di Sandro Staiano
Una definizione stipulativa preliminare è forse opportuna (poiché la locuzione è stata adoperata in altro, molto più ampio, senso, per designare alcune conseguenze della crisi attuale del costituzionalismo e l’offuscamento delle categorie che ne costituiscono l’impalcatura teorica): il revisionismo costituzionale di cui si parla qui, da un angolo visuale più limitato e con minori ambizioni teoriche, è un orientamento culturale e una prassi politica di interventi (proposti, tentati, compiuti) sul testo della Costituzione rivolti a interrompere o deviare i processi di attuazione costituzionale, processi che sarebbero destinati a svolgersi, secondo le premesse che la Costituzione stessa pone, sotto l’impulso delle leggi ordinarie, delle giurisprudenze, delle convenzioni, dell’integrazione multilivello.
Nel revisionismo v’è un’ambiguità ideologica: esso si autogiustifica, da una parte, sulla base di una critica, talvolta radicale, alle soluzioni, specie organizzative, apprestate dai costituenti, ascrivendo a esse un imperfetto rendimento o persino il fallimento degli obiettivi, per storture di origine genetica, da raddrizzare; dall’altra, con la dichiarata intenzione di salvaguardare la “bellezza” della Costituzione italiana al cospetto delle ingiurie del tempo, che ne evidenziano i vizi strutturali. La «Costituzione bella», «la più bella di tutte», è tòpos retorico di impiego generalizzato nel dibattito politico che si svolge sulle questioni costituzionali. Ma alle «bellezze individue» – le singole disposizioni che stabiliscono, in termini assai lati, i grandi princìpi informatori del patto costituzionale – da tenere sotto regime vincolistico o da sottoporre a restauro conservativo, si oppone la «bellezza di insieme», che invece, per essere salvaguardata, imporrebbe significativi interventi demolitori e ricostruttivi. Insomma: ammirazione dichiarata per la Costituzione e per chi storicamente la conformò, e professione di volerne testimoniare i valori, ma orientamento a disarticolarne per larghe parti l’impianto.
Quest’ambiguità consente al revisionismo di ignorare i confini tra gli schieramenti partitici (peraltro labili, mobili, ideologicamente porosi) e latamente politici. Da tempo i revisionisti non siedono tutti da una parte negli emicicli della rappresentanza politica, né nelle Università e nelle altre sedi dell’elaborazione scientifica in cui ci si distingue sulla base di linee di demarcazione disegnate secondo “sensibilità” assiologiche e culturali: il revisionismo si consolida in attitudine trasversale (a fare la ricognizione delle iniziative di revisione costituzionale, parlamentare o popolare, ci si imbatte ovviamente anche in proposte “dimostrative”, ideologicamente assai connotate, frutto di pulsioni identitarie: ma esse sono fuori della grande corrente del revisionismo, essendo piuttosto rivoli secondari di essa, destinati a inaridirsi).
E la trasversalità deriva dalla circostanza che il revisionismo è il frutto maturo del dibattito sulla Costituzione, in cui si mostra la faccia teorica e la traduzione in prassi politico-parlamentare della lotta per la Costituzione, che è permanente, essendo irriducibile il conflitto sui valori che essa afferma e la cui attuazione non può non conoscere espansioni e riflussi.
Non v’è certamente revisionismo nella prima fase della vicenda repubblicana, di glaciazione costituzionale, poiché a quel tempo i nemici dichiarati della Costituzione, gli aventi causa dai sessantadue che hanno dato voto contrario in Assemblea costituente il 22 dicembre del 1947, o da gran parte di essi, possono nutrire sentimenti revanscisti, non certo velleità di modificazioni in forme legali di un testo nel quale non si riconoscono; e gli altri, i tiepidi, contano piuttosto nel più esteso perdurare della «glaciazione» costituzionale. E non v’è revisionismo, più avanti, giunto il «disgelo», in un processo attuativo rallentato dalla vischiosa resistenza degli apparati statali e dal conservatorismo dei controllori della legalità costituzionale.
Il revisionismo, nel suo assetto attuale, si afferma invece quando si para innanzi ai decisori politici, partiti e loro proiezioni parlamentari, la difficoltà di governare forti dinamiche economiche e sociali e, in ultima istanza, ordinamentali, e di assorbire e orientare i vettori di forza provenienti dai livelli sovranazionali e internazionali: difficoltà che induce trasformazioni dello stesso sistema dei partiti, i quali debbono fare i conti con l’allentamento della propria presa sui blocchi sociali di riferimento, che si frammentano e si dislocano in nuove composizioni e in nuove forme; e che essi proiettano sulle istituzioni, cercando nella “riforma” di queste la chiave per riappropriarsi del ruolo di intermediazione responsiva della rappresentanza.
Questo tipo di revisionismo si mostra in modo compiuto nello scenario della grande crisi di sistema apertasi, dopo i fatti del 1989 sul versante dei rapporti internazionali, a partire dalle leggi costituzionali n. 1 del 1993 e n. 1 del 1997, che prevedono procedimenti di revisione costituzionale semplificati, in deroga all’art. 138 Cost., con l’obiettivo di riformulare l’intera Parte Seconda della Costituzione. Quando quella crisi sfocia infine in un riassetto permanentemente instabile del sistema partitico, nel quale dominano per maggiore capacità competitiva partiti di forma nuova, personali e largamente ispirati a mentalità populista, di nuovo il revisionismo si manifesta in un tentativo di modifica organica della Parte Seconda della Costituzione, impedita dall’esito negativo del referendum del 4 dicembre 2016.
E un’altra vicenda di segno analogo sembra aprirsi adesso (benché non siano disegnati nitidamente i confini del diverso assetto che si vorrebbe istituire).
Comune è l’approccio revisionista, diversi i versanti sui quali esso si manifesta.
Sul versante della forma di governo.
Il modello di parlamentarismo accolto dalla Costituzione con gli artt. 92 ss. è formulato come una fattispecie aperta, «a formazione progressiva»: la definizione compiuta degli elementi strutturali della forma di governo e del suo funzionamento sono affidati a determinazioni ulteriori (intese ad apprestare «dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di governo e a evitare le degenerazioni del parlamentarismo»: l’ordine del giorno presentato da Tomaso Perassi e approvato il 4 settembre 1946 dalla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione è assai di frequente richiamato, ma di rado ne viene colta la sostanza di pactum de modo stipulato tra i partiti alla Costituente per guidare la messa in opera della forma di governo).
Dunque, i partiti sono i formanti soggettivi della forma di governo, e da essi procedono i formanti oggettivi: atti e fatti fonte, legge elettorale e convenzioni costituzionali. Il secondo formante soggettivo, che viene in luce in una fase più recente della vicenda di ristrutturazione partitica, è la Corte costituzionale, quando essa si orienta a decidere sulla legittimità delle leggi elettorali ridefinendone i contenuti.
Il revisionismo costituzionale disattende quel pactum, poiché i partiti, incapaci di definire efficacemente il formante legge elettorale e di regolare convenzionalmente in modo stabile i loro rapporti, si dispongono piuttosto a rimodellare la disciplina costituzionale. E giungono a impregnare di un singolare antiparlamentarismo autolesivo la loro azione revisionista, come è avvenuto con la legge costituzionale n. 1 del 2020, la quale, riducendo il numero dei parlamentari stabilito dall’art. 56 Cost., ha provocato, come “effetto collaterale”, la torsione maggioritaria della legge elettorale che essi non sono riusciti a riformare. Si avvitano così in un circuito perverso di produzione normativa tra difetto ed eccesso di ruolo del riformatore: difetto ove esso è atteso a intervenire razionalmente dopo almeno tre lustri di leggi elettorali altamente disfunzionali; eccesso ove, non avendo assolto a tale compito, muove alla modifica della Costituzione aggravando le irrazionalità del sistema che avrebbe avuto il dovere di rimuovere attraverso l’esercizio della sua funzione di legislatore ordinario.
Su versante del rapporto con la giurisdizione.
Il rapporto con la giurisdizione, specie con la giurisdizione penale, è uno dei punti di attrito del sistema dei partiti con le istituzioni di garanzia: la grande crisi degli anni Novanta è prodotta, in misura non lieve, dalla forza di destrutturazione delle iniziative penali. Il decisore politico è stato chiamato, e ancora è chiamato, a una legislazione ordinaria ad alta valenza riformatrice.
E, invero, interventi di rilievo sono stati compiuti, portando a esito, con il d.lgs. n. 447 del 1988, un lungo processo di riforma, con l’introduzione del rito accusatorio (sia pure nell’imperfetta corrispondenza al modello). E ora, in attuazione della legge delega n. 134 del 2021, il d.lgs. n. 150 del 2022 rivede il sistema penale sanzionatorio, modifica la disciplina del processo, introduce istituti di giustizia riparativa (l’efficacia della nuova normazione è stata procrastinata al 30 dicembre 2022 con decreto-legge n. 162 del 2022). Ancora, la legislazione di attuazione del PNRR dà corso a interventi di razionalizzazione organizzativa.
Ma il revisionismo costituzionale è intervenuto e prospetta nuovamente di intervenire deviando il sistema dalla via maestra della messa in opera della legislazione di riforma, la quale per sua natura entra in contatto con l’applicazione giurisprudenziale e si conforma in diritto vivente: come la legge costituzionale n. 2 del 1999 modificò l’art. 111, in corso di applicazione del nuovo Codice di procedura penale, per restringerne le possibilità interpretative da parte della Corte costituzionale, così ora, al cospetto di una legge ordinaria rivolta a regolare i poteri del pubblico ministero, viene profilata la revisione soppressiva dell’art. 112 Cost., per escludere l’obbligo di esercitare l’azione penale.
Sul versante del tipo di Stato.
Ancora sotto l’impulso delle trasformazioni del sistema partitico, in ispecie per l’acquisizione di peso politico da parte di una forza a vocazione secessionista, la legge costituzionale n. 3 del 2001 modifica l’intero Titolo V della Parte Seconda della Costituzione, spostando, peraltro in maniera incongrua e largamente imperfetta quanto alla tecnica normativa, il punto di equilibrio costituzionalmente stabilito tra principio di autonomia e principio di unità della Repubblica. La conseguenza maggiore, quanto ai modi della produzione normativa, è l’affidamento alla Corte costituzionale del compito di rimodellare il sistema di relazioni centro-periferia: compito eseguito con una copiosissima giurisprudenza, che segnala la perdita di ruolo del legislatore.
Sul versante dei princìpi fondamentali.
Le «bellezze individue» della Costituzione erano parse finora al riparo dal revisionismo costituzionale. Non è più così a partire dalla legge costituzionale n. 1 del 2022, che integra l’art. 9, introducendo, con il nuovo comma 3, la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, «anche nell’interesse delle future generazioni».
Ci si è interrogati sull’utilità di una simile revisione e sulla consapevolezza con la quale il legislatore l’ha deliberata: in forza di una giurisprudenza costituzionale già molto solida negli anni Ottanta del secolo scorso, il concetto di «paesaggio», cui si riferisce il secondo comma dell’art. 9 nel testo originario, è ritenuto consistere nella «forma del territorio e dell’ambiente», risultando in tal modo esteso alla tutela ambientale; e il diritto alla salute, di cui all’art. 32, è interpretato anche come diritto a un ambiente salubre. Ma, soprattutto, sembra essere fuori della consapevolezza dei revisionisti che introdurre nella Costituzione nuovi lemmi, espressivi di valori, conservando i vecchi, significa imporre nuove valutazioni di bilanciamento sia da parte del legislatore ordinario, sia (in ultima istanza e, come è facile prevedere sulla base dei precedenti, con il ruolo maggiore) da parte della Corte costituzionale. Il che si dimostra immediatamente: è di attualità la questione dell’installazione delle infrastrutture per la produzione di energie alternative a quelle tradizionali, dunque aventi come effetto ultimo la protezione ambientale, ma lesive della forma del territorio. Il bilanciamento sarebbe stato necessario anche in vigenza del testo originario dell’art. 9, ma è evidente che la revisione testuale provoca lo spostamento del punto di equilibrio.
Di questi esiti il revisionismo non ha consapevolezza. Esso è spinto da una pulsione mitopoietica: i partiti, nelle loro proiezioni parlamentari, ben percepiscono la propria deriva dal corpo sociale, e la diffusa rinuncia alla partecipazione politica con il conseguente deficit di legittimazione dei rappresentanti, e perciò sono alla ricerca di grandi temi aggregativi sui quali intervenire con decisioni fortemente simboliche e ampiamente condivise (nella specie la revisione è stata votata all’unanimità). Ma la Costituzione è un testo normativo e non un mero manifesto politico: confondere i due strumenti può comportare conseguenze perniciose (per quanto indesiderate, e proposte “con le migliori intenzioni”).
Traendo le fila, alcune questioni.
Da un ventennio a questa parte, non si esita a produrre proposte di modificazioni molto estese e idonee a toccare i capisaldi dell’ordinamento costituzionale, e a ricercare le condizioni politiche e istituzionali per metterle in atto, rendendo più pervie possibile le vie di accesso al procedimento ex art. 138 Cost. Nel tempo presente, questa tendenza si è fatta più evidente e le iniziative più pressanti, poiché i partiti hanno preso a inserire revisioni ampie nei programmi presentati nella competizione politica e poi – quelli che da questa sortiscono vittoriosi – nei programmi di governo.
Quando tali proposte – le quali obbediscono alla logica dell’antagonismo e non a quella del compromesso, come invece è nella ratio della norma costituzionale sulla revisione – si propongono obiettivi di “razionalizzazione” del sistema che invece sarebbero da conseguire attraverso la grande legislazione ordinaria (produrre la quale è mestiere non praticato nel mondo partitico), i partiti politici, nelle loro proiezioni parlamentari, deviano dalla funzione di legislatori-attuatori della Costituzione e, in ultima istanza, da quella di strumento della partecipazione politica assegnata dall’art. 49 Cost.
Innanzi a tutto questo, il compito della scienza giuridica, della scienza della Costituzione in primo luogo, sembra essere quello di scorgere, nell’ambito delle proposte ispirate a mentalità revisionista, la linea di distinzione tra quanto sia deviazione dal processo di attuazione costituzionale nella Costituzione vivente, e quanto si giustifichi per ricomporre lacerazioni in questa prodotte da comportamenti e determinazioni degli attori-formanti soggettivi di essa (si pensi a gravi eccessi di ruolo da parte degli organi costituzionali di controllo che interferiscano nelle politiche legislative di attuazione costituzionale e che non appaia possibile contrastare se non intervenendo sul parametro: per esempio, la modifica dell’art. 111 Cost., fatta la tara della cattiva qualità tecnica dell’intervento, che introduceva nel testo costituzionale norme di conformazione palesemente codicistica, apparteneva al novero degli interventi in tal senso necessari? Quali aggiustamenti delle norme costituzionali sulla forma di governo si debbono ritenere veramente necessitati – una volta assolto il compito di produrre una legge elettorale di buona fattura – da nuove esigenze di razionalizzazione e quali proposte rischiano invece di condurre fuori asse il sistema e di creare nuove disfunzioni?).
Si tratta insomma di saper discernere il grano dal loglio, ma sapendo che il loglio è molto e rigoglioso, il grano assai scarso e soffocato.