di Francesco Tripodi
Mi occupo a tempo pieno da circa quattro mesi (quale magistrato in applicazione extradistrettuale) di protezione internazionale, quindi, di asilo. La Lettera di questo mese, con l’invito a brevi contributi, mi spinge ad intervenire, muovendo dall’esperienza che sto vivendo e, devo subito dirlo, dal disagio profondo avvertito dopo le prime udienze di trattazione dei ricorsi per quella che definirei la mancanza "del diritto" nella decisione.
Cerco di spiegarmi meglio.
Non ho avuto difficoltà a studiare le poche regole sostanziali (d.lgs. n. 251/2007) e procedurali (d.lgs. n. 25/2008), più volte oggetto di interventi del legislatore, nel fluttuare delle maggioranze politiche e degli umori del Paese. Passo il mio tempo invece a “studiare” contesti tragicamente complessi dell’area medio-orientale (fino al Pakistan ed al Bangladesh) e dell’Africa maghrebina e subsahariana, dai quali – tra siccità, inondazioni, violenze etniche, politiche e religiose – milioni di persone “avrebbero” diritto, ove liberi di emigrare, a farlo, arrivando in Europa senza pagare nulla alle mafie turche, egiziane e libiche, senza rischiare di subire sevizie e/o affogare.
In realtà, l’asilo non ha ontologicamente una dimensione “di massa” e non è mai stato volto a risolvere le iniquità del mondo, ha invece una nitida dimensione individuale e politica. Molti si chiedono se l’art. 10, terzo comma, della Costituzione nella sua originalità resti esempio di una norma “dimenticata”, se non “tradita”, e quali spazi possa ancora avere nel disegno più ampio della protezione internazionale, già in effetti così “affollato”.
Io rovescerei i termini della questione, dovendosi fare i conti ormai con una “iperattuazione” distorta del diritto di asilo. Non riuscendo a fare scelte coraggiose su visti e flussi, né a bloccare i traffici, trattiamo con le logiche dell’asilo fenomeni più ampi e complessi, allargando le strette maglie della Convenzione di Ginevra. Accordiamo quindi, questa è la sostanza delle cose, i “nostri” diritti, legati al privilegio della cittadinanza, solo a coloro che rischiano la vita con un viaggio disperato per mare o per terra (maschi e giovanissimi al 90 %, pochissime donne ed adulti), sperando poi di vincere la lotteria, ché di questo si tratta, del giudizio di protezione nei Tribunali.
La parola lotteria, detta da un giudice, potrebbe scandalizzare. Cercherò di spiegare perché essa è per larga parte realistica.
I poli del giudizio sono due: la credibilità del richiedente asilo e la situazione del Paese d’origine. La conoscenza del “fatto”, che è l’essenza del giudizio, è però precaria su entrambi i fronti. Io leggo e rileggo l’art. 3 comma 5, d.lgs. 251/07, traendone sempre un senso di sconforto: “Qualora taluni elementi delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l'autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che…”. Le lettere da a) ad e) che seguono sono però quasi inutili da leggere, un campionario di concetti evanescenti, come il “ragionevole sforzo per circostanziare la domanda” o narrazioni “coerenti e plausibili” e via dicendo; la lettera e), che vorrebbe essere norma di chiusura, ne rappresenta la sintesi. Via libera se “dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. Anche il linguaggio appare approssimativo e per quanto si possano affinare le tecniche di esame, sembra delegare al giudice quasi un atto di fede.
I “riscontri” infatti sono quasi sempre notizie che ci procuriamo da Internet, aggregati in reports più o meno qualificati preparati dall’Agenzia Europea per l’asilo (EASO, oggi EUAA) sulle aree di provenienza del richiedente asilo, ma non siamo in grado di apprezzare, se non in pochi casi, il nesso reale con la storia esposta dal richiedente.
Un processo così è in grado di “accertare” assai poco ed è arduo anche definirlo tale.
La cosa più sorprendente è che la Corte di Cassazione, reagendo all’unicità del grado di giudizio, introdotta dal 2017, ha allargato le maglie del suo controllo, accentuando l’assoluta anomia del settore, assecondando la massima espansione di astratte affermazioni dei diritti fondamentali e l’obbligo (quasi) del giudice di non fare troppe domande, colmando, come si può, ogni lacuna informativa. Qualche esempio: basta a giustificare la protezione “il solo rischio di essere sottoposto a regime di detenzione in carcere (per l'attività illegale di estrazione di oro)” perché il giudice non ha svolto, “in osservanza del dovere di cooperazione istruttoria”, alcuna “indagine specifica sullo stato del sistema giudiziario e carcerario del Paese di provenienza” (Cass. n. 24630/2022, ricorrente del Ghana, definito invece Paese “sicuro” dal DM 4 ottobre 2019). Ancora: “l'allegazione di vulnerabilità del richiedente protezione umanitaria che si fonda sulla percezione di discriminazione sociale e relazionale dovuta alla disabilità che per il rilevato rango dei diritti della persona lesi, integra una specifica condizione di vulnerabilità (Cass. n. 13400/2022, Tunisia, altro Paese in astratto “sicuro”).
Ora, davvero qualcuno può pensare che lo stato delle carceri del Ghana o di qualunque altro Paese africano sia in regola con la Carta di Nizza o la CEDU? E può mai costituire prova la mera “percezione” del tunisino che si dice discriminato per la sua disabilità? Non sarebbe a quel punto più semplice e onesto dare a tutti i disabili un visto in ambasciata, invece di farli salire su un barcone?
Un esercito di avvocati prospera su questo mare di ricorsi, spesso seriali. Il risultato del caso singolo dipenderà parecchio dal "fascino" della questione (violenza domestica, terrorismo, omosessualità) e dall’impatto “sensibile” del racconto, più che dalla prova effettiva di qualcosa che lo ha “costretto” ad espatriare (povertà ed insicurezza diffuse a parte). L’integrazione sociale e lavorativa, letta attraverso il prisma dell’art. 8 CEDU rende dal 2020 i casi degli immigrati “di lungo corso” meno indeterminati, ma anche in questo caso il giudice è arbitro di tutto, senza regole o quasi.
Che cosa è accaduto? La protezione internazionale, io penso, sembra divenuta una sorta di diritto “ideologico”, pallida derivazione del vero diritto di asilo, sistema costruito per placare i sensi di colpa di “noi”, giuristi democratici ed europei, sostenuti da associazioni militanti e riviste giuridiche “monodirezionali”. Se sono in gioco i diritti fondamentali, si dice, la politica resti fuori, è la comune umanità non comprimibile da una linea di confine la chiave di lettura di un mondo fraterno e solidale, al quale vorremmo tutti appartenere.
L’illusione della giustizia affidata al giudice “senza” una vera mediazione della legge (percepita come astratta e inadeguata) è antica come l’uomo ed il suo fascino si presenta oggi in termini nuovi nelle società più ricche ed avanzate, che vedono il giudice “guardiano” di conflitti irrisolti, come quello cruciale che ruota attorno alle migrazioni. Scelta miope, pericolosa, diseguale.
Intervenendo nel dibattito che impegnò la cultura giuridica italiana a proposito del libro di Lopez De Onate “La certezza del diritto”, del 1942, Calamandrei (in contrasto con il richiamo all’umanità ed unicità del giudizio di Carnelutti) scriveva a difesa della funzione della legge che la giustizia del caso singolo “si riduce ad essere inquietudine ed incertezza” ed elevata a sistema “è negazione insieme di ogni diritto e di ogni libertà”.
Dal paradiso terrestre della tutela multilivello dei diritti, di cui son stati fatti guardiani i giudici, ricordiamolo, restano fuori in tanti, in troppi, ed invece è a loro che il diritto dovrebbe soprattutto pensare. Anche a costo di sembrare, a qualcuno, cattivo.