di Marilisa D’Amico
La sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti sul caso “Dobbs”, che ha diviso la società americana e che, ancor prima della sua pubblicazione, aveva avuto profondi riflessi anche in Europa, è divenuta per la dottrina costituzionalistica italiana occasione di discussione non solo e non tanto per il suo oggetto (che, in alcuni contributi, viene soltanto accennato), e cioè il diritto negato all’aborto, ma soprattutto per gli argomenti utilizzati dalla Corte Suprema e per il “posto” delle teorie originaliste.
Ragionando sugli Stati Uniti, non solo si evidenziano diverse sensibilità a visioni dell’originalismo, per come lo si è studiato e compreso, ma queste stesse sensibilità vengono riportate a ragionamenti più ampi che investono il ruolo dei giudici costituzionali e i confini del loro intervento.
Non approfondirò oltre questo aspetto se non per sottolineare che trovo importante ragionare, come fa brillantemente Luca Vanoni, sui diversi “originalismi” e sul merito che è unanimemente riconosciuto negli Stati Uniti all’originalismo: quello, cioè, di aver sottolineato con forza la necessità di evidenziare sempre i confini della giurisdizione quale aspetto centrale di ogni democrazia. Aspetto che, non va dimenticato, ha un significato del tutto diverso in un paese di common law, rispetto a una realtà come quella italiana. Discutendo con studiosi e studiose statunitensi all’indomani della sentenza “Dobbs”, il profilo che mi è parso più rilevante è sembrato indubbiamente questo.
Ma, allora, che cos’hanno in comune (finora) la vicenda statunitense e la discussione sviluppatasi in seno alla dottrina costituzionalistica italiana? Mi pare sicuramente quella di essere una discussione fra uomini dove, purtroppo, l’aborto, un problema che coinvolge prima di tutto la donna e il suo diritto a portare a termine una gravidanza, riacquista centralità.
Fin dall’antichità, impedire o tollerare che le donne abortissero costituiva una delle “politiche” caratterizzanti una civiltà. In quella romana, ad esempio, è sotto l’impero di Augusto che troviamo leggi che vietano l’aborto e storie di aborti clandestini chiesti da donne che controllavano la natalità per sfuggire al proprio destino, ritenendo che l’interruzione della gravidanza costituisse un atto di autonomia e quindi di libertà, come ben evidenzia nei suoi scritti Eva Cantarella (si veda, soprattutto, L’ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell’antichità greca e romana, Feltrinelli, Milano, 2010). Un aspetto che contraddistingue i regimi nazista e fascista è quello di introdurre pene severissime per le donne che decidevano di abortire; donne che, sfuggendo al destino di “moglie e di madre”, venivano in molti casi completamente emarginate e rinchiuse nei “lager” (così V. De Lucia, Destini di donne nella Germania nazionalsocialista, Spring, 2020).
Ancora oggi, purtroppo, negare alle donne questo diritto non è così difficile, persino in Europa. Pensiamo a quello che sta succedendo in Polonia, ma anche al fenomeno dell’obiezione di coscienza in Italia, che rende difficile e a volte impossibile nel nostro Paese, in alcune regioni, interrompere una gravidanza. Un’Italia condannata due volte dal Comitato europeo dei diritti sociali, per il modo in cui viene applicato l’art. 9 della legge n. 194 del 1978.
Ma torniamo agli Stati Uniti: si afferma in “Dobbs”, che la Costituzione non riconosce esplicitamente il diritto all’aborto (nella sentenza, si ribadisce, più volte, che “the Constitution makes no mention of abortion”; oppure, anche, che “procuring an abortion is not a fundamental constitutional right because such a right has no basis in the Constitution’s text or in our Nation’s history”, p. 77). Al di là e oltre la necessità di affermare una teoria dei limiti della giurisdizione, potremmo anche provare a riflettere sul contesto storico che di sicuro condiziona il ruolo delle Corti, a mio avviso ben oltre le convinzioni soggettive dei singoli o della maggioranza dei giudici.
Ragionando, infatti, sul significato della decisione Roe v. Wade non solo per la storia statunitense, ma anche per quella europea, possiamo infatti chiederci: perché, nel 1973, abbiamo avuto “Roe” e ora, nel 2022, ci ritroviamo Dobbs? Cos’è cambiato?
Non mi riconosco nelle affermazioni secondo cui tutto dovrebbe ridursi ad uno scontro fra giudici liberal e conservatori e, quindi, originalisti (equazione un pò troppo semplicistica).
Credo, invece, che c’entri moltissimo la storia e, soprattutto, la storia delle donne e il peso delle loro rivendicazioni. Le Corti, infatti, sono interpreti dei tempi e dipendono fortemente dalla società.
Nel 1973, in un momento di forte rivendicazione di nuovi diritti e di diritti femminili, di nascita dei movimenti femministi in tutto il mondo e soprattutto negli Stati Uniti dove le donne, unite nelle loro battaglie, conquistavano campi fino a quel momento totalmente maschili, come quello artistico, “Roe” diviene espressione di questa forza e di questa centralità, affermando che l’aborto riguarda il “corpo” delle donne, la loro privacy, intesa come inviolabilità totale da parte dello Stato, sino a superare, fino a forzarlo come ammetterà anni più tardi Ruth Bader Ginzburg, il processo legislativo.
Con “Roe”, la Corte Suprema esprime la forza delle donne e le battaglie dei corpi che “Dobbs” lascia invece sullo sfondo.
Come è stato possibile? E la Costituzione rimane davvero “neutra” di fronte a queste tematiche?
È stato possibile negli Stati Uniti, come potrebbe succedere anche in Italia, proprio perché quella lotta femminile, che voleva conquistare lo spazio pubblico in modo autonomo e portando una diversa prospettiva, si è a mio parere atrofizzata nella politica delle quote, dei numeri fini a se stessi, rinunciando alla prospettiva di esserci, ma in modo “diverso”. Di costruire per tutte le donne un mondo migliore, non solo per quelle che stanno meglio, che hanno maggiori possibilità economiche o che si trovano già in posizioni lavorative apicali.
Anche le posizioni femministe attuali, contrarie al riconoscimento di altri diritti come la fluidità di genere o la maternità surrogata, semplicemente utilizzando il solo argomento difensivo, centrato sulle insidie che i diritti riconosciuti ad altri porterebbero a quelli femminili, sono sintomo di profonda debolezza.
Democrazia “di donne e di uomini” per le nostre Costituenti significava una partecipazione stabile e continua in tutti gli aspetti della vita pubblica, un qualcosa che le donne italiane, purtroppo, non sono riuscite, se non in minima parte, a realizzare. E così in tutto il mondo e anche in società, come quella statunitense, dove pure si sono ottenuti tantissimi progressi, ma dove le statistiche parlano chiaramente di donne sole, abbandonate, povere, le più sofferenti nella scala sociale.
In conclusione, anche le nostre discussioni fra accademici (e accademiche) sulla sentenza “Dobbs” sono emblematiche di questo momento storico.
La strumentalizzazione politica del caso “Dobbs” negli Stati Uniti e i suoi echi in Italia, dove “Dobbs” si trasforma in un’occasione per ragionare del rapporto tra Corte e legislatore, mi sembra espressione e conferma, purtroppo, di una totale debolezza di un punto di vista femminile, anche nella prospettiva del diritto costituzionale.
Afferma il giudice Kavanaugh, che la decisione “Dobbs” non attiene a un giudizio morale sull’aborto, ma semplicemente si riferisce a ciò che sta o non sta nella Costituzione. Dal momento che è il Giudice costituzionale a stabilire ciò che sta o non sta nel perimetro dei valori costituzionali, possiamo allora osservare che, nel 1973, l’aborto “stava” nella Costituzione, perché la società esprimeva un’esigenza insopprimibile riconosciuta nella decisione “Roe”. Oggi, invece, “Dobbs” lascia al dibattito pubblico e alle scelte politiche tale bilanciamento.
Credo, infine, che in “Dobbs” si esprima un principio “storico”, che oggi sento fortemente e, cioè, che l’aborto, ma soprattutto il principio di autodeterminazione della donna, non sia un qualcosa di scontato, ma che le donne riprendano uno spazio politico per ribadire i loro diritti.
Sotto questo profilo, il recente risultato del referendum nello Stato conservatore del Kansas costituisce un segnale indubbiamente positivo.
“Dobbs” diventa, allora, una sfida anche per la democrazia italiana, ultimamente così povera di battaglie femminili e così bisognosa di costruire, dal punto di vista sociale, politico e anche costituzionale, un punto di vista “femminile”.