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Il presente saggio è destinato alla pubblicazione su links.Zeitschrift für deutsche Literatur- und Kulturwissenschaft, edita da Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali – Pisa-Roma.

STATO DI ECCEZIONE E TRASFORMAZIONI COSTITUZIONALI: L’ENIGMA COSTITUENTE

di Francesco Rimoli (professore ordinario di Teoria dei sistemi giuridici presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli studi di Teramo)

1. Lo stato di eccezione nella riflessione giuridica.

Secondo un noto passo di Carl Schmitt, “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”; in particolare, “lo stato di eccezione ha per la giurisprudenza un significato analogo al miracolo per la teologia”[1]. Peraltro, già nel precedente studio sulla dittatura, lo stesso Schmitt aveva evidenziato, con una ricca messe di esempi storici, la valenza fondante dell’eccezionalità della contingenza al fine di giustificare la posizione di misure straordinarie: così, richiamandone uno solo, nell’état de siège del periodo rivoluzionario, secondo quanto previsto dalla legge dell’8 luglio 1791, la costituzione era sospesa, e i poteri d’intervento erano concentrati nell’autorità militare; con una successiva legge del 27 agosto 1797 la disciplina dello stato di assedio era estesa dal Direttorio all’état de troubles civils [2]. Questo caso, tra molti altri possibili[3], manifesta il paradigma dello stato di eccezione: in quanto tale, esso si pone al di là della normalità prevista dall’ordinamento, intendendo quest’ultimo come espressione compiuta e pure diveniente del fenomeno giuridico; ma, al contempo, ne rappresenta l’essenza prima, la scaturigine, la posizione immediata, secondo il tradizionale modello, affatto realistico, per cui e facto ius oritur[4].    In altri termini, l’atto che genera diritto in tal caso è, insieme, interno ed esterno all’ordinamento stesso[5]; può esserne negazione e al contempo estrema tutela; trascende e travolge in sé ogni intento classificatorio dell’osservatore e, soprattutto, ogni effettiva capacità deontica della norma già posta, affidando di fatto agli operatori la valutazione della contingenza, la decisione sull’opportunità e le modalità dell’azione, nonché sulla nuova norma da porre eventualmente, imponendo loro ogni assunzione di responsabilità in merito. Se, dunque, il luogo dello stato di eccezione è il luogo della decisione pura, affrancata per necessità dal rispetto della regola preordinata, ben s’intende il notissimo presupposto da cui muove lo stesso Schmitt, per cui decisione, eccezione e sovranità si implicano strettamente. Di qui la notissima asserzione, per cui “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”: poiché la sovranità è intesa come concetto limite[6], ma anche perché la stessa sovranità, vincolata nel suo esercizio ordinario dai princìpi (dai vincoli, nella prospettiva schmittiana) dello Stato di diritto, riemerge prepotentemente, in una originaria indivisibilità à la Bodin, proprio nell’atto della negazione del processo ordinario di positivizzazione del diritto, ossia nell’atto eccezionale, in cui si svela pienamente la radice di hybris connessa al diritto stesso, dissimulata, e mai veramente  rimossa dalla formalizzazione del medesimo[7]

Gli strumenti impiegati dai costituzionalisti e dai filosofi del diritto per affrontare questi profili hanno sempre svelato i loro limiti euristici: costretti all’impostazione sistematica dall’evoluzione stessa del pensiero giuridico prevalente[8], e troppo spesso frenati da una irredimibile mentalità formalista, i giuristi hanno però sempre intuito, accanto all’importanza del tema, la difficoltà estrema di comprenderlo, di decostruirne il senso sul piano sistemico tramite i modelli giusnormativisti (ma ancor più con quelli propri del giusnaturalismo, classico e contemporaneo), rifugiandosi talora in una sorta di declinazione di competenza disciplinare, ovvero in un tentativo di classificazione estrema, infine autocontraddittoria, che cerca di comprendere il diritto scaturente dallo stato di eccezione come fondato sulla necessità intesa quale fonte normativa extra ordinem [9], ossia insieme dentro e, appunto, fuori dall’ordinamento stesso costruito in sistema, con effetti innegabili e sovente devastanti sul piano concreto, ma al contempo non includibile nell’ordinarietà della pur articolatissima tassonomia delle fonti normative, e non legittimabile se non sulla base di un criterio che non sia esso stesso fattuale e a posteriori, come quello dell’effettività.  

Peraltro, si tratta di un profilo tanto centrale da ritornare di continuo all’attenzione sotto molti aspetti, da quello, tradizionalmente esaminato, del fondamento e dei limiti del potere inerente ai provvedimenti di urgenza (decreti legge, ordinanze di necessità)[10] a quello delle trasformazioni radicali dell’assetto costituzionale dei singoli ordinamenti: la consapevolezza dell’intima connessione tra una condizione di anomica straordinarietà e le origini fenomeniche dell’atto di posizione della norma è elemento costante della riflessione giuridica e di quella filosofico-politica, tanto da impedirne di fatto ogni elusione.  

2. Lo stato di eccezione come manifestazione del sacro nel diritto.

Tornando a Schmitt, appare ovvio che il nesso tra dimensione teologica e dimensione giuridica si instaura a un livello assai profondo del pensiero complessivo dell’autore, che riprenderà in tempi più recenti e con toni accesi le sue riflessioni in merito all’esistenza di una teologia politica[11]: in realtà, è questo uno dei temi più ricorrenti e significativi della tradizione in cui questi si inscrive, giacché l’idea di una reductio ad unitatem dell’intero paradigma dell’azione esprime nel modo più compiuto l’aspirazione fondante dell’assolutismo, da Bodin a Hobbes e a De Maistre, da Bonald a Donoso Cortés[12].   Nell’atto eccezionale, per sua stessa natura svincolato da regole, emerge la pura decisione, e dunque la pura forza che la porta a esecuzione realizzandone gli effetti: ciò soddisfa finalmente l’idea di un potere originario, di una capacità di dominio del reale affatto priva di limiti (a parte quello, hobbesiano, della mera razionalità rispetto al fine), che è quanto di più affine si possa trovare, sul piano politico e, mediatamente, su quello giuridico, al concetto di onnipotenza (e di potenziale arbitrio, a dispetto delle tesi di Hobbes) di un ente supremo, di cui costituisce in fatto un nitido gesto di secolarizzazione[13].  Al contempo, ovviamente, una tale concezione si pone quale sostanziale negazione dei modelli del costituzionalismo tradizionale, nato dall’esperienza medievale britannica come separazione tra gubernaculum e iurisdictio, ovvero tra esercizio del potere esecutivo (essenzialmente libera nel fine e nei mezzi) e attività di soluzione delle controversie (vincolata a regole e diritti acquisiti dai singoli) da parte del sovrano[14], e poi elaborato, in età moderna, dalle pur variamente declinate teorie edificative del modello dello Stato di diritto, da Locke e Bolingbroke, a Montesquieu e Rousseau. Il principio della divisione dei poteri, e soprattutto l’insieme dei checks and balances che a questo strettamente si connettono, è in verità, almeno in apparenza, l’antitesi di una libera espansione di questa hybris primigenia: lo Stato di diritto (posto come rule of law o come Rechtsstaat)[15] si regge invece essenzialmente sul fine di un controllo (di un autocontrollo) di tale espansione, e sulla tutela di un nucleo crescente di diritti individuali, verso la quale sono orientati i sempre più raffinati strumenti di garanzia inseriti nel sistema giuridico, dall’indipendenza della magistratura, fino alle (relativamente recenti) forme di tutela giurisdizionale contro gli atti dell’amministrazione e alla rigidità della costituzionale, con il connesso controllo di legittimità delle leggi[16]

E tuttavia, l’affermazione di Schmitt, dalla quale siamo partiti, non perde la sua forza né il suo fondamento. Seppur meno evidente che nei modelli assolutisti, in cui la metafora e la narrazione della sovranità sono palesemente ipostatizzati sul modello trascendente della figura divina, anche nelle forme della democrazia si sottende, non di rado, una configurazione del potere e della sovranità che ha più di qualche eco teologica (benché, possa dirsi, anche i concetti usati dalla teologia siano stati sovente influenzati dall’esperienza giuridica)[17]. Certo, il meccanismo della rappresentanza politica vale a rendere assai più mediata tale relazione, ma non può stornare il sospetto, ad esempio, che sotto il concetto di volonté générale di Rousseau si celi ancora una sorta di sacralizzazione dell’atto volitivo: il manifestarsi di tale volontà si traduce, secondo un noto passo del filosofo ginevrino, in una sorta di verità rivelata, rispetto alla quale ogni volontà diversa, dettata all’individuo dal proprio interesse è da ritenersi, in sostanza, errata rispetto al corpo sovrano, e “contraria e differente dalla volontà generale che egli ha come cittadino”[18]. Al di là delle note (e fondate) critiche mosse a tale concezione in ragione della tendenza totalitaria, e dello scarso rispetto delle opinioni minoritarie che qui si evidenzia[19], è però più interessante, ai nostri fini, rilevare come il coagularsi di una maggioranza su una certa opzione, preferita ad altre possibili, renda in sé qualitativamente diverso il contenuto di quella scelta in relazione alle altre: se confortata, a posteriori, dalla volontà della maggior parte dei votanti, essa è investita di un valore aletico aggiuntivo, di un quid pluris che ne muta la sostanza, secondo un rito magico-liturgico che non è estraneo a una sorta di consacrazione, e forse di “transustanziazione” dell’oggetto. 

Non è forse un caso se, saltando un paio di secoli, e in tutt’altro contesto, a un presunto valore “magico” del rito della decisione politica ricorre anche un illustre esponente del già menzionato realismo giuridico scandinavo: in un’opera assai nota, Alf Ross, nell’esaminare il complesso problema dei limiti alla revisione delle costituzioni rigide, e richiamando l’emblematico caso dell’art.V della costituzione statunitense, inerente appunto al procedimento di revisione costituzionale e inteso di fatto come norma suprema di quell’ordinamento, cerca di chiudere al livello apicale il sistema delle fonti normative, risolvendo l’enigma della riflessività delle norme positive supreme con uno strumento significativamente diverso da quello del quale, dinanzi a un problema del tutto analogo (ma svolto su piano più astratto), si era servito Kelsen.  Se quest’ultimo, almeno nella fase centrale della sua riflessione, si ferma a considerare la Grundnorm, presupposta (non posta) al vertice dello Stufenbau proprio del sistema delle fonti, quale mera ipostasi logico-formale con funzione eminentemente sistemica, ossia norma la cui validità, a differenza di quella di tutte le altre, “non può essere derivata da una norma superiore”[20], il primo Ross, che ragiona evidenziando più puntualmente di Kelsen il collegamento tra le norme e le autorità che le pongono, giunge, nell’opera citata, ad affermare che qualsiasi modificazione dell’ipotesi iniziale di un sistema, che definisce la sua identità e, in pratica, l’autorità suprema nel medesimo, “è un fenomeno extrasistematico, una modificazione di fatto, psicologico-sociale, nella ideologia politica dominante, e non può essere descritta come creazione di diritto secondo una procedura”; tuttavia “è difficile immaginare che l’art.5 della Costituzione possa essere mutato se non con il procedimento previsto dall’art.5 stesso”. Perché “le forze politiche sono di fatto guidate da opinioni che non possono essere espresse razionalmente, ma solo in termini magici: la procedura prevista dall’art.5 è il rito magico il quale soltanto può sciogliere il vincolo istituito dall’articolo stesso”: sola eccezione praticabile, allorché non fosse possibile emendare l’articolo con le sue proprie norme, sarebbe “fare appello ad una ancor più fondamentale ideologia in favore della modifica: al diritto cioè del popolo americano in ogni momento di darsi una costituzione”[21].  Lo stesso Ross muterà, in seguito, e “normalizzerà” le sue tesi, emarginando il riferimento a una dimensione “magica” della decisione sulla norma fondante dell’ordinamento, ossia quella che disciplina il potere di revisione di una costituzione rigida, e risolvendo il problema con un meccanismo di delegazione diacronica di autorità[22]; per quanto qui interessa, tuttavia, sembra piuttosto rilevante il fatto che, al di là della valenza magico-esoterica del procedimento (su cui peraltro si dovrà tornare), è proprio nella dimensione dell’eccezionalità che si cela la forza che consente, andando oltre il rispetto del  procedimento, di porre la nuova costituzione.

Due ulteriori considerazioni valgono forse a precisare il tema che stiamo affrontando: la prima riprende il profilo del valore del procedimento nomopoietico inteso come strumento legittimativo della decisione e della norma che ne scaturisce. Si tratta di un aspetto che, com’è noto, è tuttora al centro della riflessione filosofica e sociologica sul diritto: seppur in forme e prospettive diverse, Luhmann e Habermas ne hanno fatto uno dei punti cardinali dei rispettivi modelli teorici, senza, ovviamente, far ricorso ad alcuna dimensione trascendente o esoterica, ma più o meno palesemente secolarizzando concetti di ben più antica tradizione, che vedono la funzione del rito e della liturgia (nonché della stessa scrittura delle norme) alla base di un mutamento sostanziale della realtà[23].

La seconda riporta il nostro tema a una delle più dibattute questioni del diritto costituzionale: il profilo dei limiti alla modificabilità delle costituzioni rigide, della natura del relativo potere[24], e, più ampiamente sul piano politico, della trasformabilità di un regime democratico in uno autoritario (o addirittura totalitario) mediante strumenti già previsti nell’ordinamento del primo e nel sostanziale rispetto della legalità formale[25]: ipotesi tutt’altro che teorica, in quanto già tristemente nota all’esperienza del Novecento con l’affermazione dei regimi fascista e nazionalsocialista.

Sotto il primo profilo, senza poter qui approfondire troppo temi così complessi, può forse dirsi che l’eco della ritualità trasformativa dell’atto sacrale si legge ancora, per fare un esempio, nella riflessione sul carattere performativo di certi atti giuridici: quel “fare cose con le parole” di cui la filosofia analitica e la pragmatica linguistica si occupano da tempo, razionalizzando il tutto[26], non è, probabilmente, affatto immune dal retaggio ancestrale di modalità magico-esoteriche dell’azione, e ripete, almeno in parte, schemi tuttora presenti nelle liturgie religiose (e dissimulati in quelle politiche e giuridiche). In realtà, l’idea per cui un certo procedimento, una sequenza preordinata di atti (ossia una liturgia), possa per sé mutare la realtà concreta, sia nella sua dimensione immanente, sia, soprattutto (e in origine), in quella trascendente, è sottesa a gran parte del pensiero giuridico: dall’atto legislativo alla sentenza, con il medium del linguaggio, dal procedimento formale si veicola la decisione del soggetto titolare di un potere, se ne producono gli effetti, e si trasforma con ciò la realtà preesistente.  Ciò non contrasta affatto con l’idea, ben più moderna e razionale, per cui ogni procedimento, tanto più se inclusivo, tende a produrre un equilibrio e una composizione armonica di interessi, così da ridurre il conflitto sociale e da rendere il proprio esito accettabile dalle parti in gioco, o meglio a “immunizzare” il sistema sociale dai possibili esiti dei processi psichici di accettazione, individualizzando e isolando le posizioni dei singoli[27]: i due profili piuttosto si integrano, ben potendo essere la valenza rituale del procedimento stesso uno degli elementi persuasivi nei confronti dei partecipanti medesimi.

Ma il secondo aspetto ci porta oltre. Laddove la realtà stessa sia talmente ricca di fattori di trasformazione da rendere la spinta al mutamento troppo pressante per il procedimento prestabilito, riemerge il dato che potrebbe definirsi originario del fenomeno giuridico: allorché il procedimento, inteso nella sua valenza sacralizzata, è palesemente insufficiente a contenere la hybris che scaturisce dal tessuto sociale, quest’ultima si riafferma per capacità propria, con eventi imprevedibili e non coercibili a priori in forme giuridiche, e razionalizzabili sul piano istituzionale soltanto a posteriori sulla base dell’effettività degli esiti.   In altri termini, è questa ipotesi che svela con chiarezza la natura del procedimento giuridico: strumento di razionalizzazione e contenimento della violenza, rivolto a controllarne la sempre possibile esplosione, ma, al contempo, capace di non celarne del tutto l’esistenza, sia per la concreta impossibilità di un tale risultato, sia, e ciò induce a considerazioni ulteriori, a fini deterrenti per i consociati.   Qui, dunque, si percepisce meglio il senso dell’affermazione per cui “sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”: il caso d’eccezione, lungi dall’essere negazione della regola, ne costituisce invece la più profonda esplicazione e attribuzione di senso. La liminarità del caso eccezionale rivela infatti il titolare effettivo della sovranità, di un potere inteso come dominio, ossia, infine, di una forza coercitiva capace di piegare al proprio volere la realtà umana (e, almeno in parte, materiale) circostante.  In questo senso, esso si pone insieme dentro e fuori, definisce insieme contenuto e contenente, significato e significante del sistema giuridico.   Il parallelo tra  il sovrano e l’homo sacer bene afferra questa intima ambiguità della condizione liminare[28]: verso il margine più alto (dove sta il sovrano) o verso quello più basso (dov’è il bandito, il sacer, l’uccidibile ma non sacrificabile), la soglia del sistema chiude - ma insieme apre -  il sistema stesso, lo rende in sé separato e concluso, e pure permeabile all’irruzione del nuovo, del diverso, eventualmente del radicalmente eversivo.   Peraltro, sul piano della riflessione giuridica, la dimensione del limite si pone almeno su due piani distinti: quello soggettivo della inclusione/esclusione (dalla cittadinanza, e, spesso, dallo stesso godimento di diritti umani: gli homines sacri della contemporaneità sono piuttosto gli immigrati clandestini, i nuovi schiavi del postcapitalismo, le “vite di scarto” della furia globalizzatrice)[29], e quello, oggettivo-normativo, della completezza dell’ordinamento, dell’esistenza inevitabile di lacune del medesimo, e delle modalità per assicurarne una concreta “completabilità”[30], anzitutto a fini di certezza del diritto. 

3. Il mutamento costituzionale e la  violenza sacra.

Come detto, la riflessione dei costituzionalisti e dei filosofi del diritto sul tema delle trasformazioni delle costituzioni è sempre stata assai approfondita, potendo quasi affermarsi che il tema della natura e dei limiti del potere di revisione costituzionale ne rappresenti uno degli assi portanti: prevale tuttavia una lettura endosistemica del problema, ancorata, non senza qualche convenzionalismo, alla collocazione degli strumenti della revisione nell’ambito dei modelli gradualistici di tipo kelseniano da un lato, ovvero ai (più fecondi, per certi versi, ma più evanescenti) paradigmi istituzionalisti dall’altro. Per molti autori, e per molto tempo, la distinzione, tra potere costituente e poteri costituiti, risalente al Sieyès[31], ha fornito la guida per una (comoda) soluzione del problema: affidando al primo, nell’atto di posizione della costituzione, una sorta di potenza illimitata, ma concentrata in pochi, irripetibili e imprevedibili momenti critici della storia, si è potuta costruire per i secondi, e in particolare tra questi per il potere di revisione disciplinato nelle costituzioni (relativamente) rigide, una teoria dei limiti che riconosce in ogni testo costituzionale un “nucleo fondante” di valori, normativamente tradotti, che si renderebbe comunque intangibile per via di revisione[32].  In realtà, ciò ha condotto fino all’idea di un “esaurimento” del potere costituente, ridotto ad arcaico (ed arcano) retaggio di epoche definitivamente sorpassate[33]: in tale prospettiva la rigidità della costituzione, intesa come tavola convenzionale di valori dinamici, nella tensione dialettica tra assetto formale e assetto materiale[34], esito di un patto assiologico e politico fondante e definitivo tra i soggetti in gioco, rappresenterebbe un riparo sufficiente per evitare rivolgimenti improvvisi e incontrollati, in altri termini per opporsi alla storia.

Non a caso, queste tesi sono state richiamate, qui in Italia, soprattutto negli anni recenti, allorché la modificazione del contesto politico è sembrata poter porre in pericolo la sopravvivenza stessa del modello scaturito dal secondo dopoguerra e della carta costituzionale che ne fu l’espressione istituzionale: ma la condivisibilità degli intenti mediati non può far velo alle debolezze intrinseche che queste ricostruzioni presentano in sede teorica.  Non si può, in questa sede, approfondire troppo un tema così complesso[35]; basterà rilevare come ogni tentativo di rendere il Sollen, tipico della natura deontica del diritto, affatto prevalente, nel lungo periodo, sul Sein che costituisce il tratto proprio e vitale della storia, è comunque destinato a scontrarsi con un dato di realtà che ha sempre condizionato, generato o spazzato via ogni costruzione giuridica.  In più, nella prospettiva qui adottata, una lettura che sia orientata solo all’osservazione del sistema dal suo interno non può comprendere il carattere di liminarità di cui abbiamo detto a proposito della dimensione sovrana: se, in altre parole, la costituzione definisce la titolarità e i modi di esercizio della sovranità (si pensi, quale esempio, all’art.1 della Costituzione italiana), il potere effettivo di modificazione della medesima, al di là della previsione normativa espressa sulla revisione (art.V della costituzione statunitense, art.138 della Costituzione italiana, art.79 del Grundgesetz, art.89 della Costituzione francese, e così via) non può non rappresentare, particolarmente entro un modello di democrazia rappresentativa, il momento saliente di tale esercizio.  Portando il discorso a conseguenze estreme, ma in tutta coerenza, si dirà allora che non è la norma sulla revisione a legittimare la trasformazione, dettandone eventualmente forme e limiti (e rappresentando, nel senso del secondo Ross, una sorta di norma suprema dell’ordinamento), ma l’effettività della norma stessa, ossia la scelta dei consociati di rispettarne, di volta in volta, il contenuto precettivo, secondo un criterio che può essere verificato, come detto, solo a posteriori.

Ancora: al livello più alto del sistema-ordinamento, questo non può essere chiuso; in realtà, senza illudersi troppo, il mutamento costituzionale non è, per sé, normativizzabile. L’ipostasi (sacrale anch’essa) contenuta nel concetto di potere costituente appare in sé ambigua e contraddittoria: da un lato riconoscendosene l’esistenza e l’incoercibilità, dall’altro relegandosene l’azione al caso eccezionale, in una sorta di paradossalmente tranquillizzante straordinarietà[36].  Ma qui si torna, ancora, all’eccezione, ovvero al caso in cui si svela, senza infingimenti e senza possibilità reale di controllo, la natura violenta del diritto, la vitae necisque potestas che è attributo proprio della sovranità, e che in certo modo riecheggia la dimensione del sacro[37].  In questo senso, benché si tratti di un’affermazione eminentemente teorica, potrebbe dirsi che le stesse norme sulla revisione, in quanto contenute entro il testo costituzionale che ne è oggetto, sono in verità poste inutilmente: sul piano logico-formale, perché (a dispetto di ogni artificio categoriale) non sono comunque inserite in un atto-fonte sovraordinato all’oggetto della modifica possibile; su quello sostanziale, poiché tentano di condizionare e contenere un mutamento che, ove sia reale e profondo, è in non disciplinabile. In effetti, esse sono il limite possibile tra il diritto e il fatto, tra il Sollen e il Sein: ma se, nella contingenza concreta, riescono ad affermare il primo, rendono marginale il secondo; se affermano il secondo, probabilmente negano il primo.

A ben vedere, però, è la stessa distinzione tra potere costituente e poteri costituiti, che, in origine pensata strumentalmente entro un contesto affatto peculiare, non regge alla prova della storia, pur rimanendo carica di suggestioni che ne rendono comprensibile il costante riemergere. Il processo della nomopoiesi, anche (e soprattutto) al livello costituzionale, è infatti un processo di integrazione politica, e come tale è continuo, non intermittente e teofanico[38]: il nesso profondo che intercorrerebbe tra lo stato di eccezione e il miracolo non può andare, in un contesto culturale effettivamente secolarizzato, oltre una mera analogia esteriore, certo rilevante ma non sostanziale.  Realisticamente, la hybris che si manifesta nello stato di eccezione, nella deroga possibile ad ogni possibile disciplina normativa, non è espressione di una “violenza divina”, à la Benjamin opposta a quella mitica[39], ma di una violenza, tutta umana, che si sottende costantemente alla convivenza sociale, e che il diritto, in quanto forza dominata e dominante, tende a controllare (finché può) con l’unico strumento possibile, ovvero con la minaccia di una forza (eventualmente una violenza) maggiore e contraria, ma in sé regolata e (questo dovrebbe essere il punto), certa in quanto prevedibile nelle sue forme e nei suoi effetti[40].

In altri termini, il diritto tradotto in sistema, in ordinamento giuridico (secondo la pur riduttiva impostazione kelseniana), sottrae violenza al tessuto sociale perché assorbe e concentra in sé, tendenzialmente in via esclusiva, la violenza stessa, e se ne fa custode e garante: stabilizza le aspettative comportamentali, semplificando e neutralizzando i conflitti, fino al momento in cui riesce a rendere tali aspettative normative, e non meramente cognitive in quanto oggetto di apprendimento[41].  Allorché tale capacità viene meno, con essa si perde l’effettività dell’ordinamento stesso e la legittimazione che ne deriva; se, all’opposto, tale potere diventa realmente esclusivo, si produce quella dimensione biopolitica di cui si sono manifestati drammaticamente gli effetti nei totalitarismi del Novecento, e che, in forme affatto nuove, si va riaffacciando in quest’apertura del nuovo secolo[42].  

In questa prospettiva, il ruolo di integrazione funzionale svolto dal processo di produzione, attuazione e di applicazione del diritto (ossia dal processo di positivizzazione del medesimo), cela ma implica, necessariamente e in forma costitutiva, una componente di pura violenza, il medesimo che, fin da epoche lontane, è stato (ed è tuttora, in certi contesti) sotteso, quale nucleo fondante, alla dimensione del sacro e alla liturgia religiosa[43].   Qui l’atto di posizione di una costituzione, e il processo continuo della sua modificazione progressiva, svolto per revisione (con una Verfassungsänderung, normativamente disciplinata) o tramite l’attività degli interpreti (una Verfassungswandlung, in un contesto di sostanziale apertura, ma con un’ovvia preminenza per il ruolo dei giudici costituzionali)[44], è assolutamente centrale: risolvendo (o tentando di risolvere) i conflitti basilari di una società, mediante la ricerca e la definizione di una tavola assiologica convenzionalmente accettata, la costituzione, resa relativamente rigida per impedirne modifiche affrettate, ambisce a rappresentare il punto di equilibrio del sistema, il riferimento certo per la soluzione delle tensioni politiche e sociali. In un contesto pluralista, e non senza qualche eccesso di retorica liberale, la costituzione e i suoi garanti (Capo dello Stato, tribunali costituzionali) si pongono come l’espressione massima di tutela del modello democratico.  

E tuttavia, questa tranquillizzante prospettiva non può dissimulare del tutto un dato reale: l’elasticità del testo non può essere, ovviamente, illimitata: una costituzione completamente modificabile, in quanto flessibile, ovvero in quanto rigida ma priva di limiti sostanziali assoluti (che non siano cioè quelli inerenti al mero procedimento), non è in grado di affermarsi come garanzia di un modello politico specifico. Ma, d’altra parte, una reale posizione di limiti oggettivi – l’esperienza lo prova – non regge al confronto con le trasformazioni sociali imposte dalla storia.  Dunque, nei momenti critici, ossia proprio quando dovrebbe svolgere appieno il suo compito, la costituzione, e l’ordinamento stesso di cui questa è apice, rivelano la propria insufficienza, rendendo possibile (e necessaria) una loro elusione, ovvero, in casi estremi, ponendosi come il paradosso negativo del proprio stesso esistere[45]

Qui si prospettano però almeno due ipotesi: della prima, quella rivoluzionaria, non è il caso di trattare in questa sede[46]; della seconda, quella della trasformazione radicale del sistema per via “legale”, sarà opportuno trattare brevemente.

4.  Trasformazione costituzionale e “rivoluzione legale”: l’ossimoro paradigmatico.

Gli esempi storici in proposito, come detto, non mancano, e sono richiamati da tutti coloro che, con varia prospettiva, si sono occupati del nostro tema: l’acquisizione di un potere tale da consentire la generazione di un regime autoritario (con esiti totalitari già nel breve periodo) non è necessariamente frutto di un’azione violenta, posta in essere con una sollevazione popolare o, secondo lo schema  tristemente noto del golpe, ossia mediante strumenti coercitivi immediati e palesi.   La Ermächtigungsgesetz del 24 marzo 1933, con cui Hitler riuscì ad assumere i pieni poteri, peraltro in apparente rispetto della previsione di cui all’art.76 della stessa costituzione weimariana (che di fatto andava a travolgere), è da alcuni autori usata come il paradigma del fenomeno, in sé paradossale, della “rivoluzione legale”[47]. Ma, per fare un altro passo indietro, la stessa progressione con cui, nel corso del decennio precedente, il dettato dello Statuto albertino, carta di ispirazione liberale ma flessibile[48], era stato profondamente stravolto (nella sostanza, benché non nella forma) dall’ascesa di Mussolini e dalla costruzione del regime fascista è un’ulteriore riprova della concreta possibilità dei sistemi liberali – e ancor più, potrebbe aggiungersi per quanto si dirà, di quelli democratici -  di scegliere, con decisione almeno in apparenza libera e formalmente legittimata dal rispetto di procedure preordinate, il proprio “suicidio” politico-istituzionale[49]. Ma il problema è qui, ovviamente, assai più complesso di quanto potrebbe apparire.

Se infatti il mutamento violento –  rivoluzionario nel senso comune del termine – prodotto ad opera di un grande sommovimento popolare (l’esperienza francese) o di un gruppo ristretto ma dotato della coesione e della forza necessarie (la più recente e reiterata esperienza di golpe nei paesi sudamericani) non presenta, sul piano teorico né su quello pratico, particolari problemi definitori (è la hybris che riemerge prepotentemente, la “violenza divina” che travolge ciclicamente ogni illusione armonizzatrice del diritto e della politica intesa come “buon governo”), l’ipotesi, affatto realistica, dell’autodistruzione volontaria di un sistema, secondo strumenti posti dal suo interno, suscita assai più inquietanti interrogativi.  Non più la tranquillizzante contrapposizione tra una razionalità ordinante (il sistema giuridico, il meccanismo democratico) da un lato, e una magmatica tendenza al rivolgimento improvviso ed anomico dall’altro, non più una “logica” antitesi tra l’ordine e il caos, ma una sovrapposizione “innaturale” delle due dimensioni, un trascolorare continuo dell’una nell’altra, un interscambio di ruoli funzionali che disorienta e mette in gioco le categorie etico-politiche, e perfino, forse, quelle epistemiche, fino a velare di ambiguità e di incertezza le stesse coordinate del sistema iniziale. 

Una confusione di paradigmi, dunque, che ne svela, e insieme, ne nega l’apparente incompatibilità, e che rende assai meno pacifico, sul piano concreto, il nitore teorico delle tesi rivolte a connettere apertura partecipativa e visibilità del procedimento decisionale da un lato, e presunta democraticità dei contenuti del medesimo dall’altro.  In altri termini, laddove l’esito del procedimento, puntualmente rispettato nella preordinazione delle forme, sia nel senso dell’adozione di contenuti contrari al mantenimento del modello democratico, anche sotto il profilo formal-procedurale, la valenza legittimativa (parasacrale) del procedimento stesso diventa autodissolutoria: poiché la scelta delle forme della decisione è anche scelta assiologica (ossia di fini-valori mediati da princìpi: nel nostro esempio, inclusività,  partecipazione, trasparenza, certezza)[50], un’opzione finale che consista nella sostanziale (e formale) negazione dei presupposti stessi sui quali si è fondato l’iter che l’ha prodotta rovescia il proprio paradigma nel suo opposto, servendosi peraltro dei suoi stessi strumenti di legittimazione.  Essa è, in altre parole, insieme fuori e dentro rispetto al sistema, ne costituisce al contempo l’espressione e la negazione, ne conferma la regola e ne pone tuttavia l’estrema (e talora esiziale) eccezione. 

In questa prospettiva, la trasformazione costituzionale esemplifica in sé l’ossimoro paradigmatico: la costituzione (relativamente) rigida, nata per garantire la stabilità, deve altresì garantire il mutamento, ponendosi come luogo dell’equilibrio supremo tra le due dimensioni, quella statica e quella dinamica, tra l’essere e il divenire che sono l’essenza prima del consistere dell’ordinamento[51].   In questo senso, la costituzione non dev’essere tanto (o soltanto) sottrazione di oggetti alla possibile decisione politica[52], quanto strumento per determinare la regola della trasformazione del sistema, fattore di fondazione dell’ordinamento nella sua dimensione (soprattutto) diacronica. Dinanzi a ciò, riemerge tuttavia il problema dell’origine fattuale del diritto, della non esaustività della concezione autopoietica del sistema-ordinamento[53]; e qui tornano i profili dell’effettività da un lato, come momento e criterio di legittimazione ex post, e dello stato di eccezione dall’altro, intesi come luoghi liminari della de-stabilizzazione e della de-costruzione del modello deontico.

5.  Metamorfosi  e autonegazione: il limite impossibile.

Il problema, dal punto di vista giuridico, resta essenzialmente quello del limite: se l’autotrasformazione del sistema non può procedere, realisticamente, solo tramite l’autopoiesi, dovendo invece tenere conto di spinte esogene, rispetto alle quali il diritto non sempre riesce a operare efficacemente quale fattore di stabilizzazione di aspettative comportamentali[54], allora è evidente che il procedimento deputato a tale trasformazione, inteso come fattore endogeno, deve sapersi porre come il momento della massima inclusività possibile, ossia come il frutto immediato del discrimine tra ciò che nel sistema è ritenuto ontologicamente essenziale e necessario e ciò che, invece, in quel medesimo sistema appare come elemento inessenziale e accidentale. E questa, se considerata da un punto di vista diacronico, è decisione alquanto ardua, se non addirittura impossibile, tale da indurre a diatribe tanto complesse quanto irrisolte (il ricchissimo dibattito, vivo soprattutto nella dottrina tedesca, sul Wesensgehalt dei diritti fondamentali, generato dalla formula dell’art.19, comma 2 del Grundgesetz, che ne garantisce l’intangibilità, ne è un significativo esempio)[55].

In altri termini, se il paradigma della stabilità non cede, in certe condizioni, a quello del mutamento, il sistema si rivela incapace di assorbire e integrare (ovvero controllare e limitare) il mutamento stesso; se, d’altra parte, il secondo assume una completa prevalenza sul primo, rischia di venir meno la stessa funzione sociale primaria del diritto (e della costituzione in particolare), di stabilizzazione e certezza dei rapporti intersoggettivi, rendendosi l’intero ordinamento inefficace e inefficiente, ovvero, in un periodo più lungo, ineffettivo.   E tuttavia non mancano gli esempi di costituzioni dotate di norme rivolte a disciplinare il completo mutamento di se stesse, il che lascia l’impressione di una sottile ingenuità[56].  Ciò che si pone sul limite tra interno ed esterno è, per sé, indefinibile a priori, nega la stessa possibilità della dimensione deontica, di un Sollen che non avrebbe comunque la capacità di rendersi effettivo mediante la propria autoreferenzialità e la mera imperatività[57].

Pur tradotta in termini di positivizzazione del diritto, secolarizzata dal normativismo e dalla narrazione del paradigma democratico, la sovranità cambia dunque luogo, ma non carattere: si insedia nella tradizionale misura dello stato di eccezione, che costituisce spesso prodromo della trasformazione “legale” dell’ordinamento mediante una sostanziale (e formale) metamorfosi del sostrato assiologico del medesimo[58], ma cela (e solo in momenti topici rivela) la propria realtà di violenza, rendendo comprensibili (seppur non condivisibili) le istanze di più o meno esplicita sacralizzazione che, da Benjamin a Schmitt (per non dire oltre), continuano a esserle riferite, nonostante una più sottile ambiguità della connessione tra violenza e potere[59]. Istanze che, peraltro, sono sempre servite, nei contesti più disparati, a consolidare il consenso nei confronti del regime e dei suoi gruppi dominanti[60].

Naturalmente, è questa una prospettiva che si pone al di là del problema inerente al limite decisionale del modello democratico, identificabile nell’assunzione di opzioni dagli effetti non reversibili[61]: il criterio della negabilità e trasformabilità del diritto, necessario per mantenere un efficace confronto, in termini sistemici, del sottosistema giuridico complessivo con il proprio ambiente, non passa ineluttabilmente per una prestrutturazione interna delle condizioni di negabilità (e ri-negabilità) del medesimo[62]: emerge qui l’insufficienza della concezione autopoietica del sistema giuridico nel confronto con gli eventi trasformativi radicali, laddove cioè il profilo della continuità diacronica degli ordinamenti debba scontare il mutamento delle stesse scelte assiologiche fondamentali del singolo sistema (in termini kelseniani, si cambi la stessa Grundnorm, presupposta come validazione complessiva dell’ordinamento). Il momento della negazione, tradotta in termini tecnici come deroga, e ancor più come sospensione dell’efficacia di singole norme, può certo condurre al parallelo tra lo stato di eccezione (come Ausnahmezustand) e istituti assai più lontani nel tempo, come il iustitium, richiamato nelle sue diverse accezioni da Agamben, e consistente, in origine, in un diritto che si ferma, in una situazione affatto diversa sia dalla dittatura commissaria che da quella sovrana, e che immobilizza se stesso dinanzi a una condizione di pericolo grave e contingente per la salus rei publicae, generando (o tollerando) un vuoto giuridico nel quale si rivelerebbe quella indefinibilità e quel non-luogo in cui si manifesta una “forza-di-legge” senza legge, un elemento mistico o una “sorta di mana giuridico”, le cui relazioni con il diritto da un lato, e con l’anomia dall’altro, sarebbero il possibile oggetto di una teoria[63].   Con questa prospettiva, Agamben rilegge il rapporto tra Benjamin e Schmitt in relazione al tema della violenza e dello stato di eccezione: qui l’idea della reine Gewalt di Benjamin, di una violenza cioè che si pone, in sé, al di fuori del diritto, che non lo pone né lo conserva, ma lo “depone”, in un contesto in cui la rilevante funzione della Entscheidung si accompagna tuttavia alla “indecidibilità ultima” (letzliche Unentscheidbarkeit) dei problemi giuridici[64], è confutata dal tentativo schmittiano di riassorbire la violenza all’interno del diritto, mediante lo stato di eccezione e la teoria della decisione sovrana[65], che valgono così a scongiurare un’esclusione intollerabile di un fenomeno in sé percepito come coessenziale al paradigma giuridico dal punto di vista ontologico[66].   Per uscire da questa impasse, lo stesso Agamben recupera infine, dalla tradizione romanistica, la sfuggente dimensione dell’auctoritas patrum, che, ben distinta dalla potestas e dall’imperium dei magistrati, e affidata piuttosto al senato, agiva “come una forza che sospende la potestas dove essa aveva luogo e la riattiva dove essa non era più in vigore”, ossia come “potere che sospende o riattiva il diritto, ma non vige formalmente come diritto”[67]; la stessa auctoritas che, assunta da Augusto come optimi status auctor, si innesta sulla sua persona e la costituisce come entità stessa del potere, fondendosi nel medesimo soggetto con la potestas e generando ciò che sarebbe servito, in tempi assai più recenti, a fondare la dimensione carismatica del Führertum.  Dalla fusione di due fattori in origine contrapposti seppur “funzionalmente connessi” – auctoritas e potestas, normativo il primo, anomico il secondo – sarebbe cioè sorta la dualità strutturale del sistema giuridico occidentale: in questo quadro, lo stato di eccezione sarebbe dunque “il dispositivo che deve, in ultima istanza, articolare e tenere insieme i due aspetti della macchina giuridico-politica, istituendo una soglia di indecidibilità fra anomia e nomos, fra vita e diritto, fra auctoritas e potestas”: finché i due elementi rimangono in correlazione tra loro, ma separati, il sistema può funzionare; se essi però tendono a coincidere in una sola persona, e “quando lo stato di eccezione, in cui essi si indeterminano, diventa la regola, allora il sistema giuridico-politico si trasforma in una macchina letale”[68].

Ora, il modello dell’auctoritas offre certamente spunti suggestivi, ma non sembra risolvere il problema: dal punto di vista concettuale, infatti, esso resta comunque uno strumento predeterminato, nel diritto scritto o in quello consuetudinario, per opporsi a situazioni di pericolo per la res publica; in altri termini, se l’autorità è intesa, pur con rigore filologico, come mezzo operante in forme preordinate all’interno del sistema, non si differenzia granché dall’attribuzione di un potere di emergenza a un certo soggetto (il senato romano, il Presidente del Reich nell’art.48 WRV, il Presidente della V Repubblica francese nell’art.16 della vigente costituzione del 1958); se invece è considerata come fattore di persuasione, connesso, più che a una carica, a qualità personali di un soggetto agente, può indurre a interessanti analisi di tipo sociologico e psicologico, particolarmente in ordine ai rapporti tra attore (giuridico o politico) e uditorio, ma appare meno produttiva sul piano dell’analisi giuridica[69].

Il problema sta piuttosto nel fatto che, dinanzi alla reale crisi del sistema, ciò che si verifica è il modello della catastrofe, in cui l’aspetto anomico è assolutamente prevalente; finché, in altre parole, è possibile prevedere l’intervento, sia pur libero, di un soggetto preventivamente individuabile, non si è in presenza di una effettiva catastrofe, tanto più se tale intervento, come nei casi appena citati, sia finalizzato alla tutela estrema del sistema preesistente e alla restaurazione dell’ordine violato. In questi casi, la deroga all’ordine “normale” delle competenze, sia in termini soggettivi che oggettivi (di organi e di atti), si assimila alla figura della dittatura commissaria di cui parla Schmitt, piuttosto che a quella sovrana.  Quest’ultima può invece sortire da una per lo più imprevedibile autoassunzione di potere, che certamente assomma in sé il profilo della potestas e quello dell’auctoritas, ma di fatto, al di là delle modalità contingenti, legate alle circostanze, prescinde da ogni previa attribuzione di funzioni e competenze, né, tanto meno, subisce limitazioni che non siano quelle rese strettamente necessarie da un uso strategico delle opzioni, da un orientamento al successo tendenzialmente privo di una dimensione etico-giuridica nel perseguimento di un fine che è esclusivamente quello dell’acquisizione e del consolidamento del dominio, inteso anzitutto come Herrschaft, e del potere nel suo aspetto “demoniaco”[70]. In altri termini, finché un senato può intervenire, in extremis, con un senatoconsulto ultimo, o un Presidente con un proprio decreto, ed è in grado di far rispettare ed eseguire la sua decisione, il sistema non è realmente in crisi. La soglia di indeterminazione, il limite estremo è valicato allorché non sia in alcun modo prevedibile non solo il contenuto, ma l’autore della decisione che riuscirà a farsi rispettare, ovvero a rendersi efficace ed effettiva.  In questa prospettiva, ogni discorso sui limiti è palesemente incongruo.

6. L’enigma costituente (una conclusione che non può concludere).

n realtà, tornando al punto di partenza, resta sullo sfondo il profilo più inquietante dell’asserzione di Schmitt: la sovranità connessa alla decisione pura, di cui lo stato di eccezione è in qualche modo il fattore catalizzante.  A differenza di quanto sostenuto da Agamben, l’intenzione di Schmitt sembra qui essere non tanto quella di includere l’eccezione nel sistema, quanto quella di distinguere e separare dimensioni interdipendenti ma in sé diverse. Così, nella Verfassungslehre del 1928, la costituzione, intesa come “decisione totale sulla specie e la forma dell’unità politica” di un popolo, è altra cosa dalle leggi costituzionali: la prima “definisce con una sola decisione il complesso dell’unità politica rispetto alla sua forma speciale di esistenza”, e vige “in forza della volontà politica esistente di chi la pone”, ovvero di “una decisione politica fondamentale del titolare del potere costituente”; le seconde “hanno vigenza proprio sulla base di una costituzione e presuppongono una costituzione”[71]. Peraltro, già nello scritto del 1921 sulla dittatura, uno dei fulcri della ricostruzione schmittiana del concetto di dittatura sovrana in relazione a quella commissaria è la presenza del potere costituente, e in esso la distinzione tra la sostanza del pouvoir constituant e il suo esercizio: dunque, mentre la dittatura commissaria riceve autorizzazione da un organo costituito e possiede un titolo nel quadro della costituzione vigente, quella sovrana “deriva dall’informe pouvoir constituant soltanto quoad exercitium e immediatamente”[72].  Nella prima, peraltro, si vede evidenziata un’altra distinzione, ossia quella tra norma di diritto e norma di attuazione del diritto; essa sospende la costituzione per difenderne l’esistenza, ma tale sospensione non comporta la cessazione della costituzione stessa, preparandone piuttosto una nuova applicazione; in quella sovrana, può entrare in gioco in ogni momento il popolo, il cui potere costituente, non ancora in grado di esprimersi direttamente, ha tuttavia bisogno di una rappresentanza: ma mentre “il dittatore commissario è incondizionato commissario d’azione di un pouvoir constitué, la dittatura sovrana è commissione d’azione di un pouvoir constituant[73]. Nella Teologia politica, il rapporto tra norma e decisione definisce la sovranità mediante la responsabilità assunta dal soggetto, che si qualifica sovrano proprio perché “decide tanto sul fatto se sussista il caso estremo di emergenza, quanto sul fatto di che cosa si debba fare per superarlo”; così “egli sta al di fuori dell’ordinamento giuridico normalmente vigente e tuttavia appartiene a esso poiché a lui tocca la competenza di decidere se la costituzione in toto possa essere sospesa”[74]. Tuttavia, ciò che Schmitt avrebbe, di lì a qualche anno, sostenuto con i suoi scritti sul “custode” della costituzione[75] rischia di condurci altrove: la dimensione sovrana della decisione sullo stato di eccezione, anche superando l’impostazione schmittiana, sta proprio nella sua imprevedibilità.  Se infatti alla condizione eccezionale di pericolo non corrisponde una reazione difensiva sufficiente di tipo endogeno da parte dell’ordinamento, anche il criterio formulato da Schmitt non potrà che avere un’applicazione a posteriori, ovvero basata sul riconoscimento dell’autoassunzione, da parte di soggetti politici, di poteri di fatto che diventano giuridici nel momento in cui riescono a ottenere un grado apprezzabile di coercitività.  Il persistente dualismo iperdialettico che emerge dall’opera schmittiana (sostanza/esercizio di potere costituente; norma/attuazione della norma; decisione/norma; e, soprattutto, l’antitesi svolta nell’opposizione assiologica Freund/Feind), non è solo una radicalizzazione dell’eredità hegeliana, ma anche il segno di una consapevolezza dell’ineffabilità (e dell’ineluttabilità) di una forza-di-legge senza legge, ossia della hybris su cui il diritto stesso costantemente si fonda; esso tende cioè a preservare una dimensione “altra”, in qualche modo liminare, ma non includibile in toto nel giuridico.  In questa prospettiva, l’eccezione alla regola assume un significato profondo: è certo eccessivo affermare che “per applicare una norma, occorre, in ultima analisi, sospendere la sua applicazione, produrre un’eccezione”[76], in quanto la norma vive ordinariamente della sua osservanza, e dunque della sua applicazione da parte di tutti i destinatari (cittadini comuni, ancor prima che funzionari amministrativi o giudici), e, più in generale, ogni regola, in sé, identifica come presupposto logico e cronologico ogni propria eccezione, che diventa tale se e in quanto quella regola le preesiste. Ma è altresì vero che il caso estremo (e non tanto quello di emergenza, che permette il ricorso a strumenti endoordinamentali, ma quello di catastrofe), svela improvvisamente e incontenibilmente la radice profonda del potere e del dominio, di cui il diritto, in ogni sua fase di positivizzazione, non è che un momento di razionalizzazione[77].   Così ragionando, il processo di integrazione politica che spinge alla revisione – e nel caso ora detto, alla sostituzione – di una costituzione non è, per sé, delimitabile effettivamente secondo un meccanismo definito in forma preventiva. In altre parole, le norme sulla revisione costituzionale non sono in sé, per il solo fatto di essere poste in un testo costituzionale relativamente rigido, capaci di vincolare il procedimento stesso, né tanto meno di dettare limiti di contenuto[78]. Esse dovranno essere validate a posteriori sulla base dell’osservanza che, in concreto, siano riuscite a ottenere nella prassi effettiva conseguente al processo di modifica; in altri termini, le norme sulla revisione, e il processo stesso di revisione, sono un non-luogo giuridico, il limen tra il diritto e il fatto, tra la fatticità e la validità dell’ordinamento.  In tale prospettiva, il concetto di potere costituente, se inteso come fenomeno dirompente e illimitabile, ma istantaneo ed episodico, è fuorviante: se si può certo concordare con chi ne afferma la natura fattuale e l’assenza di limiti preordinabili[79], meno si può condividere l’asserto per cui esso, proprio in quanto fattuale, avrebbe natura non giuridica nonché, in concreto, intermittente. Se è vero, in altre parole, che il processo costituente segue linee proprie, sempre mutevoli e non predeterminabili  (poiché  anche se, per ipotesi, seguisse quelle preordinate, ciò accadrebbe solo per libera scelta del soggetto agente), ciò non implica che la intrinseca “politicità” di tale azione escluda una sua “giuridicità”[80].  Ad aderire a questa prospettiva, la giuridicità dovrebbe infatti dirsi ontologicamente connessa a una sorta di limitabilità: se dunque l’atto costituente si riconosce come in sé non limitabile, il potere da cui esso deriva diventa per sé non giuridico. Ma qui si può seguire una linea affatto diversa: se, richiamando Benjamin, “ogni violenza è, come mezzo, potere che pone o che conserva il diritto”[81], rinunciando altrimenti a ogni validità, è evidente che tale violenza, massima nel processo costituente, è da dirsi sottesa costantemente al fenomeno giuridico, e rende quindi la non limitabilità di quest’ultimo tratto tutt’altro che incompatibile con la sua giuridicità. In realtà, ogni sistematizzazione dei modelli di produzione normativa altro non è che la traduzione tecnica (e la dissimulazione sociale) della valenza ontologica di hybris implicata nella coercizione giuridica, e già fatta propria dalla dimensione sacrale con cui la stessa giuridicità si è a lungo commista; essa è, in altre parole, il tentativo di limitarne la capacità eversiva, di controllarne l’energia, (anche) secolarizzandone l’origine sacrale.  E questo è, in sé, elemento anzitutto fattuale, che si convalida e si compendia nella norma, come detto, mediante l’effettività, ma anche mediante l’esercizio, attuale o potenziale (minacciato) di una ulteriore e concreta forza rappresentata dalla sanzione (ovvero l’effettività delle norme strumentalmente destinate a realizzare l’apparato sanzionatorio).  Naturalmente, a tal fine si aggiunge anche l’elemento della persuasione dei destinatari del nuovo ordinamento, ossia un fattore di apparente rispetto della tradizione, se utile, o, all’opposto, l’elemento trainante di un’estetica rivoluzionaria nei confronti di un vecchio regime logorato; ma si tratta di mezzi impiegati in forma strategica, in qualche modo marginali e contingenti, seppur della massima efficacia in un contesto dominato dalla comunicazione mediatica. 

In questa prospettiva, il lungo, complesso e delicato dibattito, di taglio squisitamente tecnico, sulla natura degli strumenti giuridici impiegati per fronteggiare l’emergenza, assume un senso alquanto diverso: ove la stessa costituzione preveda modalità preordinate, infatti, indicando organi, procedure o atti destinati a tal fine, l’analisi non fa altro che presupporre, come ipotesi, un’emergenza per così dire “relativa”, rispetto alla quale non si pone, a ben guardare, un reale problema di metodo. Così, per fare solo qualche esempio tra molti, si possono richiamare il citato art.48, co.2 WRV, che affidava poteri straordinari al Presidente del Reich, o l’art.16 della vigente Costituzione francese, che ne riconosce di analoghi al Presidente della V Repubblica, individuando il soggetto (e il tempo, limitato a un pur sfuggente criterio di durata dell’emergenza); più ambiguamente, l’art.77 della Costituzione italiana, che indica il decreto legge (adottato dal Governo, emanato dal Capo dello Stato e sottoposto a conversione in legge delle Camere) come strumento per i “casi straordinari di necessità ed urgenza”, indicando presupposti, soggetti e atto[82]; o il complesso meccanismo regolato dagli articoli 12, 80a e 81 del Grundgesetz, che disciplina un insieme differenziato e interconnesso di stati di straordinarietà istituzionale (di difesa, di tensione, di emergenza legislativa), delineando presupposti, condizioni e procedure particolari per l’intera fase emergenziale; o infine, per un esempio di altra area, il variegato modello (estado de exception, estado de alarma, estado de emergencia economica, estado de conmoción interior o exterior) di cui agli articoli 337 e 338 dell’attuale costituzione venezuelana, che consente in tali casi forme diverse di restrizione dei diritti costituzionalmente garantiti.

Ma il problema reale si pone allorché lo svolgersi degli eventi concreti impedisca, o quanto meno contraddica, il quadro definito normativamente, ossia quando sia lo stesso succedersi di fatti, non previsti, e non controllati, a porre se stesso come origine di un nuovo assetto politico e istituzionale: se cioè l’emergenza si muta in crisi, e la crisi in catastrofe del sistema[83], ogni previsione normativa si rivela assolutamente vana. Qui dunque l’elemento di violenza dell’agire sociale si manifesta senza possibili dissimulazioni, come forza pura, come capacità di dominio e di coercizione, nella sua dimensione tutta immanente e (ormai) desacralizzata; in altre parole, il riemergere periodico di quello che è stato definito “potere costituente”, e che altro non è che l’espressione della violenza sociale nella sua dimensione politica, non definisce quest’ultimo, nella sua evidente fatticità, come una presenza episodica, ma piuttosto come un fiume carsico, la cui esistenza, sempre occultata dalla formalizzazione razionalizzante del diritto, si svela in superficie nei momenti di frattura evolutiva del sistema sociale (e dei sottosistemi in esso interagenti).

 Dinanzi a tale ipotesi, perciò, la forma dell’agire giuridico (ossia il procedimento e la teoria di atti che lo compongono) cede alla sostanza, o meglio al fine dello stesso, che è e resta, soprattutto nella fasi critiche, quello del recupero di una stabilità integrativa, di una nuova modalità di positivizzazione del diritto, mediante un processo di cui tuttavia devono essere ridefiniti gli stessi parametri e gli strumenti specifici, o, più concretamente, quello della conservazione dell’unità e della stessa esistenza del gruppo sociale costituito, quale che sia (o che diventi) la forma di tale esistenza[84].  Ma, infine, il raggiungimento dello scopo sarà, come detto, valutabile solo a posteriori, laddove cioè un grado sufficiente di effettività sia stato dimostrato dalla media osservanza dei precetti assiologicamente fondanti del nuovo assetto sistemico[85]Solo in questa prospettiva, a ben vedere, può essere giudicata la maggiore o minore idoneità dei diversi modelli di integrazione politica: così, ovviamente, si presumerà più idonea alla stabilizzazione, in un contesto sociale di complessità estrema, come quello delle società plurali e multiculturali contemporanee, una modalità discorsiva inclusiva di tipo habermasiano, accompagnata a un sufficiente grado di welfare, piuttosto che un modello di integrazione autoritaria di stampo neocorporativo o un iperliberismo fondato sull’espansione incontrollata delle logiche di mercato.

Ma, sul piano dell’analisi, che deve per quanto possibile isolare le preferenze personali, è evidente che la valutazione dovrà essere svolta solo in senso funzionale, rispetto a un canone di efficienza del sistema che integri in sé il delicato concetto dell’efficienza democratica (ossia il rispetto di una sempre sfuggente dimensione qualitativa dell’efficienza stessa, ad esempio nel rapporto tra libertà e autorità), consapevoli del fatto che, non troppo sorprendentemente, anche i regimi totalitari nascono e si reggono, per un tempo sovente non breve, su un consenso e una collaborazione popolare, basati su interessi, timori o irrazionalità, e nondimeno innegabili, che danno anche ragione dei (non rari e non troppo enigmatici) fenomeni di autodissoluzione delle democrazie, e che, in realtà, le dinamiche coercitive del potere transitano anche per le apparenti neutralizzazioni del modello discorsivo[86].

Di qui un intricarsi di paradossi, e di ossimori definitori, che restano tali a dispetto di ogni tentativo di analisi: uno stato di eccezione che, in sé, può dimostrarsi prodromo di una trasformazione radicale (verso una dittatura sovrana) o di una rigida restaurazione dello status quo (la dittatura commissaria); una trasformazione costituzionale che, se limitata da norme nella forma della Verfassungsänderung, vorrebbe porsi, al contempo, come garanzia di mutamento, di metamorfosi controllata, e di stabilità (rigidità) garantita; una sovranità che si pone ancora come decisione politica pura (in senso schmittiano), ma si procedimentalizza per legittimarsi (in senso luhmanniano), per assorbire e dissimulare il conflitto sociale che ne rimane il dilemma irrisolto; e velato, ma non troppo dissimulato poiché sempre sotteso, il fattore di una hybris, sostanza irredimibile della dimensione politica, che inclina sempre più verso l’inquietante e postmoderno enigma della biopolitica[87].

In tale prospettiva, la riflessione sulla natura, gli effetti e i limiti del potere costituente, nonché (se proprio si vogliono mantenere queste categorie) sul potere costituito di revisione, torna a essere problema dei sociologi e dei filosofi della politica più che dei giuristi. L’inevitabile rinvio all’effettività come fondamento della legittimazione politica ha in sé una valenza di implicita abdicazione alla narrazione del dover essere dinanzi alla forza originaria dell’essere, nonché di destrutturazione della funzione sistemica della “violenza mitica” che pone il diritto; la liminarità dell’essere contemporaneamente fuori e dentro il sistema stesso, che caratterizza l’atto costituente, e con questo la stessa sovranità e il suo titolare reale; l’innegabile violenza che rende così inquietante l’atto postsacrale della decisione che la sovranità sostanzia, sono altrettanti confini della riflessione giuridica.  Ma questa può (e deve) varcarli fondando, per se stessa, un nuovo statuto epistemologico, che sia capace di integrare le prospettive del Sollen con quelle del Sein, superando, in una dimensione finalmente interdisciplinare, gli obsoleti e fallaci pregiudizi inerenti a un sempre meno plausibile ruolo tecnico-specialistico del giurista e di un esclusivo quanto evanescente “metodo” giuridico, che ne costituirebbe il proprium funzionale. Il giurista invece, oggi più che mai, per essere tale non può non servirsi anche del metodo storico, filosofico, sociologico, politologico e semiologico per conoscere la realtà entro cui opera, in una piena interazione con gli altri specialisti, a loro volta necessariamente impegnati nell’interdisciplinarità.  Perché appunto in questa apertura metodologica, nella società complessa, il giurista (come ogni altro studioso) deve trovare il proprio ubi consistam (e il metodo della stessa sua disciplina); altrimenti, entro un contesto oggettivo di relatività e pluralismo assiologico, egli rischia di trovarsi inopinatamente asservito dal potere, o addirittura di scomparire, arroccato in una fortezza sempre più lontana dal mondo della vita.   Ma a tanto non può certo ambire questa riflessione, che invece deve qui fermarsi. 


[1] C.Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità (II ed., 1934), tr.it. in Id, Le categorie del ‘politico’. Saggi di teoria politica, a cura di G.Miglio e P.Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, 27 ss. (il passo citato è a p.61).

[2] C.Schmitt, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria (1921), tr.it. della III ed. (1964), Laterza, Roma-Bari 1975, 191 ss.; questa legge fa assumere allo stato di assedio una fisionomia di état de siège fictif, o politico, diverso da quello reale (o effectif), secondo una mutazione che sarà sempre più frequente nelle esperienze successive, secondo quanto sostenuto da G.Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II,1, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, 13 ss..

[3] Una recente ricognizione in materia è operata da G.Marazzita, L’emergenza costituzionale.Definizioni e modelli, Giuffrè, Milano, 2003, spec. 43 ss.; un quadro più sintetico in G.Agamben, Stato di eccezione, cit., 21 ss..

[4] In quest’ambito, l’impostazione realistica scandinava e l’istituzionalismo francese appaiono, in forme ovviamente diverse, più idonee del normativismo kelseniano a cogliere il legame tra fatto e norma: per il primo si vedano gli studi di K.Olivecrona, Il diritto come fatto (1939), tr.it. Giuffrè, Milano 1967, e di A.Ross, Diritto e giustizia (1958), tr.it. Einaudi, Torino, 1965, I ed. Pbe 1990; per il secondo, M.Hauriou, Teoria dell’istituzione e della fondazione (1930), tr.it. Giuffrè, Milano, 1967. Un recupero recente delle prospettive istituzionaliste in N.McCormick-O.Weinberger,              e in M.La Torre, Norme, istituzioni, valori. Per una teoria istituzionalistica del diritto, Laterza, Roma-Bari, 1999.

[5] Rileva questo profilo, con suggestive considerazioni, G.Agamben, Stato di eccezione, cit., 48: “Essere-fuori e, tuttavia, appartenere: questa è la struttura topologica dello stato di eccezione, e solo perché il sovrano, che decide sull’eccezione, è, in verità, logicamente definito nel suo essere da questa, può anch’esso essere definito dall’ossimoro estasi-appartenenza” (corsivi dell’a.).

[6] C.Schmitt, Teologia politica, cit., 33; sul tema, di recente, G.Azzariti, Critica della democrazia identitaria. Lo Stato costituzionale schmittiano e la crisi del parlamentarismo, Laterza, Roma-Bari 2005, 42 ss.

[7] C.Schmitt, op.cit., 39-40: “l’eccezione è ciò che non è riconducibile; essa si sottrae all’ipotesi generale, ma nello stesso tempo rende palese in assoluta purezza un elemento formale specificamente giuridico: la decisione….il sovrano crea e garantisce la situazione come un tutto nella sua totalità. Egli ha il monopolio della decisione ultima. In ciò sta l’essenza della sovranità statale, che quindi propriamente non dev’essere definita giuridicamente come monopolio della sanzione o del potere, ma come monopolio della decisione….Il caso d’eccezione rende palese nel modo più chiaro l’essenza dell’autorità statale”; di qui Schmitt giunge ad affermare che il caso normale “non prova nulla, l’eccezione prova tutto; non solo essa conferma la regola: la regola stessa vive dell’eccezione” (ivi,41); con logica peraltro opinabile, giacché mentre può esservi, in astratto, regola senza eccezione, non pare plausibile l’inverso.  Sul punto si veda comunque G.Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita (1995), Einaudi, Torino, 2005, 19 ss.

[8] Una sintesi del tema in F.Modugno, voce Sistema giuridico (1988), ora in L.Mengoni-F.Modugno-F.Rimoli, Sistema e problema. Saggi di teoria dei sistemi giuridici, Giappichelli, Torino 2003, 1 ss.

[9] Si veda, quale esempio tra molti, la classificazione (un po’ reticente) della necessità come fonte extra ordinem  in C.Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Cedam, Padova, 1975-76, t.I, 79 e 317 ss.; t.II, 702 ss.; più ampiamente, P.G.Grasso, voce Necessità (diritto pubblico), in Enciclopedia del diritto, vol.XXVII, Giuffrè, Milano, 1977, 866 ss..

[10] Entro una vastissima letteratura specifica, basti ricordare le acute riflessioni di S.ti Romano, Sui decreti-legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria (1909), ora in Id., Scritti minori, a cura di G.Zanobini, I, Giuffrè, 1950, rist.1990, 349 ss.: per Romano la necessità si pone quale “fonte prima e originaria di tutto quanto il diritto, in modo che rispetto ad essa, le altre sono da considerarsi in certo modo derivate” , il che si evidenzia al momento dell’instaurazione di un nuovo ordinamento, ma si percepisce anche nella vita ordinaria di questo; la necessità ha in comune con la consuetudine l’essere una “manifestazione diretta delle forze sociali”, ma si differenzia da quella “per la maggiore energia e determinatezza che ne deriva, che non ha bisogno di un periodo di tempo più o meno lungo che la consacri: essa è sempre urgente e impellente”  (ivi, 362-363).

[11] C.Schmitt, Teologia politica II. La leggenda della liquidazione di ogni teologia politica (1969), tr.it. della seconda ed. (1970) a cura di A.Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1992.

[12] Autori, com’è noto, assai cari a Schmitt: si veda la raccolta di saggi, scritti tra il 1922 e il 1944, dal titolo Donoso Cortés interpretato in una prospettiva paneuropea (1950), tr.it. Adelphi, Milano, 1996.

[13] Sul punto G.Marramao, Cielo e terra. Genealogia della secolarizzazione, Laterza, Roma-Bari 1994, 74 ss.; Id., Potere e secolarizzazione, nuova ed., Bollati Boringhieri, Torino, 2005, spec. 177 ss. sulla Entscheidung nell’accezione di Schmitt; più risalenti gli studi di H.Lübbe, La secolarizzazione. Storia e analisi di un concetto (1965), tr.it. Il Mulino, Bologna, 1970; P.Prodi, Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente, Il Mulino, Bologna, 1992; sul rapporto tra secolarizzazione e fondazione dello Stato moderno, E.-W.Böckenförde, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation (1967), ora in Id., Recht, Staat, Freiheit. Studien zur Rechtsphilosophie, Staatstheorie und Verfassungsgeschichte, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1991, 91 ss. (tr.it. La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione, in Cristianesimo e potere, a cura di P.Prodi e L.Sartori, EDB, Bologna, 1986, 121 ss.); J.Habermas, I fondamenti morali prepolitici dello Stato liberale, in Humanitas, n.2/2004, 239 ss.; Id., Zwischen Naturalismus und Religion. Philosophische Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 2005, spec.119 ss. (tr.it. parz. Tra scienza e fede, Laterza, Roma-Bari 2006, 19 ss.); F.Rimoli, Laicità, postsecolarismo, integrazione dell’estraneo: una sfida per la democrazia pluralista, in Diritto pubblico, 2006. 

[14] Secondo quanto già teorizzato nel secolo XIII da H.Bracton e riaffermato nel XV da J.Fortescue: sul tema Ch.McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno (1945), tr.it. Il Mulino, Bologna, 1990, spec. 98 ss.; due recenti ricostruzioni dell’evoluzione del concetto di costituzione e dell’esperienza concreta del costituzionalismo in M.Fioravanti, Costituzione, Il Mulino, Bologna, 2005, e G.Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica, Feltrinelli, Milano, 2006.

[15] Per la differenza tra i due modelli si veda, in sintesi, D.Zolo, Teoria e critica dello Stato di diritto, in Lo Stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P.Costa e D.Zolo, Feltrinelli, Milano, 2002, 17 ss.; sul principio di divisione dei poteri sia permesso il rinvio a F.Rimoli, voce Poteri (divisione dei), in Dizionario di diritto pubblico, diretto da S.Cassese, Giuffrè, Milano, 2006, 4406 ss.

[16] Per un’analisi di questa evoluzione, P.Ridola, Libertà e diritti nello sviluppo storico del costituzionalismo,                     in I diritti fondamentali, a cura di R.Nania e P.Ridola, vol.I, II ed., Giappichelli, Torino, 2006, 3  ss..

[17] Secondo un rapporto interattivo di estrema complessità; su quanto, nella tradizione giuridica occidentale, deriva da fonti teologiche si veda H.J.Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale (1983), tr.it. Il Mulino, Bologna, 1998, 175 ss..

[18] J.J.Rousseau, Du contrat social ou principes de droit politique (1762), lib.I, § 7 (ed.it. a cura di G.Barni, Rizzoli, Milano, 1974, 50-51); peraltro, la volontà generale, che “riguarda l’interesse comune”, non si identifica necessariamente, in sé, con la volontà della maggioranza, o addirittura di tutti, che è spesso “una somma di particolari volontà” (ivi, lib.II, § 3, 59 ss.); la volontà generale è piuttosto un fine comune, rispetto al quale chi si esclude non fa parte della nazione: sul punto J.L.Talmon, Le origini della democrazia totalitaria (1952), tr.it. Il Mulino, Bologna, nuova ed. 2000, 70 ss., che dapprima ben rileva come la volontà generale sia per Rousseau “qualcosa di simile a una verità matematica o a un’idea platonica”, che “ha una propria esistenza oggettiva, sia che venga o non venga percepita”, e che “deve tuttavia essere scoperta dall’intelletto umano”: una volta scoperta, non può essere rifiutata, e si può essere costretti ad accettarla, ossia “ad essere liberi” (ivi, 62).

[19] Il riferimento è ancora a J.L.Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, cit. , 57 ss.

[20] H.Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), tr.it. Etas, Milano, 1984, 112; si veda però anche la postuma Teoria generale delle norme (1979), tr.it. Einaudi, Torino, 1985, 431 ss., in cui l’autore, ribadendo che “soltanto una norma può essere il fondamento di validità di un’altra norma”, e che la norma fondamentale “è una norma non posta, ma presupposta”, precisa tuttavia che essa “può, ma non deve necessariamente, essere presupposta”; solo quando lo è, però, “il senso soggettivo dell’atto di volontà, diretto al comportamento altrui, può essere qualificato anche come il suo senso oggettivo e questi significati possono essere qualificati come norme morali o giuridiche vincolanti” (ivi,434).

[21] Così A.Ross, Diritto e giustizia, cit., 79-80.

[22] Sul punto A.Ross, Sull’autoriferimento e su un “puzzle” nel diritto costituzionale (1969), tr.it. in Id., Critica del diritto e analisi del linguaggio, a cura di A.Febbrajo e R.Guastini, Il Mulino, Bologna 1982, 205 ss.; in proposito sia permesso il rinvio a F.Rimoli, Costituzione rigida, potere di revisione e interpretazione per valori (1992), ora in L.Mengoni-F.Modugno-F.Rimoli, Sistema e problema, cit., 155 ss., ma spec. 200 ss.; si veda anche A.Pace, L’instaurazione di una nuova costituzione. Profili di teoria costituzionale (1996), ora in Id., Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed.riv., Cedam, Padova, 2002, 99 ss., ma spec.146 ss..

[23] Si tornerà sul punto: si vedano però fin d’ora gli studi di N.Luhmann, Legitimation durch Verfahren (II ed., 1983), tr.it. Procedimenti giuridici e legittimazione sociale, Giuffrè, Milano 1995, e di J.Habermas, Faktizität und Geltung. Beiträge zur Diskurstheorie des Rechts und des demokratisches Rechtsstaat (1992), tr.it. Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e ass., Milano 1996, spec. 143 ss. e 180 ss.

[24] Sul punto F.Rimoli, Costituzione rigida, cit., passim; con diversa prospettiva, A.Pace, La causa della rigidità costituzionale. Una rilettura di Bryce, dello Statuto albertino e di qualche altra costituzione, in Id., Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi,cit., 1 ss.; la distinzione tra costituzioni rigide e flessibili, di fatto già nota nella prassi, è tuttavia puntualizzata da J.Bryce, Costituzioni flessibili e rigide (1901), tr.it. Giuffrè, Milano, 1998.

[25]  Sul tema, J.J.Linz, Il crollo dei regimi democratici: un modello teorico (1978), in J.J.Linz- P.Farneti- M.Rainer Lepsius, La caduta dei regimi democratici, Il Mulino, Bologna, 1981, 9 ss.; F.Rimoli, Pluralismo e valori costituzionali. I paradossi dell’integrazione democratica, Giappichelli, Torino, 1999,  71  ss.

[26] Il riferimento è, ovviamente, anzitutto a J.L.Austin, Come fare cose con le parole (1962), tr.it. Marietti, Milano, 1987; il paradigma linguistico è però ampiamente utilizzato, in un peculiare contesto teorico, anche da Habermas: sul punto J.Habermas, Teoria dell’agire comunicativo. II. Critica della ragione funzionalistica  (1981, III ed.1984), tr.it. Il Mulino, Bologna, 1997, spec. 379 ss.

[27] Sul punto N.Luhmann, op.cit., 105 ss., che ben rileva, peraltro, la problematicità del concetto di “accettazione”, pur centrale per i profili sociologico-funzionali del procedimento e per i meccanismi di ristrutturazione delle aspettative e per i processi di apprendimento.

[28] Sul punto G.Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino, 2005, 93-94: “ai due limiti estremi dell’ordinamento, sovrano e homo sacer presentano due figure simmetriche, che hanno la stessa struttura e sono correlate, nel senso che sovrano è colui rispetto al quale tutti gli uomini sono potenzialmente homines sacri e homo sacer è colui rispetto al quale tutti gli uomini agiscono come sovrani”.

[29] Una significativa disamina di un tema assai dibattuto in Z.Bauman, Wasted Lives. Modernity and its Outcasts (2004), tr.it. Vite di scarto, Laterza, Roma-Bari 2005.

[30] Questo profilo è tradizionalmente oggetto di studio da parte dei giuristi: sul tema A.G.Conte, Saggio sulla completezza degli ordinamenti giuridici, Giappichelli, Torino, 1962; una sintesi delle teorie in M.Corsale, Lacune dell’ordinamento, in Enciclopedia del diritto, XXIII, Giuffrè, Milano, 1973; N.Bobbio, voce Lacune del diritto, in Novissimo Digesto italiano, IX, Utet, Torino, 1963.

[31] E.-J.Sieyes, Che cos’è il Terzo stato? (1789), tr.it. in Id., Opere e testimonianze politiche, a cura di G.Troisi Spagnoli, I, Giuffrè, Milano 1993, 208 ss., ma spec. 252 ss. (cap.V).                                               

[32] È la tesi sostenuta dalla gran parte della dottrina italiana, e accolta anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n.1146 del 1988 (in Giurisprudenza costituzionale, 1988, I, 5565 ss., con osservazione di S.Bartole); sul tema, di recente, M.Piazza, I limiti alla revisione costituzionale nell’ordinamento italiano, Cedam, Padova, 2002, 11 ss..

[33] In proposito M.Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale, in Quaderni costituzionali, 1995, 7 ss.; un quadro generale dei problemi in P.G.Grasso, voce Potere costituente, in Enciclopedia del diritto, XXXIV, Giuffrè, Milano, 1984, 642 ss.; P.Häberle, voce Potere costituente (teoria generale), in Enciclopedia giuridica, Aggiornamenti, IX, Ist.Enc.it. – G.Treccani, Roma, 2001.

[34] Sul punto C.Mortati, voce Costituzione (dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, XI, Giuffrè, Milano, 1962, 139 ss.; Id., La costituzione in senso materiale, Giuffrè, Milano, 1940.

[35] Sia permesso il rinvio a F.Rimoli, Costituzione rigida, cit., passim.

[36] Sul tema, di recente, con tesi assai diverse tra loro, E.-W. Böckenförde, Il potere costituente del popolo: un concetto limite del diritto costituzionale (1986), tr.it. in Aa.Vv., Il futuro della costituzione, cit., 231 ss.; M.Dogliani, Potere costituente e revisione costituzionale nella lotta per la costituzione, ibidem, 253 ss.; A.Negri, Il potere costituente. Saggio sulle alternative del moderno, Manifestolibri, Roma 2002, per il quale “il costituzionalismo è una dottrina giuridica che conosce solo il passato, è una referenza continua al tempo trascorso, alle potenze consolidate e alla solo inerzia, allo spirito ripiegato – di contro il potere costituente è sempre tempo forte e futuro”; tale potere è visto come “una volontà assoluta che determina il suo proprio tempo”, e “rappresenta un momento essenziale nella secolarizzazione del potere e nella laicizzazione del politico” (ivi, 23); secondo M.Luciani, L’antisovrano e la crisi delle costituzioni, in Rivista di diritto costituzionale, 1996, 124 ss., “si dice che non si ha costituzione se non v’è stata manifestazione d’una volontà costituente. L’affermazione però potrebbe e dovrebbe essere esattamente rovesciata: in realtà un potere si rivela come costituente solo laddove la manifestazione della sua volontà è (e riesce ad essere) una costituzione” (ivi,154).

[37] Su quest’ultimo aspetto ancora G.Agamben, op.ult.cit., 97 ss.. La dimensione della violenza come fondamento del diritto, peraltro da sempre presente nella tradizione realistica e, in forme peculiari, in quella marxiana, emerge chiaramente nel noto saggio di W.Benjamin, Per la critica della violenza (1920), tr.it. in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R.Solmi, Einaudi, 1995, 5 ss.; su questo, e più ampiamente sul tema, J.Derrida, Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità” (1994), tr.it. Bollati Boringhieri, 2003, 86 ss., nonché E.Resta, La certezza e la speranza. Saggio su diritto e violenza, nuova ed. Laterza, Roma-Bari 2006.  Il potere di uccidere è connotato di sovranità del volere e del potere divino, e di quello umano che vuol farsene riflesso come “potere compiuto”: dunque , anche (ossia non solo) nel mito, “l’atto dell’uccisione funge da simbolo della vittoria compiuta, ‘integrale’, e da segno infallibile della maestà suprema”, addirittura protraendosi come dominio possibile sul cadavere dell’ucciso, mutilato e insepolto: così H.Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica (1986), tr.it. Il Mulino, Bologna, 1990, 73, che richiama ad esempio alcuni passi dell’Iliade.

[38] Secondo una prospettiva piuttosto prossima a quella, peraltro alquanto olistica, della Integrationslehre di R.Smend, Costituzione e diritto costituzionale (1928), e Dottrina dell’integrazione (1956), ora in tr.it. in Id., Costituzione e diritto costituzionale, Giuffrè, Milano, 1988, 53 ss. e 271 ss.

[39] W.Benjamin, op.cit., 26: “Come in tutti i campi al mito Dio, così, alla violenza mitica, si oppone quella divina, che ne costituisce l’antitesi in ogni punto. Se la violenza mitica pone il diritto, la divina lo annienta, se quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, questa è letale senza sangue……La violenza mitica è violenza sanguinosa sulla nuda vita in nome della violenza; la pura violenza divina sopra ogni vita in nome del vivente”, giacché “con la nuda vita cessa il dominio del diritto sul vivente”.

[40] Sul processo di razionalizzazione della società  e sul monopolio della violenza, d’obbligo il riferimento a M.Weber, Economia e società (post., 1922), tr.it. in 5 volumi, Ed. di Comunità, 1995 (si veda spec. il vol.III, Sociologia del diritto, 10 ss.); in proposito anche E.Resta, op.cit., 72 ss.. 

[41] In proposito N.Luhmann, Sociologia del diritto (1972), tr.it.parz. a cura di A.Febbrajo, Laterza, Roma-Bari 1977.

[42] Sul tema, vastissimo, M.Foucault, Nascita della biopolitica (Corso al Collège de France 1978-79) (2004), tr.it. Feltrinelli, Milano 2005; Id., Biopolitica e liberalismo (1994), tr.it. Medusa, Milano, 2001; R.Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino, 2004; sul campo di concentramento e sulla figura del “musulmano” come espressione estrema e paradigma della dimensione biopolitica, G.Agamben, Homo sacer, cit., 171 ss.; Id., Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Bollati Boringhieri, Torino 1998, spec.37 ss..

[43] D’obbligo il riferimento a R.Girard, La violenza e il sacro (1972), tr.it. Adelphi, Milano, VII ed. 2005.

[44] La definizione di una “società aperta degli interpreti della costituzione”, che, pur con la sua eco popperiana, ha avuto una certa fortuna tra i giuristi europei, è dovuta a P.Häberle, Die offene Gesellschaft der Verfassungsinterpreten (1975), ora in Id., Die Verfassung des Pluralismus. Studien zur Verfassungstheorie der offenen Gesellschaft, Athenaeum, Königstein/Ts., 1980, 79 ss.; sul Verfassungswandel, inteso come Bedeutungswandel delle norme costituzionali, in relazione all’art.79 co.1 GG, che detta norme per una esplicita Verfassungsänderung, si veda il Grundgesetz Kommentar, a cura di H.Dreier, Bd.II, Art.20-82, Mohr Siebeck, Tübingen, 1998, 1491 ss.

[45] Così, secondo E.Fraenkel, Il doppio Stato. Contributo alla teoria della dittatura (1941, ed.tedesca 1974), tr.it. dell’ed.ted. Einaudi, Torino, 1983, “la Costituzione del Terzo Reich è lo stato d’assedio. La sua carta costituzionale è il decreto d’emergenza per la difesa del popolo e dello Stato del 28 febbraio 1933” (ivi, 21); tale decreto (riprodotto ibidem, 79 nt.1, emanato in base all’art.48 co.2 WRV, abrogava numerose disposizioni costituzionali inerenti ai diritti di libertà e riduceva l’autonomia dei Länder, ponendosi di fatto come la base dello “Stato discrezionale” che, affiancandosi a quello “normativo”, caratterizzò l’ordinamento tedesco durante il regime nazionalsocialista. Ciò rappresentava, a ben vedere, un’antitesi al modello costituzionale di garanzia del quale si è detto nel testo; è da notare che ordinanze emanate in base all’art.48 co.2 WRV furono, già negli anni 1930-1932, adottate in misura assai crescente (per un totale di ben 109): sul punto G.Marazzita, op.cit., 124.

[46] Il tema è ovviamente oggetto di una letteratura immensa: basti qui richiamare il noto studio di H.Arendt, Sulla rivoluzione (1963), tr.it. Ed. di Comunità, Torino, 1999.

[47] Ossia come esempio di Machtübernahme piuttosto che di Machtübergreifung: sul punto J.J.Linz, Il crollo dei regimi democratici, cit., 33 ss.; ma si veda in senso diverso K.D.Bracher, Stufen der Machtergreifung, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1979, 218 ss.. Già nello stesso anno della legge, C.Schmitt, Staat, Bewegung, Volk. Die Dreigliederung der politischen Einheit (1933), tr.it. Stato, movimento, popolo, in Id., Un giurista davanti a se stesso. Saggi e interviste, Neri Pozza, Vicenza, 2005, 255 ss., rilevava come “ogni tentativo di giustificare o di confutare la situazione giuridica odierna in base alla costituzione di Weimar è perciò, veduto dallo Stato nazionalsocialista, o un gioco senza senso, oppure una espressione della tendenza politica a ricondurre il diritto pubblico oggi valido, e la auctoritas rei constitutae che appartiene allo Stato odierno, agli ordini di idee di una volta e in tal modo a paralizzarlo o perlomeno a relativizzarlo” (ivi, 256); riteneva la “rivoluzione legale” una “leggenda nazionalsocialista” a fini propagandistici E.Fraenkel, op.cit., 22; una ricostruzione storica del periodo, in una letteratura immensa, in  W.L.Shirer, Storia del Terzo Reich (1959-60), I, tr.it., Einaudi, Torino, 1990, 233 ss.; sulla legge del 24 marzo 1933, e sull’escamotage parlamentare che portò alla sua approvazione, anche G.Marazzita, op.cit., 126 ss. (il testo della legge è riportato ivi, alla nota 173 di p.127).

[48] Sulla flessibilità dello Statuto (che nulla peraltro stabiliva sulla propria modificabilità), si veda già quanto affermato da G.Saredo, Trattato delle leggi, Firenze 1886, I, 509, §§ 842-843, secondo il quale, in materia di riforme della costituzione albertina, “il potere legislativo ha ...l’incontestabile facoltà di abrogare successivamente la maggior parte degli articoli che compongono lo statuto, senza che esca dai confini che gli sono tracciati”; una ricostruzione delle interpretazioni dottrinali dell’epoca sul punto in C.Ghisalberti, Storia costituzionale d’Italia 1848-1948, IX ed., Laterza, Roma-Bari 1991, 19 ss.; il tema è ripreso e approfondito di recente da A.Pace, op.cit., passim,che peraltro sostiene la tesi di una “naturale rigidità” delle costituzioni scritte che nulla dicano in ordine alla propria modificabilità (come lo Statuto albertino) .

[49] Sebbene l’ipotesi possa riferirsi, più raramente, anche al caso di regimi autoritari ai quali succedano, in forme legali, regimi democratici: si veda il caso della Spagna dopo la caduta del franchismo: sul punto J.J.Linz, op.cit., 55 ss.; sul primo periodo di affermazione del regime fascista, si veda il noto studio di R.De Felice, Mussolini il fascista. La conquista del potere 1921-1925, Einaudi, Torino, 1995.   

[50] Per il complesso rapporto che lega valori e fini, nonché sul ruolo strumentale dei princìpi, F.Rimoli, Pluralismo e valori costituzionali, cit., 317 ss.; ma già J.Habermas, Fatti e norme, cit., 303 ss..   

[51] Sul punto F.Rimoli, op.cit., 212 ss.

[52] Sul punto, in riferimento alle “regole del gioco”, N.Bobbio, I vincoli della democrazia (1983), in Id., Il futuro della democrazia (raccolta di saggi), III ed., Einaudi, Torino 1991, 63 ss.

[53]Teorizzata invece da N.Luhmann, Sociologia del diritto (1972), tr.it. Laterza, Roma-Bari, 1977; Id., La differenziazione del diritto. Contributi alla sociologia e alla teoria del diritto (raccolta di saggi, 1981), tr.it., Il Mulino, Bologna, 1990, spec. 61 ss.; in senso critico sul punto J.Habermas, Diritto e morale (Tanner Lectures) (1988), in Id., Morale diritto politica (raccolta di saggi 1988-1991), Einaudi, Torino 1992, 45 ss.

[54] Sul punto N.Luhmann, La differenziazione, cit., 81 ss.

[55] Sul punto P.Häberle, Die Wesensgehaltsgarantie des Art.19 Abs.2 GG, II ed., 1983 (tr.it.parz. Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di P.Ridola, NIS, Roma 1993); D.Schefold, L’effettività dei diritti fondamentali in Germania, in Democrazia, diritti, costituzione. I fondamenti costituzionali delle democrazie contemporanee, a cura di G.Gozzi, Il Mulino, Bologna, 1997, 373 ss.; una prospettiva di ricostruzione teorica in N.Luhmann, I diritti fondamentali come istituzione (1965-1999), tr.it. Dedalo, Bari, 1999.

[56] È infatti non raro il caso di costituzioni (relativamente) rigide che si dichiarino anche completamente modificabili, seppur con aggravamenti “progressivi” del procedimento, secondo l’oggetto della revisione: un esempio vicino negli articoli 192-195 della vigente Costituzione svizzera; altri in A.Pace, La causa della rigidità, cit., 9, nt.7; casi di carte costituzionali flessibili (ossia modificabili con leggi ordinarie) sembrano trovarsi, attualmente, solo nel peculiare contesto britannico (ove si è stratificata nei secoli, com’è noto, una serie di atti e fatti costituzionali, non essendoci invece una costituzione unidocumentale), e in quello neozelandese (sul punto si veda ibidem, 30, nt.54).

[57] Richiamando S.ti Romano, op.cit., 364-365, “ci sono norme che o non possono scriversi o non è opportuno che si scrivano; ce ne sono altre, che non possono determinarsi se non quando si verifica la evenienza cui debbono servire. In altri termini, il diritto scritto non può mai escludere il diritto non scritto, e di questo specialmente quella parte che è data dalla necessità e che possiede in grado tanto più rilevante quell’innata vis, che da taluni si riconosce anche alla consuetudine”. Così, essa resta nel campo giuridico ove si manifesti “nel senso di una forza che difende e protegge l’ordinamento vigente e si traduca in comandi dello Stato”; tuttavia, potrebbe scaturirne diritto anche se si manifestasse in senso contrario, “ma ciò avverrà in un momento posteriore, se e quando riuscirà a costituire il potere e il regime che potrà dallo stato di giustizia farla passare in quello di un ordinamento concreto e stabile. La necessità dunque può dar luogo a provvedimenti giuridici, anche quando questi siano contrari alla legge.” Cioè, la necessità può portare nell’ordinamento ciò che, in linea di principio, ne sarebbe fuori: essa è sul limite del medesimo, e vi opera, con l’intervento a posteriori dell’effettività, da fattore integrativo sul crinale tra fattualità e validità.

[58] L’intera storia del Terzo Reich fu in effetti vissuta in un costante stato di eccezione, essendo il decreto del 28 febbraio 1933 e la legge del successivo 24 marzo atti sospensivi delle garanzie costituzionali: come detto, contesta la legalità dell’intero processo di affermazione di Hitler e del nazionalsocialismo E.Fraenkel, op.cit., 22 ss., che definisce “colpo di Stato illegale” quanto accaduto tra il 30 gennaio e il 24 marzo del 1933 (dalla nomina a cancelliere conferita a Hitler da Hindenburg, alla legge sui pieni poteri).

[59] Connessione ritenuta talvolta non necessaria: così, secondo H.Arendt, Sulla violenza (1969-70), tr.it. Guanda, Parma, 1996, 54-55, “il potere fa senz’altro parte dell’essenza di tutti i governi, ma la violenza no”. Questa, infatti, “è per natura strumentale; come tutti i mezzi, ha sempre bisogno di una guida e di una giustificazione per giungere al fine che persegue”, mentre il potere è “un fine in sé”.

[60] Il fattore sacrale è, come detto, sovente coessenziale alle religioni politiche: la definizione, data da E.Fraenkel, op.cit., 71, del Terzo Reich come di una “teocrazia senza Dio, una chiesa rivolta esclusivamente alla sua conservazione”, che “considera tutti coloro che per ragioni di coscienza rifiutano le sue leggi non criminali ma eretici” da perseguitare è certo paradossale, ma emblematica; peraltro il nazismo inclinò sempre verso una dimensione pagana con coloriture magico-esoteriche: sul tema G.Galli, Hitler e il nazismo magico. Le componenti esoteriche del Reich millenario, nuova ed., Rizzoli, Milano 1999 (II ed. Bur 2005); G.Nesi, La gnosi segreta dei “maestri spirituali” del nazismo, in Rivista di filosofia, 2002, n.3, 403 ss..  La sacralizzazione della politica incide però in ambiti affatto diversi: oltre al saggio di A.Elorza, La religione politica. I fondamentalismi, tr.it. Ed.riuniti, Roma 1996, e al noto studio di E.Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993 (II ed. EL 2003), si veda, per un esempio contemporaneo, ancora E.Gentile, La democrazia di Dio. La religione americana nell’era dell’impero e del terrore, Laterza, Roma-Bari, 2006.

[61] Sul punto già C.Offe, Legittimazione politica mediante decisione di maggioranza? (1980), in N.Bobbio-C.Offe-S.Lombardini, Democrazia, maggioranza e minoranze, Il Mulino, Bologna, 1981, 73 ss., ma spec. 86: “decisioni di maggioranza possono valere in modo legittimo solo per quelle questioni, delle quali si può ipotizzare che siano, almeno in linea di principio, rivedibili, reversibili, o correggibili, nel caso di conseguenze potenzialmente negative”; sebbene, ovviamente, debba riconoscersi che un quid inevitabile di immodificabilità sta in ogni azione, per il semplice fatto della sua consistenza diacronica (il problema si è posto ad esempio, per i giuristi, con riguardo agli effetti irreversibili dei decreti legge).

[62] Secondo quanto argomentato, pur acutamente, da N.Luhmann, La differenziazione del diritto, cit., 343 ss.

[63] G.Agamben, Stato di eccezione, cit., 55 ss., ma spec. 66-67; in seguito il iustitium si trasforma in lutto pubblico per la morte del sovrano, in relazione al possibile tumultus che tale decesso potrebbe provocare, e dunque ancora in stretta connessione con un possibile stato di eccezione (ibidem, 84 ss.).

[64] W.Benjamin, Per la critica della violenza, cit., 22-23: l’idea che possa esistere, a dispetto delle teorie che collegano biunivocamente mezzi legittimi a fini giusti, un tipo di violenza che, in sé illegittima, possa tuttavia perseguire fini giusti, pur non essendo con essi in rapporto di mezzo a fine, spinge l’autore a dire che “verrebbe così a cadere un luce sulla singolare, e a prima vista scoraggiante esperienza della finale insolubilità di tutti i problemi giuridici” (ivi,23). Qui scaturisce il concetto della violenza “mitica” o divina, intesa in origine come “semplice manifestazione degli dèi. Non mezzo ai loro scopi, appena manifestazione della loro volontà, essa è soprattutto manifestazione del loro essere” (ibidem); una sua affinità o identità con la violenza che pone il diritto sarebbe dunque illuminante per dedurne la natura di quest’ultimo.  

[65] Intesa come espressione di una “sovranità illimitata”: sul punto G.Azzariti, op.cit., 46 ss.; su Schmitt si veda anche l’imponente studio di A.Predieri, Carl Schmitt, un nazista senza coraggio, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1998.

[66] Sul punto G.Agamben, op.cit., 70 ss., secondo il quale “la violenza sovrana nella Teologia politica risponde alla violenza pura del saggio benjaminiano con la figura di un potere che né pone né conserva il diritto, ma lo sospende. Nello stesso, è in risposta all’idea benjaminiana di una indecidibilità ultima di tutti i problemi giuridici che Schmitt afferma la sovranità come luogo della decisione estrema” (ivi,71). Peraltro, l’idea che sia l’irredimibile scontro con il nemico a fondare la decisione politica resta sostanzialmente ferma anche in C.Schmitt, Teoria del partigiano. Integrazione al concetto del politico (1962), tr.it. Adelphi, Milano, 2005, spec. 125 ss. sui concetti di “vero nemico” e  “nemico assoluto”.

[67] G.Agamben, op.cit., 101 (il primo passo è in corsivo nel testo); funzione analoga è attribuita agli istituti dell’interregnum e della hostis iudicatio, con cui i patres fronteggiano situazioni eccezionali.

[68] Ibidem, 110.

[69] Si veda, per il secondo tipo di indagine, l’utile studio di B.Lincoln, L’autorità. Costruzione e corrosione (1994), tr.it. Einaudi, Torino, 2000, spec. 64 ss. sulla funzione della legge del Thing norvegese e della violenza nella Saga di Egil; sul tema delle diverse forme del rapporto di autorità anche B. de Jouvenel, La sovranità (1955), tr.it. Giuffrè, Milano, 1971, spec. 89 ss.

[70] D’obbligo il riferimento a G.Ritter, Il volto demoniaco del potere (1948), tr.it. Il Mulino,Bologna, 1958, ma anche al più recente studio di H.Popitz, Fenomenologia del potere, cit., 82 ss..

[71] C.Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), cap.I, § 3, (ed.it. a cura di A.Caracciolo, Giuffrè, Milano, 1984, 38 ss.).

[72] C.Schmitt, La dittatura, cit., 158.

[73] Ibidem.

[74] C.Schmitt, Teologia politica, cit., 34.

[75] Il riferimento è al noto Il custode della costituzione (1931), tr.it. Giuffrè, Milano,

[76] Così, drasticamente, G.Agamben, Stato di eccezione, cit., 54, sulla scorta peraltro del già citato Schmitt della Teologia politica. 

[77] In questo senso, allora, si comprende l’asserzione di C.Schmitt, Teologia politica, cit., 41, per cui “nell’eccezione, la forza della vita reale rompe la crosta di una meccanica irrigidita nella ripetizione”, e il suo finale richiamo a Kierkegaard, secondo il quale “l’eccezione spiega il generale e se stessa”; sul punto, criticamente, G.Marramao, Potere e secolarizzazione, cit., 186 ss.

[78] In tal senso già P.Barile, La costituzione come norma giuridica, Barbera, Firenze, 1951, 84 ss.; C.Mortati, Costituzione, cit., 186.

[79] Si veda, di recente, A.Pace¸ L’instaurazione di una nuova costituzione, cit., 110 ss.; già S.ti Romano, L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e la sua legittimazione (1901), in Id., Scritti minori, cit., I, 131 ss., ma spec.137 ss.

[80] Nel senso di un’alternatività si veda invece A.Pace, op.ult.cit., 115 ss.; peculiare la posizione di A.Negri, Il potere costituente, cit., 11 ss., che opera una riaffermazione radicale della natura originaria e incoercibile del potere costituente, negando peraltro l’utilità dell’approccio costituzionalistico, e del rapporto con gli istituti della rappresentanza, per la soluzione del problema inerente alla natura del potere medesimo (ivi,24); la lettura di Negri è peraltro troppo complessa per poter essere qui approfondita.

[81] W.Benjamin, op.cit., 16.

[82] Peraltro con problemi delicati e complessi: ad esempio, sul tema dei presupposti (i “casi straordinari di necessità ed urgenza”) sia permesso il rinvio a F.Rimoli, Presupposti oggettivi del decreto legge, sindacato di costituzionalità e trasformazioni della forma di governo, in Par condicio e Costituzione, a cura di F.Modugno, Giuffrè, Milano, 1997, 231 ss. .

[83] L’uso ripetuto di questo termine, in realtà, adombra un’ipotesi ancora interamente da esplorare, ossia l’applicabilità della teoria delle catastrofi, nata in ambito matematico con le tesi di René Thom e già adottata dalla semiotica, entro il ben diverso contesto della teoria generale del diritto, con particolare riguardo alla dimensione diacronica e morfologica degli ordinamenti: non può certo essere questa la sede per un tentativo tanto ambizioso, ma si vedano comunque, entro le discipline di riferimento in materia, gli studi di J.Petitot-Cocordia, Morfogenesi del senso: per uno schematismo della cultura, ed.it. a cura di G.Bonerba e M.P.Pozzato, Bompiani, Milano, 1990; T.M.Tonietti, Catastrofi: il preludio alla complessità, Dedalo, Bari, 2002; e soprattutto R.Thom, Modelli matematici della morfogenesi (II ed. 1980), tr.it. Einaudi, Torino, 1985; Id., Morfologia del semiotico (raccolta di saggi 1970-90), Meltemi, Milano, 2006.

[84] Basti pensare alla riflessione che, nella dottrina giuridica italiana, si è svolta sul possibile uso del decreto legge come strumento di sospensione di garanzie costituzionali in caso di emergenza: sul punto già  C.Esposito, voce Decreto legge (1962), ora in  Id., Diritto costituzionale vivente. Capo dello Stato ed altri saggi, a cura di D.Nocilla, Giuffrè, Milano, 1992, 183 ss., ma spec. 274 ss.; una ricognizione recente delle tesi in merito in G.Marazzita, op.cit., 323 ss..        

[85] Sull’effettività, tra molti, P. Piovani, Il significato del principio di effettività, Giuffrè, Milano, 1953; Id,, voce Effettività (principio di), in Enciclopedia del diritto, XIV, Giuffrè, Milano, 1965, 420 ss.; R.Meneghelli, Il problema dell’effettività nella teoria della validità giuridica, Cedam, Padova, 1964; G.Gavazzi, voce Effettività (principio di), in Enciclopedia giuridica, Ist.Enc.it.-G.Treccani, Roma 1988.

[86] Sul tema, tra molti, I.Kershaw¸ Hitler e l’enigma del consenso (II ed., 2001), tr.it. Laterza, Roma-Bari, 2006; D.J.Goldhagen, I volonterosi carnefici di Hitler. I tedeschi comuni e l’Olocausto (1996), tr.it. Mondadori, Milano, 1998 (studio che non poche polemiche ha suscitato); W.Reich, Psicologia di massa del fascismo (1933, III ed. 1969), tr.it. Einaudi, Torino, 2002. Sull’ambiguo rapporto tra potere e discorso, M.Foucault, Dialogo sul potere (1975), in Id., Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su potere ed etica 1975-1984 (1994), tr.it. a cura di O.Marzocca, Medusa, Milano, 41 ss. : “il potere non è al di fuori del discorso. Il potere non è né fonte né origine del discorso. Il potere è qualcosa che opera attraverso il discorso, poiché il discorso è esso stesso un elemento di un dispositivo strategico di relazioni di potere” (ivi,43).

[87] Sull’ormai corrente uso del concetto di biopolitica, adombrato da Foucault, e sulle sue molteplici interpretazioni, R.Esposito, Bíos, cit., 3 ss.

(30 aprile 2007)


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