di Raffaele Manfrellotti
L’opportuna sollecitazione del Presidente sul revisionismo costituzionale stimola la riflessione sull’attualità della Carta a 75 anni dalla sua entrata in vigore. I termini di tale riflessione mi sembrano chiari nella loro nettezza: o la Costituzione è ancora in grado di esprimere quanto meno i valori di fondo della nazione, oppure non lo è.
La questione presenta, prima di tutto, un aspetto politico: la domanda è se gli attori politici avvertono ancora quei valori, e le norme che li esprimono, come condivisi e, pertanto, al di fuori del confronto; secondariamente, se l’attuazione di tali valori, per come operata dalla Costituzione, è ancora capace di soddisfare le esigenze di un contesto sociale, e quindi politico, necessariamente mutato (risiede qui il nocciolo di tutto il dibattito sulla forma di governo, nel quale non mi avventuro). L’attualità della Costituzione, sotto il profilo politico, dipende, in altri termini, dal grado di fedeltà dei partiti e, più in generale, degli attori politici ai valori che essa esprime, o, come si diceva una volta, dall’attitudine di essi a esprimere la “costituzione in senso materiale”.
Vi è, poi, l’aspetto più strettamente giuridico della problematica del revisionismo costituzionale, mirabilmente sintetizzato nelle parole della mai sufficientemente ricordata sent. n. 1146 del 1988 della Corte costituzionale: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana (art. 139 Cost.), quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all'essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana”. Questa storica pronunzia – a mia memoria, non ancora superata dalla giurisprudenza successiva – esprime un concetto chiarissimo nella sua semplicità: il revisionismo costituzionale è illegittimo. Se la politica ritenesse che i valori costituzionali non fossero più attuali, potrebbe integrarli o sostituirli solo agendo al di fuori del quadro della legittimità e sostituendo all’ordine costituzionale del 1948 un ordine nuovo: e dunque, compiendo un’operazione necessariamente contra Constitutionem.
Come sottolineato da Spadaro nella sua riflessione, la Carta non avversa e, anzi, favorisce il proprio adeguamento ai tempi; io aggiungerei, purché si tratti di interventi puntuali di revisione e non di stravolgimenti riformatori. Nel sistema dell’art. 138, tale distinzione tra revisione e riforma è ben presente; i due concetti sono stati, invece, spesso confusi nella prassi.
La cultura politica degli ultimi venticinque anni ha mostrato, infatti, una scarsa attenzione alla distinzione tra revisione e riforma; il punto è stato già sottolineato da Staiano, che ha altresì individuato, a mio avviso correttamente, una delle cause di tale atteggiamento culturale, e della sovversione della normatività che ne è discesa, nell’introduzione del sistema elettorale maggioritario: il quale ha – tra le altre cose – posto la Costituzione alla mercè delle singole maggioranze, e ha trasformato la funzione ex art. 138 Cost. in una sorta di strumento di recupero dei consensi da esperire nel corso della legislatura o al termine di essa. Si è anche osservato che tale atteggiamento ha condotto non solo a diversi tentativi di riscrivere intere parti della Costituzione, qualcuno dei quali riuscito, ma anche, nella passata legislatura, alla deliberazione di leggi costituzionali a Camere già sciolte e, soprattutto, alla modifica – a mio avviso, assai improvvida e potenzialmente pericolosa - di un Principio Fondamentale della Costituzione.
Non bisogna credere, a mio avviso, che questo sia stato l’unico intervento che ha coinvolto un Principio Fondamentale. La l. cost. n. 3 del 2001, ad esempio, con l’introduzione del concetto di “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali”, ha forse declinato il principio ex art. 3 Cost. in modo diverso da come esso era pacificamente inteso prima; la riforma respinta in sede di consultazione referendaria nel 2016, mediante la soppressione del diritto di eleggere il Senato, incideva sulla struttura sostanziale del principio democratico. In generale, ogni riforma organica della Carta, che è un testo in cui non esistono “compartimenti stagni”, determina, necessariamente, ricadute anche sulle parti non formalmente coinvolte, e quindi anche sui Principi Fondamentali.
Tale atteggiamento culturale di revisionismo, se non di vera e propria iconoclastia costituzionale, si riflette sulla stessa rigidità della Carta, concetto che, come messo in risalto nei noti scritti di Pace, è insuscettibile di ridursi alle sole categorie del diritto: l’effettività delle garanzie giuridiche della rigidità costituzionale dipende dalla capacità dei responsabili di farle valere. La normatività, da sola, è un’astrazione che non ha la forza di imporsi senza gli uomini: perdere di vista tale constatazione induce al peccato di ingenuità di quel giudice francese che, informato del colpo di stato napoleonico del 18 Brumaio, esclamò: “L’atto è illegittimo, la Cassazione lo annullerà” … Un esempio drammaticamente a noi più vicino, nello spazio e nel tempo, è la sovversione delle garanzie liberali statutarie da parte della legislazione fascista.
La rigidità costituzionale, lasciata all’astrazione giuridica, è un’imago sine re. Il suo significato risiede nella capacità dei soggetti che esercitano, nella realtà, il ruolo di garanti della Costituzione di far valere gli strumenti di repressione rispetto ai tentativi di violazione, o peggio ancora di sovversione, dell’ordine costituzionale. Solo a questa condizione la deontologia si impone all’ontologia, la norma al fatto; e solo a questa condizione può parlarsi di rigidità costituzionale: perché quando la realtà supera la forma non vi è più spazio per il diritto.
Non vi è modo di imporre agli attori politici la fedeltà alla Costituzione; vi sono, però, strumenti per ripristinare l’ordine violato, quanto meno quando tale violazione è più plateale. La riflessione sul revisionismo costituzionale è anche – e soprattutto – una riflessione sulla rigidità della Costituzione italiana del 1948. L’unico modo per salvaguardare tale attributo è che i garanti dell’ordine costituzionale – le istituzioni, ma, altrettanto importante, la dottrina costituzionalistica – vigilino sul severo rispetto dei limiti della normatività da parte dell’atteggiamento revisionistico (o iconoclastico) della politica. Il carattere rigido o flessibile della Costituzione non è solo questione di una ricostruzione astratta del sistema normativo: è anche un atteggiamento culturale di rispetto dei valori della Carta, delle forme che li traducono in norme e di reazione alle manifestazioni dell’autorità politica investita di funzioni di governo che violino quei valori o travalichino quelle forme.