare anche other applicable laws, senza fornire ulteriori dettagli sulla natura di tali atti. Previsione questa che risulta priva di fondamento costituzionale e legale. Considerando ancora una volta le Convenzioni internazionali come parametro di riferimento, alcuni dubbi sono stati sollevati circa la legalità dei tribunali militari previsti dal decreto presidenziale: sia la già citata Convenzione di Ginevra che la Convenzione internazionale sui diritti civili e politici sanciscono, infatti, il diritto imprescindibile per qualsiasi soggetto di essere sottoposto a procedimento di fronte a tribunali “regularly constituted”, escludendo quindi la legittimazione di Corti predisposte ad hoc e disciplinate da regolamenti speciali.

Già nel 2001 vennero intraprese, di fronte ai tribunali statunitensi, azioni di habeas corpus per conto di alcuni detenuti di Guantanamo, i quali si trovano evidentemente nella materiale impossibilità di agire direttamente a tutela della propria condizione. Nella maggior parte dei casi, le opinioni delle Corti federali interpellate limitano l’applicazione degli strumenti di tutela costituzionale al territorio statunitense e ai soggetti di nazionalità americana, supportando così di fatto le posizioni del Governo che afferma che l’extraterritorialità della base di Guantanamo renda incompetenti per giurisdizione tutti i tribunali americani.

Alla luce di una disposizione dello Statuto federale sullo habeas corpus, che prevede che la petizione possa essere presentata anche “on behalf of another, la prima istanza viene inoltrata da un gruppo di ecclesiastici, avvocati e professori, i quali rivendicano il proprio potere di rappresentare soggetti ai quali è negato l’accesso alle corti. Nel novembre 2002, la Court of Appeals of Ninth Circuit dichiara l’impossibilità a procedere per la mancanza di legittimazione dei promotori, i quali non hanno l’autorità di presentare petizioni di habeas corpus per conto di individui che non hanno mai conosciuto, e nel maggio 2003 la Corte Suprema nega il certiorari.

Una seconda istanza (Al Odah v. United States) viene invece predisposta da parenti stretti di alcuni detenuti, che la presentano alla Corte d’Appello per il Distretto di Columbia Circuit. Con una pronuncia del marzo 2003 la Corte rigetta le richieste, facendo riferimento al precedente di una decisione della Corte Suprema sul caso Johnson v. Eisentrager del 1950 . In quella decisione, la Corte Suprema aveva stabilito che le Corti statunitensi non fossero competenti a esaminare le petizioni di habeas corpus presentate da alcuni agenti segreti tedeschi, i quali furono arrestati, processati e reclusi dalle autorità statunitensi in Cina per aver commesso crimini di spionaggio durante la seconda Guerra mondiale, e dopo furono incarcerati nella prigione di Landsberg, in Baviera, dove gli americani trattenevano i criminali di guerra. Attenendosi alla linea dettata da questa sentenza, la D.C. Circuit Court afferma che nessuna Corte statunitense abbia l’autorità giurisdizionale di giudicare i casi relativi ai detenuti di Guantanamo, perché tale base navale non è situata su territorio statunitense.

La Corte d’Appello per il Distretto di Columbia Circuit mette in evidenza il fatto che entrambi i casi di Al Odah v. United States e Johnson v. Eisentrager riguardano cittadini stranieri catturati all’estero nel corso di operazioni militari i quali, pur essendo tenuti in detenzione dalla forze armate americane, non hanno mai messo piede su suolo statunitense, e conclude osservando che nel caso “Eisentrager” la concorrenza di questi fattori ha precluso ai detenuti la possibilità di intraprendere le possibili vie di tutela dei propri diritti di fronte alle Corti federali degli Stati Uniti. La Corte osserva inoltre come la maggioranza dei giudici in “Eisentrager” avesse optato per negare il “privilege of litigation”, non per il fatto che i ricorrenti fossero enemy aliens bensì proprio perché le garanzie costituzionali non sono estensibili a stranieri che si trovino al di fuori del territorio di sovranità degli Stati Uniti. A parere della D.C. Court of Appeals, la base di Guantanamo non può essere considerata come parte del territorio americano, perché la sovranità non è mai passata nelle mani degli Stati Uniti ma è rimasta sempre alla Repubblica cubana. Tuttavia, dal testo del “Lease Agreement” tra Stati Uniti e Cuba, entrato in vigore nel 1903 e incorporato nel 1934 in un trattato stipulato dalle due nazioni, si evince chiaramente che Guantanamo è sotto il controllo esclusivo degli Stati Uniti, e deve essere perciò considerata indiscutibilmente come parte integrante il territorio statunitense. L’art. III del Lease Agreement, infatti, prevede che, «while on the one hand the United States recognizes the continuance of ultimate sovereignity of the Republic of Cuba over the above described areas of land and water, on the other hand the Republic of Cuba consents that during the period of occupation by the United States of said areas under the terms of this agreement the United States shall exercise complete jurisdiction and control of said areas». L’attribuzione della cosiddetta “ultimate supremacy” a Cuba, non significa che la Repubblica di Cuba sia titolare della sovranità su Guantanamo durante il periodo in cui questa zona è soggetta al controllo degli americani: il Trattato stabilisce semplicemente che quando gli Stati Uniti lasceranno Guantanamo, la sovranità tornerà a Cuba. L’interpretazione autentica del Trattato fornita dal Governo statunitense chiarisce il significato del termine “ultimate supremacy”, osservando che «It is interpreted that Cuban sovereignity is interrupted during the period of our occupancy, since we exercise complete jurisdiction and control, but in case occupation were terminated, the area would revert to the ultimate sovereignity of Cuba».

Il punto di svolta, destinato a segnare l’evoluzione delle vicende istituzionali e costituzionali relative al caso Guantanamo, si ha il 10 novembre 2003, quando la Corte Suprema annuncia che esaminerà il caso Al Odah e si pronuncerà in risposta al quesito: “Se le Corti degli Stati Uniti siano o meno competenti a sindacare circa la legalità della detenzione di detenuti stranieri, catturati all’estero, nell’ambito di ostilità e incarcerati nella base navale di Guantanamo, Cuba”. Successivamente la Corte ammette anche le petitions for writ of certiorari di Rasul et al v. United States, Hamdi v.United States e Padilla v. Rumsfeld.

2.4. Il 28 giugno 2004 la Corte emette tre sentenze con le quali, sei voti contro tre, afferma definitivamente il diritto alla difesa per americani e stranieri, sostenendo che ogni detenuto, a prescindere dalla nazionalità, possa contestare la legalità della sua detenzione davanti a un tribunale degli Stati Uniti.

La Corte afferma l’illegittimità costituzionale dell’azione governativa, dal momento che la Costituzione non permette al Governo di trattenere sospetti “combattenti nemici” o terroristi per un tempo indefinito: senza che essi siano formalmente incriminati, senza che venga loro concesso tutto il tradizionale apparato strumentale di protezione e garanzia del procedimento penale statunitense. A meno che questi soggetti siano effettivamente trattati come prigionieri di guerra; in questo caso, essi dovrebbero comunque usufruire dei benefici e degli strumenti di tutela garantiti dal diritto internazionale, con particolare riferimento al dettato della Convenzione di Ginevra.

Per comprendere il significato delle sentenze su Guantanamo, e il peso determinante da esse esercitato sull’equilibrio costituzionale statunitense, occorre mettere in evidenza come queste abbiano comportato l’effettiva limitazione dei poteri eccezionali concessi al Presidente dal Congresso all’indomani dell’11 settembre. La Corte non contesta l’autorità dell’Esecutivo in un momento di emergenza, né mette in discussione lo stato di eccezione, ma interviene comunque per riaffermare l’inviolabilità del diritto che ognuno ha di tutelare il proprio bene più prezioso, vale a dire la libertà personale, e così facendo interviene materialmente sull’azione governativa.

2.4.1. Relativamente al caso Hamdi v. Rumsfeld, otto giudici, tutti tranne Clarence Thomas, ritengono illegale a principio la detenzione di quasi due anni inflitta al cittadino americano Yaser Esam Hamdi, affermando che tale reclusione sarebbe stata legittima solo nel caso in cui la designazione come “enemy combatant” fosse stata accertata da un tribunale. Il fatto che a Hamdi sia stata negata la possibilità di difendersi di fronte a un giudice, costituisce una indubbia violazione del principio costituzionale del due process of law. La legge federale prevede che nessun cittadino possa essere trattenuto e recluso dagli Stati Uniti, a meno che ciò non sia fatto alla luce del dettato di un atto del Congresso. L’Authorization for Use of Military Force Act, emesso dal Congresso all’indomani dell’11 settembre, effettivamente conferisce al Presidente il potere di detenere prigionieri catturati in battaglia fino al termine delle operazioni militari, al fine di impedire che questi si ricongiungano al nemico per combattere ancora.

Il giudice relatore della decisione, Sandra Day O’Connor, tuttavia, osserva che la Corte non è tenuta a sindacare se, alla luce dello Authorization Act del Congresso, il Presidente abbia o meno l’autorità di detenere enemy combatants, ma deve bensì giudicare se l’esercizio da parte dell’Esecutivo del potere di tenere in reclusione individui senza un regolare processo violi o meno il V Emendamento, il quale dispone che «no person may be deprived of liberty without due process of law». La questione dunque è di rilievo puramente costituzionale, e può essere risolta solo operando un bilanciamento tra la necessità di preservare la sicurezza nazionale, messa in pericolo dagli attacchi terroristici, con il tentativo di evitare il grave danno arrecato ad una persona, che si trovi ad essere ingiustamente imprigionata per un periodo di tempo indefinito.

La Corte Suprema afferma che la Virginia District Court, adita in primo grado, abbia garantito un’eccessiva protezione all’individuo a scapito della sicurezza, sostenendo che Hamdi potesse essere detenuto solo nel caso in cui, nell’ambito di un processo penale ordinario, fossero state prodotte a suo carico prove che dimostrassero inequivocabilmente la sua natura di “enemy combatant”. D’altra parte, la Corte d’Appello del quarto circuito aveva operato uno sbilanciamento in senso inverso, affermando che per il solo fatto che Hamdi fosse stato catturato «in a theater of military action», la dichiarazione con cui il Presidente lo definiva nemico combattente non potesse essere in assoluto messa in discussione. Il giudice O’Connor conclude affermando che affinché si realizzi “the proper balance” è necessario che un cittadino-detenuto, il quale non si riconosce nella definizione di nemico combattente, debba essere messo al corrente degli elementi in base ai quali la classificazione è stata operata, e abbia l’opportunità di controbattere alle accuse del Governo di fronte a un “neutral decisionmaker.

L’alto e generalizzato grado di protezione sancita dalla affermazione sopra riportata, sembra essere smorzato quando la controlling opinion entra nel dettaglio e si legge che i “tribunali neutrali”, cui si fa riferimento, non devono essere necessariamente corti ordinarie, ma è sufficiente che siano «appropriately authorized and properly constituted military commissions». O’ Connor suggerisce inoltre che venga invertito il criterio ordinario dell’onere della prova, di modo che non sia il Governo a dover dimostrare che un detenuto è unenemy combatant, ma sia invece il prigioniero a dover provare la propria estraneità alla categoria. Questa scelta è dettata dal fatto, che si ritiene ingiustamente gravoso chiedere ai militari di preparare per ogni soggetto imprigionato elaborati dossiers, che descrivano minuziosamente le circostanze della cattura e ne elenchino le ragioni. Tuttavia va da sé che evitando alle forze armate l’espletamento di questo impegno si ottiene una minore tutela dei detenuti.

Un punto importante di questa decisione è rappresentato dall’affermazione della O’Connor: «that indefinite detention for the purposes of interrogation is not authorized». Il giudice si riferisce alla commissioni militari di cui si servono le Forze Armate per decidere se ai soggetti catturati possa essere conferito lo status di prigioniero di guerra: tali tribunali devono scegliere se dichiarare un detenuto prigioniero di guerra, oppure individuarlo come “civilian internee”, cioè un soggetto che, per ragioni di sicurezza o perché sussiste la possibilità che da libero possa ostacolare le indagini, deve essere trattenuto. I “civilian internees” possono essere processati e condannati da Corti marziali, assistiti da avvocati di fiducia, per aver commesso atti ostili agli Stati Uniti, ma nei loro confronti non è permessa alcuna forma di coercizione fisica e morale e qualsiasi limitazione del diritto a comunicare col mondo esterno deve essere eccezionale e temporanea. Alla luce di questo, O’Connor sostiene che sottoponendo Hamdi a continui interrogatori coercitivi, il Governo non rispetti gli standard minimi previsti nella sentenza a garanzia del due process of law; tali standard infatti legittimano la detenzione di civilian internees solo per evitare che una volta liberi essi tornino a combattere contro gli Stati Uniti. In sostanza, la detenzione è legale solo se necessaria per la salvaguardia della sicurezza nazionale.

Il giudice O’Connor afferma la violazione da parte del Governo del due process of law, e focalizza l’attenzione sull’obbligatorietà di una fase processuale in cui si determini lo status dei prigionieri da cui dipendono i termini di un’eventuale detenzione. Nella sua argomentazione, O’Connor non fa cenno alle condizioni di detenzione, tuttavia la necessità di un trattamento umano si evince dall’analisi del meccanismo di bilanciamento degli interessi posto in essere. In base a tale meccanismo, il requisito imprescindibile del procedimento legale si prevede sia al fine di tutelare l’interesse del governo a garantire la sicurezza, che per evitare l’enorme danno causato a chi subisce una detenzione ingiusta in virtù di una definizione di status errata. L’entità del danno è direttamente proporzionale alla durezza del trattamento che il recluso è costretto ad affrontare, e per questa ragione i detenuti dovrebbero essere soggetti perlomeno alle stesse condizioni previste per i prigionieri di guerra. In questo senso il giudice Souter, nella sua concurring opinion, afferma che la Corte avrebbe ragione a sostenere che lo Authorization for Use of Military Force del Congresso bastasse a rendere legittima la detenzione di Hamdi solo se il Governo lo trattasse come un prigioniero di guerra, condizione questa che non è avvenuta nella realtà dei fatti.

Il balancing test operato dalla Corte si evince dalle parole del giudice O’Connor: «commitment for any purpose constitutes a significant deprivation of liberty and requires due protection», e «on the other side of the scale are the weighty and sensitive governamental interests in ensuring that those who have in fact fought with the enemy during a war do not return to battle against the United States».

2.4.2. Rispetto ai casi riuniti di Rasul v. Bush e Al Odah v. United States, la Corte Suprema dispone per tutti i detenuti, siano essi stranieri o statunitensi, il diritto di ricorrere presso una Corte federale degli Stati Uniti con un writ for habeas corpus.

In questo modo la Corte ribalta la decisione della D.C. Court of Appeals, e rifiuta le posizioni del Governo, che si appellava al precedente di Johnson v. Eisentrager, affermando l’extraterritorialità della base di Guantanamo. Nella concurring opinion il giudice Kennedy distingue i detenuti stranieri giudicati da un tribunale cittadini di uno Stato nemico, i quali non possono vantare nessun diritto, dai prigionieri di Guantanamo tra i quali vi sono “friends and foes alike”, che perciò non possono essere trattenuti indefinitamente senza essere processati.

Di particolare interesse risulta l’appassionata dissenting opinion redatta dal giudice Antonino Scalia, il quale prevede “disastrous consequences” a causa di questa decisione e sostiene che «the Court springs a trap on the Executive, subjecting Guantanamo Bay to the oversight of the federal courts […] and though made it a foolish place to have housed alien wartime detainees». Secondo Scalia, infatti, in base a questa decisione ora tutti i prigionieri degli Stati Uniti, detenuti non solo a Guantanamo ma in tutto il mondo, potranno citare il Governo di fronte a una Corte federale con un’inquantificabile aggravio burocratico dei tribunali e conseguente perdita di efficienza del sistema, e aggiunge che «since jurisdiction and control obtained through a lease is not different in effect from jurisdiction and control acquired by lawful force of arms, parts of Afghanistan and Iraq should logically be regarded as subject to our domestic laws». Effettivamente, come Scalia fa notare, affermare che i detenuti nella base di Guantanamo siano titolari di diritti che non vengono riconosciuti a chi è tenuto prigioniero in Iraq appare arbitrario e privo di fondamento; ma è pur vero che questa non è una argomentazione sufficiente a giustificare la violazione da parte del Governo dei diritti individuali. Per quanto grave possa essere la perdita di efficienza causata dall’aumento di ricorsi per la tutela della libertà personale, questa non può essere considerata un elemento legittimante la violazione di un diritto fondamentale della persona. Come afferma il giudice Hugo Black nella dissenting opinion, da lui redatta per il caso Johnson v. Eisentrager, il diritto alla tutela dello habeas corpus deve essere garantito a tutti, a prescindere dalla nazionalità e dal luogo di detenzione; perché altrimenti il Governo potrebbe eludere la propria responsabilità e gli obblighi di due process of law semplicemente scegliendo con cura il carcere dove recludere i prigionieri.

2.4.3. Nel caso Rumsfield v. Padillala Corte Suprema ha rimandato la causa a una Corte inferiore adducendo il difetto di competenza della Corte d’Appello che si era pronunciata sul caso.

José Padilla è un cittadino americano il quale, dopo aver vissuto per quattro anni in Medio Oriente, nel 2002 torna negli Stati Uniti e viene arrestato all’aeroporto di Chicago, con l’accusa di essere un seguace di “Al Qaeda” coinvolto nell’organizzazione di attentati. Padilla viene incarcerato a New York, e gli viene assegnato un avvocato d’ufficio che contesta le accuse di fronte al Tribunale del distretto federale newyorkese; a questo punto però il Governo dichiara Josè Padilla enemy combatant e lo trasferisce in una base militare in South Carolina, dove rimane recluso per più di due anni completamente isolato dal mondo esterno e senza possibilità di comunicare con il suo legale. Tuttavia, subito dopo il trasferimento in South Carolina l’avvocato di Padilla, in qualità di “close friend, presenta una petition for habeas corpus alla Corte Federale di New York indicando come “defendant” il Segretario di Stato Donald Rumsfeld. La Corte rigetta l’istanza sostenendo che il Presidente e i suoi più alti collaboratori non sono tenuti a giustificare in tribunale la designazione da loro operata di un prigioniero come enemy combatant. La Second Circuit Court of Appeals capovolge la pronuncia affermando che, al contrario, il Governo non ha il diritto di trattenere Padilla senza presentare nei suoi confronti accuse formali. A questo punto, il Governo si appella alla Corte Suprema che, cinque voti a quattro, annulla la decisione della Second Circuit Court.

Il Chief Justice Rehnquist nella controlling opinion sostiene che il legale di Padilla abbia sbagliato gli estremi del ricorso: in primo luogo, osserva come il Federal Habeas Corpus Statute preveda che i detenuti chiamino in giudizio il loro “immediate custodian, e non un qualsiasi alto ufficiale come il Segretario di Stato; e che la petizione deve essere presentata presso una Corte del distretto federale in cui il detenuto è recluso, vale a dire in questo caso il South Carolina. Il giudice Stevens, cui si sono uniti Souter, Ginsburg e Breyer, elabora una dissenting opinion molto interessante e ricca di spunti di riflessione, perché si domanda se talvolta non sia legittimo ricorrere a eccezioni alle regole procedurali per perseguire un fine più importante costituito, in questo caso, dalla creazione di un “forum shopping”. Il pericolo che si vuole evitare è, in sostanza, che una delle parti in causa possa scegliere di appellarsi ad una giurisdizione ritenuta più favorevole. Stevens sottolinea come, nel caso in oggetto, il Governo abbia cominciato la procedura contro Padilla a New York per poi trasferirlo in South Carolina solo quando una Corte di New York aveva già assunto la giurisdizione sulla sua istanza di essere messo in libertà.

Ritenere che la decisione della Corte sul caso Rumsfield v. Padilla abbia solo rilievo procedurale sarebbe un errore, perché questa presenta dei notevoli risvolti sostanziali: se l’Esecutivo può effettivamente scegliere il forumgiudicante semplicemente tenendo in detenzione i prigionieri in una determinata area, non è inverosimile che gli enemy combatants vengano trasferiti in un circuito giurisdizionale tradizionalmente vicino alle posizioni governative. Nel caso specifico, alla luce delle decisioni della Corte che prevedono che i detenuti di Guantanamo Bay possono presentare petizioni di habeas corpus presso un tribunale federale americano, non è da escludere che il Governo eviti di portare lì altri prigionieri scegliendo invece carceri militari situati in “conservative districts”, quali appunto quello del South Carolina. Ma si tratta solo di un’ipotesi.

2.5 E’ indubbio che queste tre sentenze eserciteranno una certa influenza sulla politica detentiva dell’Amministrazione Bush ma, al contrario di quanto prospettato dalle infauste previsioni del Justice Scalia, probabilmente tale impatto sarà piuttosto limitato. Tanto è vero che all’indomani delle decisioni, probabilmente nel tentativo di prevenire l’ondata di petizioni di habeas corpus che saranno ora inoltrate a favore dei detenuti di Guantanamo, il Governo ha annunciato la creazione del Combatant Status Review Criminal, formato da ufficiali militari, di fronte al quale i detenuti potranno contestare il fatto di essere stati definiti “enemy combatants”. Ai detenuti verrà concessa l’assistenza di “personal representatives” loro assegnati dal Governo, ma non potranno avvalersi dell’assistenza legale di un avvocato e dovranno affrontare «a rebutable presumption in favor of the Government’s evidence». Il comunicato stampa del Pentagono afferma che questi nuovi tribunali rispondano pienamente a tutti i requisiti richiesti dalla Corte Suprema, ma tale affermazione contrasta evidentemente con quanto disposto nella pronuncia sul caso Hamdi v. Rumsfeld, dato che il giudice O’Connor nella controlling opinion ha stabilito in modo preciso il diritto per il ricorrente ad usufruire dell’assistenza legale nei procedimenti che affronterà in futuro.

Certo, le decisioni sul “caso Guantanamo” riportano l’attenzione sul peso istituzionale della Corte Suprema la quale, ponendosi come garante della Costituzione, riveste un ruolo determinante nel bilanciamento dei poteri istituzionali, rivelandosi ancora una volta unico “contropotere” capace di arginare la forza dell’Esecutivo. Le argomentazioni e il linguaggio appassionato utilizzato nella redazione delle opinions esprimono la consapevolezza del ruolo fondamentale svolto nell’ambito del confronto, talvolta dialogico ma spesso conflittuale, tra potere Esecutivo e Giudiziario: espressione di una contrapposizione storica, indispensabile per il mantenimento dell’equilibrio istituzionale.

Queste decisioni si rivelano particolarmente interessanti, non solo per la risonanza causata dall’attualità e dall’estrema delicatezza dei temi trattati, ma anche per il fatto che vengono toccati i punti cardine dell’assetto costituzionale e della forma di governo degli Stati Uniti. Si ribadiscono i principi fondamentali e le priorità che l’ordinamento deve comunque rispettare, si chiarisce che il principio della separazione dei poteri non può impedire al Giudiziario di intervenire e valutare la legittimità dell’azione governativa, perché lo stato di emergenza e l’Autorizzazione del Congresso conferiscono poteri eccezionali ma non illimitati. Il significato profondo e il valore storico di queste pronunce è riassunto eloquentemente da una frase del giudice O’Connor, la quale afferma che «a state of war is not a blank check for the President». In particolare, in questa sede è importante osservare il ruolo svolto dal massimo organo giurisdizionale statunitense nella garanzia del diritto inviolabile alla libertà personale: ancora una volta la Corte Suprema si schiera a tutela delle libertà individuali, si rivela garante della Costituzione e contrappeso coraggioso ed efficace rispetto ad un Esecutivo talvolta irruente.

L’importanza della Corte Suprema degli Stati Uniti in merito alla definizione, al riconoscimento e alla garanzia dei diritti fondamentali è dimostrata significativamente dal ruolo che questa ha svolto nella costruzione costituzionale nordamericana, essendosi resa protagonista delle fasi evolutive del sistema, attraverso sentenze storiche che si ergono come pilastri dell’ordinamento. Negli anni successivi la guerra civile, che aveva quasi causato la fine dell’Unione, sulla base dei cosiddetti “Reconstruction Amendments, tra i quali rileva il XIV che prevede il due process of law, la Corte Suprema intraprende una fondamentale opera creativa, definendo i parametri di tutela dei diritti e intervenendo, ove necessario, alla omogeneizzazione della disciplina in un panorama culturale e istituzionale eterogeneo. Con le ultime decisioni, la Corte Suprema ancora una volta rivendica il ruolo di baluardo dei diritti individuali, e segna un nuovo passaggio nella stabilizzazione del sistema, affermando che il trattamento riservato dal Governo ai prigionieri di Guantanamo non sia solo moralmente deplorevole ma anche proibito dalla Costituzione. Torna così alla mente quella efficacissima metafora utilizzata da Bruce Ackerman, proprio con riferimento al ruolo della Corte Suprema nell’ordinamento statunitense. I giudici della Corte Suprema sono visti come dei passeggeri seduti nell’ultimo vagone nel treno della vita politica nazionale, con lo sguardo rivolto al paesaggio retrostante; il loro compito, pertanto, è quello di ricondurre a unità e coerenza il territorio giuridico ormai superato dal treno e pertanto consolidato. Nei momenti di incertezza però, cioè quando il paesaggio diventa irriconoscibile e il treno si avventura in territori ignoti, i giudici della Corte Suprema hanno il compito di frenare, obbligando così il guidatore del treno e gli altri passeggeri a verificare i propri intenti.

(06/12/2004)


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