di Claudio Panzera
L’UNHCR ha definito quella prodotta dal conflitto russo-ucraino «one of the largest displacement crises in the world today». I numeri sono in effetti impressionanti (13 milioni di profughi, circa 1/3 della popolazione ucraina, di cui quasi la metà sfollati interni e i restanti riparati all’estero). Rinviando alla precedente lettera di aprile per l’esame dei profili costituzionali della guerra in corso, in questa occasione ci si soffermerà sugli strumenti messi in campo dall’Unione e dall’Italia per affrontare la drammatica crisi umanitaria che ne è derivata.
Con una rapidità e una determinazione inedite, il 4 marzo il Consiglio dell’Unione europea ha adottato, su proposta della Commissione, una decisione di esecuzione (2022/382) volta ad accertare l’esistenza del presupposto della protezione temporanea e a disporne la conseguente attivazione. Si tratta, come si sa, di uno dei tre pilastri che compongono il sistema comune di asilo europeo (unitamente alla protezione internazionale e a quella sussidiaria: art. 78 TFUE), in particolare il primo ad essere eretto. La sua disciplina – contenuta nella dir. 2001/55/CE (DPT) – risale infatti alla prima fase di costruzione di quel sistema, orientata ad un’armonizzazione leggera delle normative nazionali (l’uniformazione, quanto agli altri “pezzi” della politica di asilo, sarà avviata un decennio più tardi). Il nuovo strumento era pensato, in particolare, per rimediare a due difetti di fondo della gestione non coordinata degli afflussi massicci di profughi delle guerre balcaniche degli anni ’90 del secolo scorso: a) le differenze nel trattamento degli sfollati derivanti dalla eterogeneità delle discipline nazionali (tipi di permesso, durata e relativi diritti esercitabili); b) gli squilibri nella distribuzione degli oneri fra gli Stati, dovuti sia alla distanza geografica dai luoghi del conflitto che ai c.d. “movimenti secondari” incentivati dalla ricordata difformità di status. Da qui, il duplice scopo dichiarato della direttiva: dettare «norme minime» per la concessione della protezione temporanea in casi di afflusso massiccio di sfollati che non possono rientrare nel Paese d’origine e «promuovere l’equilibrio degli sforzi degli Stati membri» che li accolgono (art. 1). Benché non sia da considerare un requisito necessario ai fini del suo impiego, la protezione temporanea mira anche, comprensibilmente, ad alleggerire la pressione sui sistemi nazionali di asilo, assumendo appunto che l’alto numero di persone interessate (il concetto di «afflusso massiccio» è volutamente indeterminato e rimesso alla determinazione politica del Consiglio: art. 5 DPT) ne metterebbe a repentaglio il corretto funzionamento. In sintesi, la protezione temporanea si caratterizza per essere una misura collettiva, eccezionale, flessibile, ad attivazione discrezionale e applicazione automatica; essa consente agli Stati di adottare misure immediate di tutela in favore di gruppi di individui senza necessità di passare per la più lenta e macchinosa procedura di riconoscimento individuale, caso per caso, della protezione internazionale o sussidiaria.
Fino alla recente crisi ucraina l’istituto non è mai stato attivato, ancorché le occasioni per un suo utilizzo non fossero purtroppo mancate (richieste in tal senso furono avanzate da alcuni Stati membri e da parlamentari europei in seguito alle c.d. “primavere arabe” nel 2011 e, soprattutto, durante la crisi siriana del 2015-16). A fare difetto è stata piuttosto la volontà politica di avvalersene; una riluttanza che si spiega in parte con lo standard di tutela che la direttiva impone di riconoscere ai titolari della protezione (inferiore a quello disposto per rifugiati e beneficiari di protezione sussidiaria, ma comunque significativo anche per ragioni quantitative), in parte con la debolezza del meccanismo di solidarietà inter-statale previsto (basato su un sistema di c.d. dual voluntarism: artt. 25-26 DPT), in parte ancora con fattori di altra natura (per la cui analisi si rinvia allo Study on the Temporary Protection Directive promosso dalla Direzione generale migrazione e affari interni della Commissione europea e pubblicato nel gennaio 2016, pp. 14 ss.). Non stupisce, dunque, che la protezione temporanea sia parsa agli occhi delle medesime istituzioni europee una risposta obsoleta rispetto ai tempi e le necessità attuali, da ripensare integralmente o, meglio ancora, sostituire con strumenti nuovi: in tale direzione si muove la proposta di regolamento concernente le situazioni di crisi e di forza maggiore nel settore della migrazione e dell’asilo (COM(2020) 613 final, p. 10), che fa parte del New Pact on Migration and Asylum presentato dalla Commissione nel settembre 2020.
La citata decisione di esecuzione del Consiglio del 4 marzo scorso potrebbe però invertire la rotta, aprendo nuovi scenari nel processo di riforma del sistema di asilo europeo, con ricadute anche sul piano delle tutele interne.
Un primo profilo riguarda l’innovativa previsione che consente ai profughi ucraini di scegliere in quale Paese ottenere il riconoscimento della protezione, in conseguenza della libertà di circolazione nel territorio dell’Unione entro 90 giorni dall’ingresso loro riconosciuta (cons. 16 dec. esec.; si ricorda anche che, già prima dell’invasione russa, i cittadini ucraini erano esentati dall’obbligo di visto per soggiorni inferiori a quel termine). Il principio si muove in una logica antitetica rispetto a quella sottesa al sistema di asilo europeo, il cui asse portante è l’assegnazione automatica dell’esame delle domande in base a criteri oggettivi e indipendenti dalla volontà del richiedente (i noti “criteri Dublino” del reg. n. 604/2013), con conseguente obbligo di ripresa in carico da parte dello Stato competente nell’ipotesi di movimenti secondari, salvo eccezioni particolari. Qui, invece, è il criterio della free choice a diventare la regola (rimane però l’ambiguità sul punto, determinante, se lo status di titolare della protezione si acquisisca automaticamente o solo a seguito di rilascio statale del relativo permesso di soggiorno). Ancorché tale inedita previsione sia stata certamente condizionata anche dalle resistenze statali a indicare le quote di profughi a proprio carico in termini di capacità ricettive, come prevede l’art. 5 DPT (il cons. 20 dec. esec. riporta la cifra irrisoria di 310 mila posti), vale la pena chiedersi se tale precedente non debba orientare la discussione sulla riforma del sistema Dublino nel senso di includere, fra i possibili criteri, anche la facoltà di scelta del richiedente ragionevolmente fondata, ad es. su una serie di indicatori circa l’esistenza di un “nesso rilevante” (meaningful link) con il Paese di destinazione.
Un secondo aspetto meritevole di attenzione riguarda il contesto politico in cui è maturata la decisione del Consiglio, anticipato dalla pronta e ampia disponibilità al soccorso e all’accoglienza espressa dagli Stati membri, a partire da quelli – Ungheria e Polonia – tradizionalmente ostili alla logica del burden-sharing dei richiedenti asilo e portatori di una visione difensiva e identitaria di fronte alla questione dell’immigrazione extraeuropea (si ricorda, fra l’altro, il contenzioso sulla relocation dei rifugiati siriani). Le ragioni e le implicazioni geopolitiche che rendono la guerra russo-ucraina un caso a sé rispetto ad altri conflitti ai margini dell’UE, passati o in corso, possono giustificare sul piano strategico-politico dell’azione esterna dell’Unione l’eccezionale apertura delle frontiere e lo scatto di solidarietà degli Stati membri. Nondimeno, dal punto di vista dei titolari del diritto alla protezione, è inevitabile interrogarsi sulla coerenza della politica di “contenimento” dei flussi di richiedenti asilo che da una decade a questa parte anima il concreto funzionamento del sistema comune europeo: si pensi, fra l’altro, alla pratica dei respingimenti illegali dei migranti alla frontiera o in acque internazionali, all’accordo Ue-Turchia del 2016 e, solo qualche mese prima dell’aggressione militare russa, all’inflessibile rifiuto di ammettere – ai fini dell’accesso alla procedura di asilo – poche migliaia di profughi siriani, afghani e iracheni dal confine bielorusso. È del tutto illusorio, oltre che ipocrita, pensare che il più sofisticato sistema di protezione sovranazionale dei richiedenti asilo finora istituito sia applicabile solo in relazione ad una piccola quota dei suoi potenziali destinatari: il suo funzionamento va dunque ripensato non nella logica geopolitica della deterrenza (che purtroppo sembra ispirare alcuni contenuti del citato New Pact), bensì in quella dell’effettività del diritto d’asilo quale diritto umano universale.
La decisione del Consiglio, peraltro, non è esente da criticità proprio nell’individuazione dei destinatari della protezione. Questa si applica primariamente ai cittadini ucraini e loro familiari residenti in Patria al momento dell’invasione (24 febbraio 2022), ai titolari di protezione internazionale o altra protezione nazionale equivalente residenti alla medesima data in Ucraina e ai rispettivi familiari. Un secondo gruppo concerne stranieri e apolidi residenti in Ucraina con un permesso di soggiorno permanente: ad essi gli Stati possono scegliere se applicare la protezione temporanea o altra tutela interna «adeguata» (negli orientamenti operativi forniti dalla Commissione per contenere le difformità applicative tra gli Stati si precisa che questa tutela deve rispettare la CDFUE e lo “spirito” della DPT) e sempreché non sia possibile un rientro sicuro in Patria di tali soggetti. Invece, in relazione a tutti gli altri profughi in fuga dal conflitto (apolidi e stranieri legalmente soggiornanti in via temporanea, irregolari, richiedenti asilo, ucraini già presenti all’estero prima dell’invasione), gli Stati sono meramente invitati a fare un uso largo ed estensivo della decisione, conformemente a quanto prevede in generale l’art. 7 DPT, ma senza alcun obbligo di tutela specifico. La scelta di istituire un regime di protezione “a geometria variabile” – necessaria, alternativa, eventuale – con diverse classi di beneficiari, pur rispondendo a criteri non arbitrari (la possibilità di un rientro sicuro nel proprio Paese è una ragione astrattamente legittima per escludere la concessione della protezione), rischia però di generare fenomeni di discriminazione indiretta ai danni dei soggetti più vulnerabili, specie se accompagnate da prassi nazionali di selezione degli ingressi su base etnico-nazionale.
Il Governo italiano, nel dare seguito alla decisione del Consiglio UE, ha scelto di mantenersi sulla linea più restrittiva, limitando la protezione temporanea ai soli beneficiari “necessari” (così il DPCM del 28 marzo 2022, anticipato da alcune prime misure emergenziali adottate all’indomani dell’invasione russa: v. le due Dichiarazioni dello stato di emergenza deliberate dal Consiglio dei ministri il 25 e il 28 febbraio, nonché gli artt. 5-quater e 5-quinquies del d.l. 14/2022 conv. in l. 28/2022 e l’art. 31 del d.l. 21/2022 conv. in l. 50/2022, cui si aggiungono varie ordinanze attuative del Capo del Dipartimento della protezione civile). Nel complesso quadro di interventi messi in campo per gestire l’afflusso di profughi dall’Ucraina, almeno due aspetti mi paiono rilevanti sul piano costituzionale.
Il primo concerne la felice scelta per un’accoglienza “diffusa” sul territorio, con appositi incentivi alla coabitazione familiare o alla messa a disposizione di abitazioni private al fine di aumentare la capienza del sistema di accoglienza pubblico (basato sulla triade di centri governativi di prima accoglienza, centri di accoglienza straordinaria e strutture del sistema di accoglienza e integrazione propri del regime applicabile ai richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale). Il coinvolgimento di più ampi settori della società civile (centri per il volontariato, enti religiosi e del terzo settore, ecc.) accanto agli attori pubblici (Comuni e prefetture) rafforza il senso di una responsabilità diffusa per la gestione del problema specifico, in linea con il principio di sussidiarietà orizzontale ex art. 118, c. 4, Cost., e offre al contempo un modello da sperimentare in relazione alla cronica insufficienza dei posti di prima e seconda accoglienza del sistema nazionale di asilo.
Il secondo aspetto riguarda l’ambiguo rapporto fra protezione temporanea e gli altri status di protezione sovranazionale. Fra i diritti connessi alla prima, la direttiva include quello di presentare «in ogni momento» domanda di protezione internazionale, ma lascia agli Stati la facoltà di vietare il cumulo tra le posizioni di richiedente asilo e beneficiario della protezione temporanea (artt. 17 e 19 DPT). In sede di recepimento, il legislatore italiano ha rimesso al DPCM attuativo la determinazione dei tempi di esame della domanda di asilo in tali casi, prefigurando solo come «eventuale» il suo rinvio. L’art. 3 del DPCM cit. dispone invece la sospensione automatica dell’esame della domanda e il differimento della decisione alla cessazione della protezione temporanea (in concreto, da uno a un massimo di tre anni). A fronte di altre soluzioni meno incisive praticabili, a partire dalla riduzione dei tempi del procedimento, sorge il dubbio se la scelta operata sia compatibile col favor espresso dalla direttiva o, piuttosto, non finisca per compromettere l’effettività del diritto all’asilo nel suo contenuto logico “minimo” di diritto di accedere alla procedura per il relativo riconoscimento, oggetto di implicita e congiunta tutela nel diritto primario dell’Unione (art. 18 CDFUE) e nella Costituzione italiana (art. 10, c. 3).