di Federico Pedrini
1. Non v’è dubbio che il dibattito suscitato dalla Lettera di Caruso sull’originalismo abbia raggiunto il suo dichiarato scopo di richiamare l’attenzione su molteplici «temi di vitale interesse per la nostra disciplina». Il primo, forse anche il più imbarazzante, è che quest’ultima tuttora non concorda sul proprio oggetto, se non a livello nominalistico. Costituzionaliste e costituzionalisti sarebbero probabilmente d’accordo nel dire che studiano – quanto meno anche e principalmente – “la Costituzione”, ma da lì in avanti la concordia sembrerebbe affievolirsi, talvolta fin quasi a scomparire. Questo a livello tanto di cosa sia la “Costituzione” che studiano, quanto di tutto ciò che di ulteriore eventualmente risulti oggetto (necessario o contingente) della loro attenzione, vuoi come elemento autonomo e separato delle proprie analisi, vuoi come strumento per meglio comprendere il contenuto della prima (Costituzione).
Per riprendere, sul punto, le considerazioni di molti tra coloro che mi hanno preceduto (Vanoni, Camerlengo, Zanon, Chessa), la Costituzione (de qua agitur) si risolve nel testo (e/o nel suo significato) oppure il relativo concetto si estende fino a ricomprendere entità extra-testuali come la “Costituzione materiale”, la “Costituzione vivente” o magari l’ancor più ampio “ordinamento costituzionale”? Se non si chiarisce questo aspetto, ogni altra considerazione rischia di essere foriera di equivoci, che possono insistere tanto sulle ipotetiche fonti, ulteriori rispetto al testo costituzionale, del diritto costituzionale stesso, quanto sui metodi utilizzabili per interpretare il documento costituzionale e/o gli altri materiali “costituzionalmente rilevanti”. In altre parole ancora, mi pare fondamentalmente inutile discutere di interpretazione costituzionale, come il dibattito sull’originalismo impone di fare, se non si chiarisce prima puntualmente quale sarebbe la “Costituzione” che si interpreta, se si interpreta soltanto tale Costituzione o anche altro (i rapporti politici? la coscienza collettiva? la storia e la tradizione di un popolo? le esigenze di una società?), e come questo eventuale “altro” interagisca con la Costituzione in senso stretto (è una fonte giuridica ad essa parallela o costituisce un mezzo per la sua “lettura”?).
In che cosa consista l’interpretazione della Costituzione e quale sia il metodo più adatto per svolgere tale attività dipende in larga misura dalle caratteristiche che riconosciamo proprie del relativo oggetto. Va da sé, tuttavia, che questo decisivo “riconoscere” determinate caratteristiche come proprie della Costituzione non potrà essere il frutto di fantasie personali, ma dovrà quanto meno tentare di trovare fondamento e di mostrare corrispondenza in quella che potremmo chiamare la “realtà” (immateriale, certo, ma non immaginaria) del diritto stesso. Pena tra l’altro, a procedere diversamente, l’impossibilità di tracciare una distinzione, e dunque l’inevitabile confusione, tra la Costituzione com’è – quale parte del diritto vigente – e la Costituzione come (secondo noi) dovrebbe essere.
2. Come ha bene illustrato Mario Jori (da ultimo in Esistenze, Modena, Mucchi, 2022), i giuristi non parrebbero disporre di un criterio autenticamente tecnico/scientifico per la definizione del diritto esistente, finendo necessariamente per appoggiarsi alla nozione di senso comune. Questo si spiega in ragione del loro peculiare ruolo di “ausiliari dell’applicazione” nella pratica sociale giuridica, alla quale i giuristi non partecipano come scienziati che si limitano ad osservare un fenomeno semplicemente dall’esterno. Essi sono piuttosto attori che, dall’interno, rendono possibile il funzionamento del meccanismo del diritto, fornendo descrizioni/ricostruzioni specialistiche delle fonti e delle norme di un dato ordinamento. Ciò a partire da una data “norma di riconoscimento” la cui individuazione – daccapo – non è affatto arbitraria, ma è appunto guidata dal senso comune. I costituzionalisti non fanno eccezione a questa regola, la quale si configura come un vincolo pragmatico che semplicemente condannerebbe all’incomprensione coloro i/le quali, ad esempio, sostenessero che la nostra Grundnorm fosse ancor oggi lo Statuto albertino e non la Carta costituzionale repubblicana.
Tutto questo, beninteso, non ha impedito ai giuristi, e in particolare ai costituzionalisti, di andare talora anche “al di là” del senso comune e di ricorrere a concetti e teorie più complesse (o addirittura controintuitive) di ‘Costituzione’, che non risolvano quest’ultima integralmente (e magari neppure principalmente) nel significato del relativo testo. Laddove un documento costituzionale esista, tuttavia, non mi risulta che vi sia mai stata una teoria costituzionale disposta a pretermettere formalmente il testo costituzionale dai propri elementi costitutivi. Ciò a testimonianza del fatto che, sempre per la stessa necessità (pragmatica) di comunicare coi propri interlocutori – che sono non solo gli altri giuristi, ma anche gli organi dell’applicazione e potenzialmente tutti i consociati –, anche le teorie più “ardite” manterranno sempre un aggancio (se non altro apparente) col senso comune. E dal punto di vista del senso comune la Costituzione può essere soltanto il testo costituzionale, non foss’altro per la buona ragione che i comuni consociati non hanno la minima idea di cosa potrebbero mai essere le altre “Costituzioni” – materiali, sostanziali, viventi, etc. – di cui talvolta discorrono i giuristi.
3. Torniamo così all’originalismo e alla sua importanza per l’attuale teoria costituzionale. Come si diceva, l’originalismo si propone come uno specifico metodo interpretativo della Costituzione, il quale, nell’attribuire “senso e riferimento” agli enunciati di quest’ultima, àncora tale significato a un parametro fisso, risalente al tempo della loro approvazione. Indifferentemente rispetto al fatto che tale parametro sia quello delle intenzioni originarie dei costituenti (original intent) oppure del significato che quelle parole avevano nella comunità dei parlanti di allora (original public meaning), così facendo l’originalismo presuppone l’assunto teorico per cui «la costituzione è solo il suo testo» (Chessa). Ebbene, il dato a mio avviso più significativo non è tanto come (e con quanta efficacia) l’originalismo argomenti in favore di un simile metodo per l’interpretazione del testo costituzionale, quanto il fatto che l’originalismo ci ricordi, dimostrandocelo con la sua stessa esistenza, che un simile modo di procedere sia per lo meno possibile.
Non l’unico possibile, certo, e neppure necessariamente il migliore possibile, ma sicuramente una ipotesi quanto meno da prendere in (auspicabilmente seria) considerazione. A maggior ragione se si considera che il suo assunto di base, quello per cui la Costituzione (da interpretare) «è solo il suo testo», è segnatamente quello (1) più aderente al senso comune cui i giuristi (costituzionalisti inclusi) sono pragmaticamente vincolati e (2) per distaccarsi dal quale si richiederebbero, se non proprio delle dimostrazioni, quanto meno argomentazioni molto solide. Altrimenti detto, allontanarsi dal concetto di senso comune fatto proprio (anche) dall’originalismo e che riporta la Costituzione al suo solo testo è senz’altro un’opzione, ma un’opzione tutt’altro che ovvia. E proprio per questo parrebbe richiedere un “onere motivazionale” gravoso, il quale non può ritenersi assolto da appelli troppo spesso fumosi – essi sì autentici «stratagemmi retorico-persuasivi»! – rivolti a pretese “nature”, “funzioni” o “prestazioni” della Costituzione. Le quali, sia detto per inciso, sembrerebbero giocoforza rinviare “dogmaticamente” a un concetto teorico-generale di ‘Costituzione’ indipendente dagli (e prevalente sugli) specifici e variabili contenuti dei testi costituzionali “positivi”.
4. Certo, allorché tali teorie in concreto si affermino con sufficiente diffusione, diventando pratica costante e regolare di giudici e giuristi, esse condizioneranno comunque il contenuto del diritto vigente e la sua applicazione, a dispetto del loro «essere fuori dai confini di ogni ragionevole interpretazione delle varie disposizioni costituzionali» (Razzano). Anche a prescindere, cioè, dalla loro fondatezza, plausibilità e onestà intellettuale, che possono talora dimostrarsi labili soprattutto quando pubblicamente la forma sia ancora quella di una interpretazione del testo della Costituzione. In questo senso ha certamente ragione D’Amico nel dire che, in ultima analisi, «è il Giudice costituzionale a stabilire ciò che sta o non sta nel perimetro dei valori costituzionali». Se infatti il diritto esiste grazie alla convergenza di tutti i consociati (e non soltanto dei giuristi) su una certa norma di riconoscimento, i suoi contenuti sono poi specificamente determinati dai soli giuristi (ed in modo particolare dagli organi dell’applicazione), sia pure in costante connessione col senso comune. L’originalismo, quindi, potrà semmai rivendicare una maggior solidità epistemologica nell’indagine sul significato di un testo che il senso comune considera la Costituzione sans phrase, ma non può vantare una maggiore “verità” nel descrivere un diritto costituzionale che, come ogni altra teoria, almeno in parte concorre a costituire.
Ciò che, tra le altre cose, l’originalismo potrebbe forse insegnarci è ad analizzare e valutare ogni dottrina interpretativa della Costituzione – incluso, naturalmente, lo stesso originalismo – per quello che è (un modo di intendere, completare o modificare il diritto costituzionale “di senso comune”) in rapporto a come essa si presenta (interpretazione, integrazione o attuazione di quale Costituzione?). Una salutare conseguenza sarebbe anche quella di riportare la discussione circa il metodo dell’interpretazione costituzionale sul piano che gli è proprio, vale a dire quello della sua “correttezza” (Vignudelli) rispetto a un oggetto – la Costituzione – previamente e pubblicamente definito, con la dovuta trasparenza, nei suoi elementi costitutivi.