di Mario Esposito
La riflessione di Sandro Staiano coglie un punto davvero essenziale: la funzione della revisione nella nostra concreta esperienza costituzionale, con stretta attinenza ai dati storici e resistendo (a mio avviso opportunamente) alla tentazione di affidarsi all’apparato concettuale, di vago sapore teologico, che, sull’assunto di una vocazione all’eternità degli atti normativi apicali, individua e distingue moti, mutamenti, sospensioni, rotture e via catalogando.
Staiano oppone, mi pare, revisionismo a revisione: il primo parodia della seconda. E in ciò trova conferma, almeno “a prima lettura”, nella storia repubblicana, che ha visto, inizialmente, un uso molto parco della “funzione” di revisione, volta a puntuali emendamenti del testo, e, poi, invece, il succedersi di conati riformatori (la variazione lessicale è già di per sé eloquente), uno dei quali soltanto (quello concernente il Titolo V, come ognun sa) giunto a compimento.
Ma il nostro Presidente stigmatizza il ricorso alla revisione a fini surrogatori di una (introvabile) rilegittimazione di forze politiche altrimenti incapaci di far fronte alle nuove sfide, degradando così la revisione a strumento di contingente indirizzo politico: una mutazione che ritengo abbia però radici profonde (sulle quali mi capitò di soffermarmi molti anni addietro, nel 2006) e che, se per un verso si presenta come effetto di sollecitazioni in larga parte provenienti ab extra, proprio ed anche in relazione a queste richiede che si identifichino eventuali cause interne al nostro ordinamento.
Non solo, però, quelle più recenti, esemplate dai diversi tentativi di superare l’art. 138 Cost. con leggi di revisione singolari, sintomatici essi pure di un problema più remoto: sarebbe necessario ripercorrere a ritroso il periodo che prende avvio dal 1948 rileggendolo alla luce del dato fattuale cui sopra si è fatto cenno, ossia lo scarso ricorso all’art. 138 Cost.
Davvero il revisionismo caratterizza soltanto la più recente fase della vicenda repubblicana?
Ne dubito. La “glaciazione costituzionale” della quale parla Staiano (quali che ne fossero le cause effettive) difficilmente può ritenersi che sia stata subìta dai partiti politici che godevano di maggior consenso, anche per la legittimazione approntata dal sistema elettorale proporzionale e portatori della Costituzione, benché giuridicamente rimastine per così dire sulla soglia, ove si consideri l’annoso tema del loro statuto. E d’altra parte, a voler così opinare, dovrebbe prendersi atto della manifestata inidoneità della Carta repubblicana ad attingere quel grado medio di osservanza che, in prospettiva teorico-generale, è condizione della sua stessa validità, essendo invece insufficiente (e paradossale) declinare il tema della “tregua” susseguente ad un compromesso costituzionale, fermo restando che una simile definizione non ha alcun effettivo valore dogmatico, risolvendosi nel rilievo di un carattere comune a tutte le costituzioni democratiche.
Mi auguro di aver modo di trattare il tema funditus nelle sedi opportune: ritengo però che, anche qui, sia pur per brevi cenni, valga la pena di accennare all’allineamento degli assi del sistema di governo (e conseguentemente delle garanzie) in via extracostituzionale, potrebbe dirsi convenzionale (nell’accezione ben tratteggiata da Gustavo Zagrebelsky), con “sospensione” dell’art. 138 Cost.
Secondo l’acuta intuizione di Silvano Tosi, i profili problematici della revisione costituzionale si manifestano con evidenza a fronte della fattuale libertà dei parlamenti nella scelta se ricorrere o meno alla relativa procedura per introdurre norme che, nei contenuti (ipotesi meno frequente) o negli effetti, comportino durevoli modifiche in contraddizione con le determinazioni normative costituzionali originarie. E ciò tanto più in un “contesto documentale” nel quale appare un espresso riferimento alla materia costituzionale avuto riguardo proprio all’esercizio della funzione legislativa e con riguardo alla quale, con maggiore o minore fondamento, può elaborarsi una (pseudo)categoria di fonti atipiche, intessuta con l’ampia (e talvolta contraddittoria) traduzione di “valori” (anche potenzialmente confliggenti) in principi costituzionali: quel “mandato” costituzionale, insomma, che permette di dare plausibile apparenza ad una inesauribile capacità della Carta del 1948 di offrire specifico radicamento alle scelte delle diverse maggioranze, infragilendo ulteriormente un “sistema delle fonti” già debolmente organizzato.
In luogo della attuazione della Costituzione, se ne sono invece avute profonde modifiche: e si capisce allora il realismo del ricorso alla nozione di costituzione materiale e al ruolo in essa riservato alle scelte delle forze politiche. Modifiche avallate dalla Corte costituzionale, prima forse costrettavi e poi di buon grado adattatasi al nuovo ruolo, maturato anche con l’esercizio di conversione delle norme programmatiche in precettive: operazione meritoria, che tuttavia comportava l’assunzione di una funzione di supplenza destinata a stabilizzarsi incidendo altresì sul rapporto tra legge e giurisdizione) ed esso stesso segno di profonda trasformazione.
Esemplare la vicenda relativa alla ratifica con legge ordinaria del Trattato di Roma, ritenuta non incostituzionale, con l’affermazione della spettanza alle Camere del potere di determinare il tipo di fonte da utilizzare, senza riguardo al vincolo desumibile (sistematicamente) dalla natura degli effetti del trattato in termini di parziale limitazione delle forme di esercizio della sovranità (persino a prescindere dalla alternativa tra temporaneità e permanenza della “deroga”), attribuendo all’art. 11 una sorta di qualità diversa, natura (o funzione?) di “supernorma costituzionale”, benché nulla in questo senso si rinvenga nel testo e nella ratio, manifestamente legata al principio pacifista: salvo a voler richiamare, sul piano – particolarmente opinabile – della storia politica, l’ipertesto e non il semplice e banale contesto, la cui considerazione con rapporto di prevalenza renderebbe fors’anche impossibile ogni normatività costituzionale sub specie legis, viceversa espressamente attribuita alla Costituzione dalla XVIII disp. trans.; l’art. 11 Cost. troverebbe allora fondamento nel Trattato di pace di Parigi del 1947 e segnerebbe uno status di sovranità interna – ché di questo si tratta – limitata in guisa tale da rendere provvisoria l’organizzazione costituzionale dei pubblici poteri, in quanto destinata ad essere sostituita progressivamente con l’attribuzione di “quote” di funzioni ad altro ente o ad altri enti: qualcosa di simile ad una trasformazione eterogenea a maggioranza semplice.
Si pongono quindi gravi problemi in termini di definizione di tale processo in itinere soprattutto per quanto riguarda il rispetto del requisito delle condizioni di parità con altri Stati), che paiono difficilmente superabili ove si consideri che le tesi secondo cui l’art. 11 Cost. (così come interpretato e applicato sinora) costituirebbe la chiave di volta del sistema vigente si collocano espressamente in una prospettiva sovranazionalista (già perfettamente colta da Giuseppe Sperduti), che tuttavia mal si concilia con i principi dello stesso art. 11, nel quale proprio le Nazioni compaiono come soggetti sostanziali dell’obiettivo di pace e di giustizia.
Nondimeno – ed anche questo è un profilo del revisionismo che meriterebbe adeguata ricostruzione – non è mancato l’apporto della dottrina, che ha declinato il classico tema delle consuetudini interpretative o, addirittura, normative, sottese le une e/o le altre alle opinioni degli epigoni di quei primi autori, sulla scorta del commodus discessus della equazione tra effettività e vincolatività giuridica.
Ma dalle stesse voci si sostiene poi che occorrerebbe ricorrere alla procedura di cui all’art. 138 Cost., se non anche ad un referendum istituzionale (simile a quello, singolare, che si tenne nel 1989), ove si volesse modificare l’odierno assetto dei rapporti tra lo Stato italiano e l’Unione Europea, che avrebbe dato luogo ad una “costituzione composita”.
Non si tratta (soltanto) di denunciare illegittimità del procedimento (grave sarebbe ritenere la questione superata col decorso del tempo), ma di conferire adeguata evidenza ad un mutamento così profondo compiuto escludendone definitivamente il corpo elettorale (per l’ovvia considerazione che l’art. 75 Cost. sottrae le leggi di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali dal novero di quelle sottoponibili a referendum).
Sulla base di quella scelta, ripetendo e affinando il metodo (e ridotto ormai l’art. 11 Cost. ad una norma chewing gum, per riprendere la colorita espressione di Luigi Condorelli), si è dato avvio al programmato (sin dal 1957) progressivo affidamento delle scelte e delle determinazioni fondamentali della politica economica (con riflessi però su ogni settore della vita associata) ad un apparato diverso e diversamente conformato da quello previsto in Costituzione, informato ad altri principi, non sempre compatibili: da essi è infatti escluso ogni elemento di trascendenza, per così dire ideologicamente assorbito e reso disponibile in un catalogo secolare di c.d. diritti, tuttavia privati del referente presupposto e non posto, ossia l’uomo come datità; e certo non coincidenti, con conseguenze che, alla lunga, hanno per un verso estinto l’impulso trainante dei soggetti politici nazionali e poi la loro stessa esistenza (nelle forme che li aveva contraddistinti sin dal periodo costituente) e, per altro verso, hanno manifestamente modificato le funzioni dei c.d. attori costituzionali: basti por mente alla più recente evoluzione della Presidenza della Repubblica e, in particolare, al ruolo da essa svolto nella formazione dei governi. L’analisi degli atti ha condotto taluno a parlare di indirizzo costituzionale europeo.
Non meno rilevanti i risvolti effettuali del ruolo di codecisione politica assunto dalla Corte costituzionale, sulla via del progressivo distacco dal perimetro del dettato normativo, in ragione della necessità di far conseguire un risultato immediatamente utile omisso medio legis, ma che nella manipolazione dell’art. 11 Cost. per consentire l’aggiramento dell’art. 138 Cost. radica una delle sue più solide fondazioni, che avrebbe condotto, com’è noto, a ritenere superabile da ogni giudice il vincolo alla legge, con progressiva estensione dall’ambito più strettamente comunitario a quello proprio invece del diritto nazionale e correlativa ulteriore sottrazione: del mutato ruolo della Corte sono segni manifesti tanto la prassi di rivolgersi al pubblico mediante comunicati stampa, in funzione di anticipazione e/o commento circostanziale di decisioni non ancora depositate, quanto l’ampliamento motu proprio della partecipazione ai giudizi. Segni altresì di uno slittamento sul piano della responsabilità politica diffusa della relazione di responsabilità che vincola l’apparato di governo alla collettività.
In un contesto del genere, la stagione del “riformismo”, sia pure di volta in volta coltivata in occasioni e con ispirazioni diverse, andrebbe forse riletta alla luce di una eziologia alimentata da una serie di fattori (ab extra e ab intra, ancorché la distinzione e i confini debbano essi pure ripensarsi, senza cedere alla tentazione delle fatalità storiche…), che tutti però, sub specie iuris, convergono nella necessità di adeguare l’ordo ordinans all’ordo ordinatum.
V’è infatti l’esigenza di verificare se e quanto dei principi fondamentali della comunità statale sia ancora iscritto in Costituzione, alla quale (e, prima ancora, al cui concetto) non si rende certamente un buon servigio facendo leva su un (sedicente) adattamento interpretativo che, sovrapponendo alla volizione oggettivatasi nella norma un’altra, occasionale, supera il limite della c.d. elasticità e, in definitiva, converte la normatività costituzionale in una funzione meramente simbolica (se non addirittura liturgica!). Non può anzi escludersi che la pretesa (già a suo tempo stigmatizzata da una parte della dottrina) di assumere le norme costituzionali a matrice di produzione, in sede di applicazione, di criteri di giudizio idonei a conferire rilevanza apicale a nuovi interessi sia l’effettiva origine delle potenziali contraddizioni asseritamente proprie ab origine del “compromesso costituzionale”. In tale prospettiva meriterebbe di leggersi la recentissima, “scandalosa” pronunzia della Suprema Corte statunitense relativa all’aborto, che, in un ordinamento che contempla soltanto leggi di revisione e non già altre leggi costituzionali, ha posto una battuta d’arresto alla surrogazione giudiziaria nella operazione di previa ponderazione di interessi che è tipica della funzione legislativa democratica.
Le “alterazioni” indotte in aspetti essenziali dell’ordinamento secondo Costituzione, in sintesi tutte ricadenti su elementi qualificanti della forma di governo, si riflettono (per la nota dinamica implicativa) anche sulla Parte prima della Costituzione: in primo luogo, il nesso di funzionalità che lega l’organizzazione ai principi fondamentali e alla disciplina dei rapporti civili, etico-sociali, economici e politici deve trovare il suo punto archimedico nel diritto di voto quale espressione di sintesi degli orientamenti e delle volizioni che, anche attraverso la mediazione dei partiti (forma tipica di aggregazione strumentale), prepongono i rappresentanti all’esercizio delle attribuzioni apicali di normazione e di controllo: donde la agevole constatazione che l’affidamento di quote sempre più ampie di ambiti materiali propri di tali attribuzioni ad un plesso organizzativo che confina gli organi direttamente rappresentativi in zona remota (e con ciò la stessa politica nazionale, alla quale pure si riferisce l’art. 11 Cost.) si pone in contrasto con l’impianto stesso dell’architettura costituzionale; in secondo luogo, la costruzione europea, allo stato attuale, appare riferirsi ad una linea assiologica molto diversa da quella che, dall’uomo come datità unergründilich, si articola in diritti individuali e ad esercizio collettivo.
Sotto altro aspetto, la pressione delle cennate alterazioni, pur non essendosi evoluta giungendo al livello della formulazione normativa costituzionale (e non potendosi dunque considerare, come da qualcuno si fa, in termini di acquis ormai irretrattabile), si è però manifestata in modo episodico e anche simbolicamente molto eclatante, incrementando lo stato di disordine e di contraddittorietà tra l’effettivo assetto della funzione di governo e la struttura formale dei mezzi del suo esercizio. Quest’ultima risulta infatti attualmente affetta da incoerenza, per la manifesta difficoltà di conciliare la novella del 2012 agli artt. 97, 117 e 119 Cost. con alcuni principi fondamentali (e direi con quel nucleo di essi nel quale consiste la soglia di identità costituzionale incomprimibile per effetto delle limitazioni di cui all’art. 11 Cost.): basti qui sottolineare la introduzione, nell’art. 97 Cost., in luogo della norma alla quale è stato costantemente ricondotto il principio di legalità della P.A. (la quale è posta quindi in “posizione” recessiva), il generale obbligo di tutte le pubbliche amministrazioni di garantire i risultati dell’equilibrio dei bilanci e della sostenibilità del debito in coerenza con l’ordinamento dell’Unione Europea. Non v’è la benché minima traccia anche solo di un tentativo di armonizzazione tra due “imperativi”, la cui potenziale antinomia esprime ormai esplicitamente una alternatività tra diverse autorità con diversi principi di legittimazione.
Nel contempo, la recentissima riforma che ha ridotto il numero dei parlamentari (e quindi la capacità delle Camere di “incorporare” l’ampia collettività popolare) sembra assecondare l’ideologia sottesa alla l. cost. n. 1/2012, incrementando il difetto di coerenza al quale si è fatto cenno.
Può concludersi, dunque, nel senso della necessità di una previa approfondita istruttoria che ricostruisca i tratti dell’effettivo sistema costituzionale e quindi delle dinamiche della forma di governo, non potendo bastare acquietarsi né alla torsione di modelli ormai profondamente inattuali, né, tantomeno, all’uso di formule suggestive o evocative.
Solo su tale base potrebbe avviarsi un iter di riforma che non si riduca a meri aggiustamenti per obiettivi di politica contingente.