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Home :: Dibattiti :: Potere giudiziario Magistratura e potere politicodi Silvio Gambino Affrontare in termini essenziali i temi segnalati nel titolo, evidentemente, impone una necessaria semplificazione delle questioni (teoriche e pratiche) che ne sono implicate. Tanto richiamato, si ritiene, comunque, di qualche utilità proporre al lettore una serie di riflessioni su tematiche di stretta attualità che impongono di richiamare temi e nozioni elementari, che costituiscono la base del 'discorso' costituzionale. Innanzitutto, la questione dell'autonomia dell'ordine giurisdizionale ('potere passivo'), fondamento dello Stato di diritto liberal-democratico.
Il tema della separazione dei poteri ed, al suo interno, quello dell'autonomia e dell'indipendenza della Magistratura da ogni altro potere trova disciplina costituzionale, come è noto, nel Tit. IV della Costituzione e soprattutto nell'art. 104 Cost. Della centralità di tale separazione fra poteri e della corrispondente autonomia e indipendenza della Magistratura si è nutrito il dibattito costituente originario in Francia (a partire da Montesquieu) e negli altri paesi europei, che a tale modello hanno ispirato l'ordinamento costituzionale dei loro poteri. A tale centralità, che costituisce un'idea fondativa dello stesso costituzionalismo liberal-democratico, hanno unanimemente attinto i costituenti europei e quello italiano soprattutto nelle costituzioni del secondo dopo-guerra. Lo Statuto albertino del Regno d'Italia riconosceva solo limitate garanzie di autonomia alla magistratura che, in sede di attuazione, restringeva ulteriormente, in quanto quest'ultima era strutturata gerarchicamente, riconoscendosi al Ministro Guardasigilli il potere di emanare provvedimenti disciplinari a carico dei giudici, e determinando in tal modo interferenze sull'autonomia e l'indipendenza dei singoli magistrati. L'inamovibilità, poi, comunque operante dopo tre anni di esercizio, era intesa dallo Statuto solo in riferimento alle funzioni svolte e non alla sede, dalla quale quindi i giudici potevano essere liberamente trasferiti. In tale quadro costituzionale, infine, il pubblico ministero costituiva il rappresentante dell'Esecutivo, sotto la direzione gerarchica del Ministro. La vigente Costituzione, come si ricorderà, ha conosciuto - sotto il profilo in esame - contrasti e ritardi di implementazione del modello. Soprattutto nel primo decennio (anni '50), nell'ordinamento giudiziario non hanno trovato piena attuazione i princìpi costituzionali appena richiamati, lasciando persistenze della subordinazione e della gerarchizzazione interna all'ordine giudiziario. Il quadro che ne è risultato, per come desumibile dalla lettura della stessa giurisprudenza prodotta in quegli anni, conferiva pertanto alla magistratura un evidente segno conservatore, quando non apertamente reazionario (la ricostruzione storica ha inquadrato tale questione come fenomeno del c.d. 'conformismo' dei giudici). Un quadro costituzionale - quello appena tratteggiato - che per molti profili evoca singole proposte di riforma dell'attuale esecutivo, su cui torneremo in seguito, sia pure essenzialmente. 2. Attualità del problema ed esigenze di riforma legislativa Se questo è il contorno storico-costituzionale che fa da cornice alla discussione pubblica in atto nel Paese, una serie di atti e fatti politici ne hanno reso stringente l'attualità. Si devono ricordare, fra i molti fatti di rilievo, almeno: la soppressione (o in alcuni casi, la riduzione al minimo) delle scorte assegnate ai magistrati più esposti nelle loro attività processuali, una recente dura mozione approvata dal Senato in occasione della richiesta di dimissioni del Sottosegretario alla Giustizia Taormina (4/12/2001), la recente legislazione in materia di rogatorie e di falso in bilancio, i "23 punti" dell'ing. Castelli, Ministro Guardasigilli, contenenti la strategia riformatrice del governo in materia di magistratura e di ordinamento giurisdizionale, le recenti dichiarazioni/esternazioni del Procuratore della Repubblica Borrelli in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario le connesse azioni legali e disciplinari promosse dal Ministro degli interni nei suoi confronti. Tali fatti costituiscono alcuni soltanto dei termini fondamentali di uno scontro ideale, ma soprattutto politico, fra idee, comportamenti e strategie diverse e contrapposte sui rapporti esistenti fra giudici e politica e su come questi stessi debbano o possano essere modificati, in un'ottica garantista, all'interno di uno Stato che tutti gli attori del dibattito dichiarano di volere democratico e di diritto. Più adeguatamente, tuttavia, a noi pare che tali fatti possono inquadrarsi come un evidente azione di pressione (eccessiva?!) sulla magistratura da parte dell'attuale maggioranza parlamentare e del Governo. Avvisagli o prodromi di una simile azione di pressione erano osservabili, d'altra parte, nei lavori della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta dall'on. D'Alema. Una Commissione - quest'ultima - che, per esprimere compiutamente il nostro punto di vista, conteneva, in materia di giustizia, tutte (e nessuna di meno) le ambiguità di un accordo (fra Ulivo e Polo delle libertà) che, non realizzato accortamente in quell'occasione da parte del Polo, è stato riattualizzato dall'attuale maggioranza come leit motiv di una riforma necessaria dell'intero sistema giudiziario. I fatti politici appena evocati, comunque, hanno assunto un rilievo inedito e preoccupante, che risulta ingigantito dall'attuale assetto di "democrazia maggioritaria" (privo di checks and balances), in un contesto politico e giuridico nel quale non risulta ancora risolto il "conflitto di interessi", nonché dalla proprietà e dalla politica dei mezzi di comunicazione di massa, resa evidente a seguito della recente nomina del nuovo consiglio di amministrazione della RAI. I termini della discussione, come si vede, sono politici e tecnici. E' da chiedersi, in tal senso, se un atteggiamento neutrale da parte dello studioso costituisca, oggi, l'atteggiamento scientificamente (ma anche eticamente) più corretto. Per una risposta corretta a noi pare necessario operrare una distinzione tra le problematiche poste dall'attualità e quelle poste dalle prospettive di riforma. In tal senso, dunque, un atteggiamento culturale che sostenesse, nella temperie dell'attuale dibattito politico, le sole ragioni della 'moderazione dei toni' o, come ha recentemente fatto Panebianco sul Corriere della sera (19/1/02), quello di "neutralizzare gli incendiari", potrebbe risultare una sorta di nicodemismo di fronte alle politiche governative in corso. Tale orientamento rispetto al problema in discussione, ovviamente, non deve e non può sottacere la complessità di una questione che ha di certo manifestazioni di 'scontro' politico, ma che, nel fondo, sottende un problema reale, relativo alle crescenti aspettative da parte dei corpi sociali e dei cittadini nei confronti del 'sistema giustizia'. A fronte di tali aspettative si deve, da parte della cultura costituzionalista, ripensare un'idea di giustizia che non sia attenta alle sole tematiche dell'efficacia giuridica della norma ma che tenga in pari considerazione anche quelle della sua effettività. Sotto tale profilo, si evidenzia (ormai anche nell'analisi delle politiche pubbliche in materia di giustizia) la necessità di prendere atto della crescente inadeguatezza, nell'ottica delle problematiche poste dalla post-modernità, di una concezione del diritto meramente formale (gius-positivistica), imponendosi una ricerca (teorica e politica ma soprattutto di attuazione legislativa) che, da tale originario approccio, muova (con adeguate politiche di riforma) verso una concezione 'funzionale' del diritto; una concezione - quest'ultima - che sappia ricomprendere, accanto alla prescrittività propria della norma giuridica, le esigenze di implementazione ed, al contempo, la loro concreta idoneità ad essere interpretate in un'ottica di garanzia dei risultati raggiunti. In altri termini, al di là dello scontro politico in atto, deve parimenti mettersi in campo una riflessione teorica e politica. La questione centrale in tale direzione e quella di un mutamento di prospettiva delle riforme giuridico-legislative nel campo della giustizia. Solo accedendo a questa diversa metodologia di analisi e di progettazione, la cultura giuridica del Paese potrà farsi carico di alcune delle stesse ragioni alla base del confrontro/scontro di opinioni in atto. D'altra parte, la riflessione scientifica sembra ormai aver colto l'esigenza di una "scoperta del sommerso", che (come ci ricorda, da ultimo, Romano Bettini in una lucida riflessione sulla "Sociologia della giustizia e neorealismo giuridico") è un aspetto caratterizzante la "modernizzazione imperfetta" del Paese; rispetto a quest'ultima, sarebbe da sostenersi l'esigenza di una valorizzazione politico-legislativa della c.d. norma terziaria, da intendersi come "categoria integrativa rispetto alle classiche categorie giuridiche norma/sanzione". Il superamento della classica (kelseniana) coppia analitica norma/sanzione dischiude il campo, così, a nuove coppie analitiche (norma/supporto organizzativo-amministrativo), che si rivelano una conditio sine qua non della stessa effettività e quindi dell'efficacia del diritto, superandosi, in tal senso, l'approccio formale classico (kelseniano) dell'esistenza della norma come bastevole, in sé e per sé, a garantire la sua efficacia giuridica e la sua stessa adeguatezza regolativa. La riflessione appena avviata rinvia, dunque, all'esigenza di superare una certa costruzione ordinamentale del 'sistema giustizia' in Italia, deliberatamente costruito sullo schema dell'autoreferenzialità gius-positivista. Tale schema, come sappiamo, è stato, nella fase dell'attuazione costituzionale, (ed è tuttora) inteso ad assicurare l'autonomia, l'indipendenza e la stessa terzietà del giudice rispetto alle parti processuali nell'ottica del controllo di legalità. Appaiono necessarie, in tal senso, politiche di razionalizzazione del procedimento legislativo (in qualche modo omologhe a quanto già realizzato per il procedimento amministrativo) e delle relative politiche della giustizia. Queste devono includere, nei nuovi profili organizzativi, moduli di partecipazione più spinti degli interessati e dei controiteressati all'amministrazione della giustizia, nonché forme di ricorso all'acquisizione di pareri e di relazioni tecniche da parte di esperti e di uffici competenti, nonché - e soprattutto - un sistema permanente di monitoraggio che si faccia carico di analizzare dinamicamente lo stato e la capacità di carico degli apparati giudiziari e delle relative difficoltà incontrate nei loro adempimenti di legge, non trascurando, infine, le esigenze di semplificazione normativa ed in particolare la cd 'riserva di codice' (rilevante soprattutto in materia penale). Ciò vale in generale per la razionalizzazione del procedimento legislativo, ma a fortiori vale per quello giudiziario. In quest'ultimo, il problema del prodotto del "sistema giustizia" non può ulteriormente essere affidato allo "spirito di corpo" e alle regole autonome che lo reggono. Queste, infatti, possono finire per trascurare ciò che non può trascurarsi in un'ottica funzionale del diritto. In altri termini, non può trascurarsi l'esigenza, costituzionalmente avvertita, che l'ordinamento giurisdizionale è previsto per assicurare giustizia in tempi certi e con adeguatezza rispetto alla complessità propria delle norme in una società 'aperta'. E' in tale direzione, ma solo per fare un esempio, che pare utile accogliere la proposta di recente avanzata dal prof. Mario Dogliani di introdurre giurie popolari per i reati di corruzione e simili nonché per i più odiosi reati contro la pubblica amministrazione, ma più in generale per quelli ad 'alta emergenza sociale'. 3. Magistratura e potere politico: un conflitto su princìpi Tanto premesso in via generale, i punti su cui focalizzare (in breve) l'attenzione riguardano due distinti profili. Il primo è di ordine generale ed attiene alla giurisdizione; il secondo riguarda il tema dello specifico conflitto di interessi nei procedimenti giudiziari in corso e dei relativi rapporti con le tematiche dell'autonomia giudiziaria, accusata di 'giacobinismo' da parte di esponenti autorevoli della maggioranza governativa. Nel parlarne, si vuole sottolineare una questione che è essa stessa centrale ed il cui riscontro sociologico deve fare riflettere. Una recentissima ricerca curata da Ilvo Diamanti (per conto di La Repubblica) evidenzia, infatti, come, sul tema del conflitto magistratura-politica, una buona parte della popolazione e più del 70% del mondo giovanile si dichiarano disinteressati o comunque non a conoscenza dei termini di fondo dello scontro in atto nel Paese. Un primo problema, dunque, è quello di rendere chiari i termini della questione. Fra questi risulta centrale la natura burocratica, di corpo professionale, della magistratura, i cui servizi non sempre si apprezzano per l'adeguatezza del 'servizio giustizia' rispetto alla concretezza ed all'attualità dei conflitti in essere nella società. A questo stesso tema si ricollega, ma con termini più complessi e forse percepibili solo dagli esperti della materia, il problema dell'adeguatezza del 'sistema giustizia' rispetto alle aspettative di risoluzione dei conflitti che non attinga, nella risoluzione delle controversie, alle sole regole legislative ma che a queste sappia integrare adeguatamente - come è tenuta in uno Stato costituzionale - i contenuti propri derivanti dai princìpi e dalle regole costituzionali. In una prima riflessione sul tema dell'attività giurisdizionale, che è il primo dei due punti in precedenza identificati, i veri e propri "postulati" che a noi sembrano centrali da ricordare come punti fermi della discussione sono così riassumibili: 1) non si dà attività giurisdizionale senza interpretazione delle norme giuridiche; 2) non si dà interpretazione, soprattutto se parliamo di interpretazione diversa da quella strettamente letterale, che non sia, tecnicamente, creazione di norma giuridica (si veda la recente sentenza della Corte costituzionale in materia, per come richiamata dal Presidente Ruperto); 3) non è ammessa interpretazione analogica delle norme penali; 4) gli ordinamenti moderni e contemporanei, sia a diritto scritto (civil law) che a diritto consuetudinario (common law), hanno fatto e fanno sistematico ricorso alla funzione creatrice della giurisdizione. Le corti di cassazione sono chiamate, in tal senso, a risolvere ogni possibile asimmetria interpretativa da parte dei giudici, garantendo, in tal modo, il principio della certezza del diritto. Dove risiede, dunque, l'anomalia italiana in tema di giurisdizione e di attività giurisdizionale di cui stiamo discutendo nel Paese? La risposta ci sembra individuabile soprattutto nella mancata sottolineatura da parte di una componente rilevante della opinione pubbliche e delle forze politiche e culturali degli elementi oggettivi di crisi del "sistema giustizia", che per il cittadino significa soprattutto lentezza nei processi, abuso della carcerazione preventiva, incertezza della pena, ed anche diseguaglianza dei cittadini rispetto alla legge. Il dibattito-scontro, al contrario, si è polarizzato nel tempo sui poteri e sull''abuso di potere' da parte dei giudici penali nel campo dei reati economici e finanziari, polarizzandosi, più che sulle tematiche dell'efficienza del 'sistema giustizia' nel suo complesso, sulle garanzie proprie da apprestare a particolari fattispecie penali (reati economici e reati contro la pubblica amministrazione) che riguardano più da vicino una più limitata platea di soggetti, quella dei c.d. 'colletti bianchi'. Il tema, così posto, rinvia ad una tema strettamente connesso, che è quello della piena legittimità tecnica dei mezzi processuali a disposizione dei soggetti indagati, rispetto al quale, nell'ottica della realizzazione di un garantismo efficace ed efficiente, deve riconoscersi piena centralità alla difesa e più in generale ad un ruolo protagonista dell'avvocatura. Tuttavia, per come è stato posto, il dibattito è divenuto, volens nolens, confronto-scontro fra magistratura e politica. Se questo, dunque, è il problema, la questione non è di poco conto in quanto coinvolge princìpi basilari dello Stato costituzionale (democratico, pluralista e di diritto). Il vecchio, storico, tema della separazione fra poteri, fondativo del costituzionalismo moderno, torna a porsi in tutta la sua pregnanza, accentuato com'è dalle tendenze maggioritarie in atto nel sistema politico e dalle caratteristiche proprie della società contemporanea quale società mass-mediatica. Gli eventi in corso, con la recente, richiamata, mozione del Senato in occasione del 'caso Taormina' e le posizioni di un fronte interno alla maggioranza del Governo, per come espresse nelle dichiarazioni del Guardasigilli, impongono alla dottrina, e soprattutto a quella costituzionalistica, di ribadire le semplici, richiamate, verità, che alcuni "effettivamente non sanno" ma altri - temiamo - fingono di non sapere. Dunque, come l'apertura dell'anno giudiziario in tutta Italia ha evidenziato, siamo in presenza di un evidente conflitto fra poteri costituzionali che impone equilibrio, ragionevolezza e consapevolezza dei problemi in campo, nel rispetto dei princìpi fondativi delle moderne democrazie liberal-democratiche. Ciò detto, tuttavia, è necessario ricordare come il problema, ora acuitosi, non esaurisce il tema in discussione; al contrario, rischia di nascondere, nel fondo, un 'conservatorismo diffuso' dei giudici italiani nel loro complesso, che è talora esplicito talora solo malcelato. Tale conservatorismo, storico e tuttora insuperato, consiste, sostanzialmente, come si è detto in precedenza, in un approccio meramente gius-positivista del giudice, che spesso omette di considerare che dell'ordinamento giuridico fa parte organica la Costituzione. Questa (con le sue disposizioni e i suoi principi fondamentali) è da considerarsi come norma giuridica da farsi valere quale diritto legislativo in senso stretto, e da interpretarsi magis ut valeat, non trascurandosi, come sappiamo, la sua supremazia sulla legge. In altri termini, si vuole dire che, nelle varie articolazioni dell'ordinamento giudiziario, è raro cogliere la disponibilità del giudice a far valere quella necessaria interpretazione adeguatrice, "mite", del diritto, che, come ci ha ricordato magistralmente Gustavo Zagrebelsky, significa interpretare le norme non limitandosi alle sole disposizioni legislative e codicistiche ma tenendo anche conto dei princìpi fondamentali della Costituzione ("diritto per regole vs diritto per princìpi"). Una simile lettura ed interpretazione dell'ordinamento potrebbe risolvere fin da subito tutta una serie di questioni interpretative che insorgono nella dialettica fra le parti processuali (come farebbe il giudice americano o britannico), rimanendo confermato, comunque, che molto più di un dubbio dovrebbe insorgere nel giudice del singolo processo per portarlo ad attivare, con adeguata intensità (non sempre osservabile), il giudice costituzionale. Un simile, necessario, protagonismo giurisprudenziale, peraltro, avrebbe, il non piccolo vantaggio di offrire un'idea di 'Costituzione vivente' attenta alle garanzie ed ai diritti, dei cittadini e per i cittadini. 4. Monismo costituzionale e conflitto di interessi Passiamo ora, e sempre per estrema sintesi, alle questioni evocate nel secondo punto della riflessione. Il tema è quello del 'conflitto di interessi' e delle accuse di 'giacobinismo' nei confronti di una parte della magistratura da parte della maggioranza di governo. In ultima istanza, il tema che deve essere analizzato è quello delle garanzie per i cittadini e delle sorti del principio di eguaglianza di fronte alla legge. Le tesi sostenute ripetutamente dal Presidente del Consiglio (anche in sedi estere) riguardano una magistratura che si dimostrerebbe, nei fatti, "giacobina" nei suoi comportamenti e nelle sue 'esternazioni'; in quest'ottica, dunque, più prossima al 'terrore' che alla garanzia delle libertà. La tesi a noi pare, tecnicamente, rovesciabile, nel senso che 'giacobina', invero, può qualificarsi la posizione di un potere dello Stato (nella fattispecie quello dell'Esecutivo) che presume la superiorità rispetto agli altri poteri (in virtù di un mandato popolare elettivo caratterizzato dall'assolutezza del principio rappresentativo e dalla conseguente sovranità della maggioranza), a cui si accompagna una sorta di rivendicazione dello status di intangibilità (se non perfino di impunibilità). Non a caso si invoca, più di recente, la stessa revisione dell'art. 68 Cost. A noi pare, a ben vedere, che il Presidente del Consiglio, nelle sedi processuali ed extra-processuali, non difende la propria innocenza quanto piuttosto la stessa possibilità di essere indagato. E ciò lo fa con una sorta di azione preventiva di discredito e di delegittimazione della magistratura ("un disegno a tenaglia" come dice Mario Dogliani), nel quale, 'giacobinamente', attacca i magistrati per due fondamentali ordini di motivi: 1) perché essi indagherebbero solo su alcuni e non su tutti i reati, 2) perché i giudici interpretano la legge, non limitandosi alla sua mera esecuzione (si veda sul punto lo scontro in atto sulle rogatorie), 3) perché il 'contesto ambientale' esercita pressioni indebite sulla corte giudicante. Anche in questa occasione, è evidente come rilevi un "reale" conflitto di interessi, trattandosi di magistrati requirenti che stanno - come non potrebbero non fare - esercitando la propria azione, adempiendo in ciò all'obbligo costituzionale dell'azione penale. A noi pare, al contrario, che le intenzioni non recondite dell'attuale maggioranza siano quelle di riprendere il 'gioco interrotto', in occasione della Commissione bicamerale (come argomento tecnico di rottura) e nell'occasione delle recenti campagne elettorali. In verità, sarebbe anche da sottolineare che, nell'ultima campagna elettorale, altre (e non la magistratura) sembravano le priorità (deregulation e riduzione del carico fiscale) e su queste essa ha ricevuto legittimazione democratica unitamente al suo leader. Tali dati di riflessione sono stati da alcuni (S. Rodotà in Questione giustizia) inquadrati come un vero e proprio "regolamento di conti" della classe politica di maggioranza contro la magistratura. Pare poco elegante dirlo in questi termini, ma la realtà del confronto-scontro politico-istituzionale in atto non consente, neanche alla cultura costituzionalistica, eleganze o eufemismi, né di sfuggire ai termini effettivi delle questioni sul tappeto. Se tuttavia non si vogliono subire le conseguenze di un simile inquadramento 'giacobino' dei poteri costituzionali, la riflessione da farsi si sposta sulle strategie politico-costituzionali e sugli attori delle stesse. Il tema, come si vede, chiama esplicitamente in gioco le idee, le analisi e le proposte che la maggioranza parlamentare e l'opposizione hanno da mettere in campo per affrontare con efficacia le problematiche in campo, sfuggendo, se possibile, agli orientamenti populisti e 'giacobini' espressi nelle dichiarazioni di una parte della maggioranza di governo. In realtà, anche il centro-sinistra non appare esente da responsabilità politiche ma anche culturali, poiché molte delle ambiguità dell'attuale dibattito derivano dalle debolezze e dalle ambiguità del dialogo avviato nel corso della Commissione bicamerale (che naufragò sul tema della Giustizia non per eccesso ma per difetto di concessioni fatte alle richieste dell'allora Polo delle libertà) nonché dalle ambiguità delle soluzioni previste per la risoluzione del conflitto di interessi (la legge si ricordi fu approvata da uno dei due remi del Parlamento). L'attuale Presidente del Consiglio, infatti, era entrato nei lavori della Commissione bicamerale con le stesse priorità che tuttora rivendica; per riepilogare al massimo: fine dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.); indirizzo e controllo dell'esecutivo sulla pubblica accusa; separazione delle carriere fra giudici e pubblici ministeri (art. 104 Cost.); ridefinizione delle modalità di azione, nuove forme di elezione e modifica delle competenze del Consiglio superiore della magistratura (art. 104 e 105 Cost.) e, soprattutto, sottrazione della disponibilità della polizia giudiziaria all'autorità giudiziaria (art. 109 Cost.) e gerarchizzazione delle carriere. Tutti ed ognuna di queste sei priorità (ossessive?) sono riprese nei "23 punti" del programma dell'attuale Guardasigilli. Sarebbe utile riprendere ognuno di questi punti per ripensarli alla luce dei princìpi costituzionali, ma evidentemente in questa sede sarebbe eccessivo. Tranne che per un particolare profilo, osservabile nella stesso utilizzo strumentale dell'Unione Europea da parte del Presidente del Consiglio, in occasione delle eccentriche dichiarazioni del Ministro Bossi (forcolandia, Europa fascista e comunista, ed altre amenità dello stesso tenore). L'accordo finale con l'Unione europea, in occasione della dibattuta questione sul "mandato di cattura europeo", assume, infatti, che un 'pacchetto' di riforme "dovrà essere approvato" affinché l'Italia possa dare attuazione alle disposizioni comunitarie sul mandato di cattura e che tale attuazione è 'subordinata' allo adeguamento/avvicinamento del sistema giudiziario ai modelli europei. Con questo accordo, dunque, si coglie l'occasione della 'tempesta europea' per riportare nell'agenda politica, con carattere di urgenza, le riforme costituzionali prima richiamate che non si era riusciti ad ottenere in sede di Bicamerale. Ma nel confronto fra i diversi sistemi processuali penali (quello francese in primis), il dilemma che si deve preliminarmente affrontare e risolvere si invera nell'alternativa che di seguito esporremo. In relazione ai diversi ordinamento nazionali, ci si deve chiedere, in altri termini, se sia più opportuno che l'ordinamento giudiziario italiano si conformi a quello europeo o non sia piuttosto opportuno il contrario. Come è possibile negare l'opportunità, in attuazione del terzo pilastro comunitario, che gli altri ordinamenti europei si avvicinino al nostro in quanto più garantista in materia di processo e di libertà? Non si può assumere che, nell'ottica della 'tradizioni costituzionali comuni', quella italiana costituisce una esperienza costituzionale meritevole di maggiore considerazione comunitaria da parte della stessa Corte di Giustizia delle Comunità Europee? Senza voler ancora una volta richiamare le analisi del Montesquieu, deve continuare a sottolinearsi, evidentemente, come, nella logica propria delle moderne costituzioni liberal-democratiche, il principio della separazione dei poteri risponda appunto al principio di separazione ed al connesso, centrale, principio secondo cui, in questa ottica, "le pouvoir contrôle le pouvoir". A meno di non voler scrivere una pagina di costituzionalismo 'conservatore' che faccia arretrare l'ordinamento italiano di due secoli sulla strada delle garanzie e delle libertà, altre appaiono le riforme necessarie (e non necessariamente a livello costituzionale) in materia di giustizia. La dottrina costituzionale deve sottolineare questa esigenza a tutela anche del 'valore' della Costituzione. Fra le riforme necessarie, uno spazio centrale è occupato dalle più volte ed autorevolmente richiamate esigenze di rivedere, quanto alla materia penale, il codice in una direzione di semplificazione delle ipotesi di reato (diritto penale minimo) e di ridefinizione delle stesse fattispecie penali, che costituiscono l'unico corretto strumento per assegnare al Parlamento il ruolo di "expression de la volonté générale" ed al giudice quello di strumento neutro, terzo, a garanzia dell'oggettività dell'ordinamento e delle libertà. Il tema centrale, dunque, non è quello di 'rompere' il principio della separazione dei poteri e quello connesso del controllo di legalità, posponendolo o subordinandolo al principio della legittimazione democratica. L'intento del Governo, in più punti ed occasioni, può apparire orientato alla 'riscrittura' ('scardinamento'?) della complessa e complessiva architettura costituzionale vigente, per la quale la divisione dei poteri non è una "spartizione corporativa" con i giudici costituiti in casta ma è finalizzata a strutturare armonicamente un necessario intreccio fra Stato democratico e Stato costituzionale delle garanzie, in una parola fra principio di legittimità e principio di legalità. 5. Conclusioni Per ritornare alle magistrali analisi di Zagrebelsky (Il diritto mite. Legge, diritti, giustizia, Torino, 1992, pg. 213), e per concludere sul tema delle invadenze reciproche fra giustizia e politica, oggi particolarmente approfondite nei loro versanti propriamente penali, rimangono centrali quelle affermazioni conclusive secondo cui "Tra Stato costituzionale e qualunque 'padrone del diritto' c'è una radicale incompatibilità. Il diritto non è oggetto in proprietà di uno ma deve essere oggetto delle cure di tanti e, come non ci sono 'padroni', così simmetricamente non ci sono 'servi' del diritto". In conclusione, il tema centrale, nell'ottica della cultura della legalità e delle istituzioni di garanzia per il cittadino, è costituito dall'esigenza di avviare un'analisi ed una progettazione legislativa concreta che si proponga di riformare il 'sistema giustizia' nei suoi gangli amministrativi e processuali, superando in tal modo, quella "modernizzazione imperfetta", che anche in questo campo caratterizza il sistema italiano. Fino ad ora, storicamente, il legislatore italiano è apparso entusiasta nella proposta (declamatoria) di nuovi princìpi, fini e valori, ma poco o per nulla attento alle politiche implementative, agli assetti organizzativi e gestionali, cioè ai mezzi e agli strumenti per realizzare efficacemente tali finalità. Il cittadino, per concludere, a noi pare interessato a questi ultimi e comprende meno le ragioni astratte della teorica costituzionale della separazione dei poteri. Più facilmente potrebbe comprendere, e di fatto comprende, le lesioni del principio di uguaglianza di fronte alla legge (ma anche nella legge). Spetta, dunque, alla politica ed alla cultura rendere quanto più possibili chiare e comprensibili le ragioni ideali ed i diversi 'vantaggi' per le libertà dei cittadini delle diverse idee di giustizia che sono in discussione nel Paese.
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