di Annamaria Poggi
La lettera di Sandro Staiano va decisamente controcorrente in un momento in cui il dibattito, anche tra i costituzionalisti, vede già l’arena dividersi tra presidenzialisti e contrari al presidenzialismo; quasi-presidenzialisti e affezionati all’attuale forma di governo seppure razionalizzata, altre alternative etc., tutto ciò condito un po’ ovunque con la formula “ciò che serve al Paese”.
Va controcorrente perché suggerisce una riflessione pregiudiziale sul senso e sui limiti del revisionismo costituzionale quale insieme di atteggiamenti culturali e di prassi politiche devianti e fuorvianti rispetto all’ordinato svolgersi delle cose (in primo luogo l’attuazione della Costituzione). La “definizione stipulativa preliminare” è, difatti, volutamente indirizzata a porre l’attenzione su tali atteggiamenti culturali e su quelle prassi politiche che, attraverso tentativi o processi conclusi, hanno interrotto o dilazionato processi che avrebbe potuto e dovuto svolgersi in ben altro modo.
Le esemplificazioni proposte a sostegno dell’argomentazione sono diverse. Due su tutte mi paiono particolarmente calzanti, poiché colgono in pieno i limiti del revisionismo costituzionale così come definito.
L’ultima in ordine di tempo, la riduzione del numero di parlamentari - evocata dai suoi promotori come la soluzione salvifica di un sistema farraginoso - non ha fatto altro che distogliere l’attenzione dal tema della legislazione elettorale ed ha aggravato le disfunzionalità del Parlamento stesso. La revisione del Titolo V, invocata a gran voce per rafforzare il sistema regionale e locale, ha in realtà deviato l’attenzione dai problemi che sarebbero (e sono puntualmente) sorti in relazione al funzionamento di un sistema multilivello di produzione normativa e decisioni politiche, generando, peraltro, controspinte centralistiche di ogni genere e tipo provenienti non solo dal sistema politico, ma anche dai circuiti giurisprudenziali, con ciò (e qui, devo ammetterlo a malincuore perché avevo creduto in quella revisione) impedendo un forse più fruttuoso percorso di attuazione del regionalismo.
Ciò detto, penso che la sollecitazione a riflettere criticamente sul revisionismo costituzionale debba condurre non tanto ad un rifiuto tout court delle riforme costituzionali, bensì a non cedere alle lusinghe di quel riformismo che, in realtà, nasconde atteggiamenti e prassi che consapevolmente o meno rimuovono i problemi veri e gravi del nostro sistema e scaricano le tensioni culturali e politiche che da essi derivano sulla lotta per la Costituzione.
Da questo punto di vista la critica di Staiano non può essere ridotta a critica congiunturale. Non si appunta solo sull’oggi e sui progetti di riforma annunciati dall’attuale maggioranza governativa, ed invece invita a riflettere sui precedenti, a partire da quanto accadde tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio del decennio successivo. La perdita di “peso” e di “presa” dei decisori politici e delle loro proiezioni (soprattutto partiti) rispetto all’epocali trasformazioni internazionali (il 1989); a quelle europee (Maastricht) e interne (la scomposizione del sistema dei partiti seguita a Tangentopoli), inaugurò una stagione che individuava nella “grande” riforma costituzionale “la chiave per riappropriarsi del ruolo di intermediazione responsiva della rappresentanza”.
Inizia di qui un percorso che assume caratteri mai più abbandonati: la volontà trasversale di derogare/modificare l’art. 138 e la volontà altrettanto trasversale di procedere “comunque”, anche a rischio di imporre riforme volute dalla sola maggioranza politica governante.
Due caratteri che sono spia di quei problemi che, anziché rimossi, andrebbero affrontati e analizzati.
Cos’è infatti la volontà di deroga/modifica del 138 Cost. se non l’ammissione di una sconfitta della politica o perlomeno il tentativo della politica di non ammettere la propria incapacità, surrogando la propria decisione con il ricorso al popolo (o al populismo)? Magari cercando di tenere in tal modo sotto controllo la volontà del popolo?
Non è infatti un caso che quella volontà trasversale inizia a prendere forma proprio alla fine degli anni Ottanta. Basti pensare all’idea lanciata da Miglio nel 1989 dello “sbrego” alla Costituzione, imposto da condizioni eccezionali e dall’impossibilità di giungere a riforme tramite il 138 Cost, e alla proposta di Nilde Jotti del 1990 di un tavolo condiviso di riforme da sottoporre a referendum approvativo obbligatorio.
Il dibattito parlamentare sull’approvazione della legge costituzionale n. 1/1993 non fu, dunque, un lampo a ciel sereno, perché già nel 1991 e in vari passaggi (tra cui quello che segui il dibattito parlamentare sul messaggio alle Camere di Cossiga sulle riforme) seppure con soluzioni diverse assumeva precisi contorni non solo l’idea di una inadeguatezza del 138, ma soprattutto quella del ricorso al popolo come strada maestra per la decisione politica sulle riforme costituzionali.
Nonostante l’ampia formulazione dell’art. 3 del disegno di legge costituzionale (“Il progetto di legge costituzionale è approvato da ciascuna Camera in seconda deliberazione, ad intervallo non minore di tre mesi dalla prima, a maggioranza assoluta dei componenti, e sottoposto a referendum popolare entro tre mesi dalla pubblicazione. La legge costituzionale è promulgata se nel referendum popolare sia stata approvata dalla maggioranza dei voti), tra le opposizioni vi fu pure chi propose l’indizione di un referendum propositivo avente ad oggetto la scelta della forma di governo (d.d.l cost. Pontone ed altri- A.S. 603; e p.d.l cost. Fini - A.C. 1762).
Era ormai partita la corsa o rincorsa al popolo (o al populismo).
La successiva legge costituzionale istitutiva della c.d. Commissione bicamerale D’Alema, infatti, oltre al referendum popolare “unico” e obbligatorio prevedeva che per la promulgazione della legge di revisione fosse richiesta, non solo la sua approvazione dalla maggioranza dei voti validi, ma anche la partecipazione al referendum della maggioranza degli aventi diritto, a differenza di quanto stabilito dall'articolo 138 Cost.
Basta fermarsi qui per trarre, credo, qualche insegnamento: dalla fine degli anni Ottanta i partiti hanno rinunciato alla strada maestra del compromesso politico parlamentare per le riforme. Hanno cioè rinunciato al “metodo” costituente che è stato un percorso di compromessi politici, a mio avviso, assai felici.
Proprio perciò la proposta di aggravare ulteriormente l’art. 138 non mi convince del tutto o, meglio, credo nasconda più di un rischio.
Temo, infatti, che introducendo maggioranze più alte o altri vincoli procedimentali non si faccia altro che dare altri argomenti al partito trasversale di quanti ritengono non percorribile la strada maestra del 138, potendo così continuare, senza soluzione di continuità procedere sulla via della necessità della deroga alla procedura prevista.
Tornare al rispetto dell’attuale normativa (ed è già curioso che si debba richiamare il Parlamento al rispetto della Costituzione) mi pare più che sufficiente a consentire l’affermazione del metodo dell’accordo politico. Accordo politico che non è solo tra maggioranza e opposizione (per arrivare come sarebbe auspicabile ai 2/3), ma anche all’interno della stessa maggioranza quando questa è composta da più di una voce e da sensibilità diverse (talchè potrebbe essere complicato anche giungere alla maggioranza assoluta). Che il referendum torni ad essere davvero facoltativo, inoltre, spingerebbe ulteriormente verso la necessità dell’accordo.
Il che, va detto, non supera del tutto i rischi del revisionismo costituzionale paventati da Staiano, come dimostra la riforma della riduzione del numero dei parlamentari, votata da (quasi) tutti non certo per convinzione o all’interno di un progetto organico, ma al solo scopo di rincorrere i populisti di turno.
La necessità del metodo della condivisione è tantopiù necessaria in presenza di atteggiamenti e prassi revisioniste che legittimano l’idea che si può anche fare da soli.
L’approvazione da parte della sola maggioranza di governo della revisione del Titolo V ha dimostrato quanto tale modo di procedere sia controproducente e grave per il “valore” stesso della Costituzione: la legislatura successiva si è caratterizzata per l’inattuazione stessa del Titolo V da parte del governo di centrodestra che, a torto o ragione, lamentava, appunto, la non condivisione della riforma.
Perciò mi pare foriero di riflessioni significative l’invito con cui si chiude la lettera, e che i colleghi intervenuti hanno ben raccolto, a distinguere tra razionalizzazioni (anche con riforme) e deviazioni motivate o dal riformismo a tutti i costi, o dal populismo, o dalla volontà di distogliere l’attenzione su altre e ben più gravi questioni, infine e peggio ancora dall’ammissione di incapacità a governare la complessità, compresa quella che anima la mediazione politica.