di Antonino Spadaro
Ho letto subito la bella lettera di Sandro Staiano e ne condivido molti spunti, ma sento l’esigenza di qualche precisazione “a caldo”, sperando possa essere di qualche utilità.
Senza infantilmente dire che è “la più bella del mondo”, certo la nostra è un’ottima Costituzione, ben equilibrata e non poco previgente per i tempi in cui fu scritta. Ma, con ciò, non appartengo al gruppo dei conservatori della Carta “così com’è”, sempre e comunque (se si vuole, potremmo dire: gli ultra-conservatori) e nemmeno certamente al gruppo dei revisionisti ad ogni costo (in breve: gli ultra-revisionisti).
Posizione comoda la mia, si dirà. Temo invece libera, sì, ma scomodissima.
Come si sa, per quanto alcuni valori del costituzionalismo possano a ragione essere considerati ormai ultraepocali (principio democratico, diritti fondamentali, separazione fra i poteri, ecc.), nessun testo costituzionale concreto è caratterizzato da perennità/immortalità e sarebbe una jattura considerare una Costituzione, a maggior ragione una Costituzione liberaldemocratica (dunque laica), come una sorta di intangibile “Vangelo laico”. Parimenti, tutte le Costituzioni che caratterizzano la forma di stato liberaldemocratica contengono quel che, in altra sede, ho chiamato un “nucleo duro assiologico universale”, un insieme di valori superiori non revisionabili che appunto le accomuna, o dovrebbe accomunarle, nel tentativo di regolamentare, sia pure solo per principia di massima, proprio il regime politico liberaldemocratico, senza con ciò negarne le diversità che rendono peculiare ciascuna di esse (forma di governo, articolazione territoriale dello Stato: regionale/federale, ecc.).
Credo dunque che – almeno dal punto di vista della “teoria generale della Costituzione” – un atteggiamento scientificamente sereno dovrebbe riconoscere la legittimità di tutte queste Carte, proprio in quanto sono ispirate, e conformi, al costituzionalismo, risultando perciò ben lontane da quelle che disciplinano invece regimi “autoritari/totalitari” o anche semplici “democrature”. Mi pare che il problema della revisione della Costituzione italiana del 1948 vada collocato in questo quadro più ampio, che almeno in parte consente di relativizzare l’idea in sé delle “modifiche al testo” di una Carta, senza scadere nel timore apocalittico di un automatico “mutamento di sistema”, ossia del passaggio ad “altra” forma di Stato (che, a ben vedere, invece può avvenire forse più facilmente in modo strisciante e subdolo attraverso modificazioni tacite). È chiaro – o dovrebbe essere definitivamente chiaro, come già si evince dall’art. 139 Cost. e almeno dopo la sent. cost. n. 1146/1988 – che sono presenti invalicabili limiti sostanziali alla revisione («principi fondamentali e diritti inviolabili»).
Ciò detto, gli stessi Costituenti – tutt’ altro che sciocchi e miopi – ovviamente prevedono, grazie all’art. 138, la possibilità/necessità di aggiornare il testo della Carta, esattamente per il motivo su cui si sofferma con ironia Staiano, quando ricorda l’esigenza di conservarne la “bellezza… al cospetto delle ingiurie del tempo”. La scomodità, o anomalia, della mia posizione (che invero credo coincida con quella di tanti colleghi) discende anche dal fatto che – senza essere pregiudizialmente iperconservatore e anti-revisionista – da sempre sostengo però la necessità di rendere più aggravata la procedura di revisione costituzionale, proprio in nome dell’esigenza di conseguire il più ampio consenso possibile sulle modifiche della Carta. Dunque, non occorre essere anti-revisionisti per riconoscere che, onde evitare l’uso politico-congiunturale della Costituzione, forse serve una revisione in peius (per esempio attraverso l’obbligatorietà del referendum costituzionale) dell’art. 138.
Inoltre, fermo restando che certo esistono revisionisti (e conservatori) “politicizzati”, uno studioso serio può ritenere “di volta in volta” – semplicemente sulla base di considerazioni strettamente scientifiche – opportuna (o inopportuna) una revisione della Carta. Come si diceva all’inizio di queste veloci riflessioni, si tratta di una posizione scomoda, ma del tutto legittima e non stigmatizzabile. Sotto quest’aspetto proprio la trasversalità (politico-partitica) dei c.d. revisionisti non mi pare, dunque, automatico indice di ambiguità, ma semmai e piuttosto di serenità distaccata (e si spera depoliticizzata) di fronte alle ipotesi, “di volta in volta” prospettate, di modifica della Carta.
Concordo sui partiti e sulla stessa Corte costituzionale come “formanti soggettivi” della nostra forma di governo (fra gli altri vi aggiungerei anche, come altrove approfondito, la Presidenza della Repubblica), ma come tanti altri colleghi dissento sull’idea che sia sempre inutile introdurre, grazie alla revisione, nuovi “lemmi” nel nostro testo costituzionale, come fatto da ultimo nell’art. 9, opportunamente ricordato (e come forse potrebbe farsi, per esempio, in relazione all’uso della rete “internet”, in relazione ad altre disposizioni costituzionali). Il corso del tempo, le continue innovazioni scientifico-tecnologiche ed il mutato quadro giuridico-politico nazionale ed internazionale, inevitabilmente determinano l’invecchiamento anche linguistico di tutte le Carte, per quanto illuminate e tecnicamente ben fatte siano. Naturalmente sappiamo bene che spesso è possibile colmare le lacune del nostro testo costituzionale – anche se non quelle tecniche o “di costruzione” (penso, per esempio, alla mancata previsione del ricorso alla Corte da parte dei Comuni ed in genere degli enti locali) – anche in via interpretativa, soprattutto (ma non solo) grazie alla Corte costituzionale. Ma è altrettanto chiaro, almeno per chi scrive, che “la via maestra”, più democratica e più sicura, per aggiornare una Carta sia sempre proprio quella della revisione costituzionale, come del resto e forse paradossalmente conferma il richiamo, presente nella lettera, ai «gravi eccessi di ruolo da parte degli organi costituzionali di controllo che interferiscano nelle politiche legislative di attuazione costituzionale».
La verità è che non si può essere “aprioristicamente” anti-revisionisti (o, al contrario, aprioristicamente iper-conservatori). Dal 1947 al 2022 sono state approvate ben 47 leggi costituzionali: bisogna valutarle caso per caso. Senza in questa sede poter motivare il mio punto di vista, non ho difficoltà a dire, per esempio, in relazione ai “progetti” più recenti di revisione, che:
- dissento da una revisione della nostra “forma di governo” in senso presidenziale o semi-presidenziale, comunque in astratto legittima;
- ammesso che non sia stato ritirato, considero un progetto di riforma che deroghi al “primato delle fonti comunitarie”, fatti salvi i c.d. controlimiti, assolutamente incostituzionale (dunque, ancorché adottato ex art. 138, certamente sanzionabile dalla Corte).
L’impressione che ho, forse maliziosa, è che – se, come giustamente ricorda Staiano, esistono «splendori ideologici e miserie pratiche del revisionismo costituzionale» – non dobbiamo, però, fare di tutti i revisionismi un fascio. Il nemico non è, non può essere, il revisionismo costituzionale in sè, ma solo il “cattivo” revisionismo. E forse dovremmo avere il coraggio di ammettere – ulteriore scomodità del mio punto di vista – che, se in Italia c’è stato (non sempre, ma anche) un cattivo “micro-revisionismo”, forse è proprio perché non abbiamo avuto il coraggio, e la forza politica, di fare delle vere “macro-riforme costituzionali”, ossia “di settore” o sistemiche, con qualche, ahimè, brutta eccezione (penso all’infelice riforma del Titolo V del 2001). Temo pure che, continuando a fare riforme “a pezzetti”, non andremo molto lontano: per esempio, ribadisco che la riduzione del numero dei parlamentari non era una cattiva idea, ma da sola chiaramente si rivela insufficiente.
Se a ciò aggiungiamo la naturale (starei quasi per dire: antropologica) tendenza dei giuristi ad essere “conservatori” – Juristen böse Christen! diceva Lutero – ho l’impressione che un critica generalizzata ai revisionisti possa nascondere, forse involontariamente ma pericolosamente, il tradizionale conservatorismo/misoneismo della corporazione dei giuristi.
Francamente mi trovo a disagio fra gli uni e fra gli altri. Confermando un certo distacco e la scomodità della mia prospettiva, direi dunque che dovremmo guardarci non solo dal “revisionismo” a buon mercato, ma anche dal “misoneismo” camuffato dei giuristi, fenomeno non meno pernicioso.