di Chiara Valentini
La sentenza della Corte Suprema sul caso Dobbs stabilisce uno stretto, quanto complesso, rapporto tra originalismo e Costituzione. Vorrei evidenziarne due aspetti che credo siano particolarmente rilevanti.
In primo luogo, si tratta di un rapporto che prende forma su (almeno) due livelli argomentativi: un livello riguardante la lettura del XIV Emendamento; ed un livello concernente la giustificazione di tale lettura e del suo impatto sulla giurisprudenza della Corte. In secondo luogo, il nesso tra questi due livelli è stabilito da una visione politica dell’ordinamento costituzionale, che fa da sfondo alle scelte interpretative della Corte e le orienta.
Per quanto concerne il primo aspetto, il rapporto tra originalismo e Costituzione si pone innanzitutto sul livello interpretativo, ove la Corte legge il XIV Emendamento in senso restrittivo dichiarando che la clausola del giusto procedimento non appresta tutela implicita al diritto all’aborto. Questa interpretazione secondo la Corte è corretta in quanto fedele al significato originario del XIV Emendamento e alla tradizione costituzionale dell’ordinamento federale. Su queste basi, la Corte dichiara erronea ed illegittima l’interpretazione evolutiva del XIV Emendamento data nella sentenza sul caso Roe e abbandona la dottrina giurisprudenziale fondata su essa.
Ad un livello ulteriore, meta-interpretativo, il rapporto tra Costituzione ed originalismo assume un respiro ‘politico’. La Corte giustifica la propria lettura del XIV Emendamento facendo leva sull’esigenza di non uscire dal tracciato della volontà del popolo sovrano, cioè l’unico soggetto legittimato a compiere, attraverso i costituenti che lo rappresentano, le scelte fondamentali per la vita dell’ordinamento. In questo senso, il significato originario della Costituzione è il solo significato corretto: quello che la Costituzione ha acquisito nel momento in cui ha assorbito, e ‘fissato’, la volontà popolare nel testo delle sue disposizioni. Prende forma cosi una politica dell’originalismo che usa (anche) il metodo interpretativo per soddisfare parametri di legittimità stabiliti da una visione d’insieme, dell’ordinamento e dei rapporti tra istituzioni di governo ed organi di giustizia costituzionale.
Questo sovrapporsi di livelli, del resto, caratterizza l’argomentazione volta a giustificare gli esiti dell’interpretazione giuridica (Wroblewski). L’interprete, in primo luogo, offre la propria lettura di una disposizione usando argomenti che fanno leva su alcuni elementi della disposizione (il significato letterale, l’intento dell’autore, il nesso con altre disposizioni, e cosi via) per sostenere che gli elementi prescelti – e non altri – consentono di identificarne il significato corretto. In secondo luogo, giustifica la propria opzione in favore di quegli elementi alla luce di una più ampia visione dell’ordinamento e dei parametri di legittimità che esso stabilisce per l’attività interpretativa.
In Dobbs, il nesso tra questi due livelli dell’argomentazione prende forma a partire da importanti passaggi del parere di maggioranza che riguardano la natura della Costituzione; il principio della separazione dei poteri; il ruolo delle istituzioni politiche rappresentative; il rapporto tra processi politici e giudiziali; la rilevanza della tradizione costituzionale. Questi passaggi, seppur in modo frammentario, credo facciano emergere la visione politica
che guida e fonda le scelte interpretative della Corte: la Costituzione ‘documenta’ e preserva un patto popolare originario che costituisce l’unico fondamento legittimo dell’ordinamento. L’applicazione giudiziale della Costituzione deve attuare quel patto, aderendo al significato dato ad essa dai suoi autori: lo scopo è preservarlo, finché non intervenga un nuovo patto che lo modifichi o si sostituisca ad esso per volontà di costituenti che rappresentino il popolo sovrano.
Questo è un secondo aspetto estremamente rilevante del rapporto tra originalismo e Costituzione stabilito nel caso Dobbs: il primo è strumentale ad un disegno che credo possa dirsi di stampo “conservatore” (Caruso). Se è vero infatti che l’originalismo, in alcune sue declinazioni, può servire disegni dal diverso tenore (Vanoni, Chessa), è pur vero che nel caso Dobbs esso è strumento di una visione che punta a ripristinare e ‘conservare’ aspetti del patto costituente e della tradizione costituzionale superabili – e in parte superati – dall’evoluzione dell’ordinamento. Nel caso Dobbs, infatti, l’interpretazione originalista va oltre il dato semantico – concernente il significato pubblico originario delle parole usate dai costituenti o ciò che i costituenti intendevano dire con tali parole – per sconfinare in un “originalismo delle aspettative” che fa leva su ciò che i costituenti si aspettavano di ottenere e realizzare con le parole usate (Dworkin). E queste aspettative, ci dice la Corte, non erano di progressiva estensione della sfera di tutela del XIV Emendamento alle garanzie, implicite, che l’evoluzione dell’ordinamento avrebbe consentito di individuare. Al contrario, i costituenti si aspettavano di preservare l’ambito di tutela esplicitamente offerto, per delegare alla sfera politica eventuali modifiche o aggiornamenti. Mi sembra che questo originalismo, quindi, ammetta margini di ‘costruzione’ intorno al nucleo di significato originario, ma non in senso evolutivo (c.d. living constitutionalism; Camerlengo): è usato in ottica conservatrice, per inibire l’aggiornamento del dato costituzionale. Il parere di maggioranza in Dobbs legge il dato costituzionale per restaurare un ordine delle libertà che la sentenza Roe avrebbe erroneamente modificato (Dobbs pp.43-45). Per questa via, la Corte vuole restituire agli organi politici dei singoli Stati il potere originario di decidere come articolare quell’ordine e se ricomprendervi, o meno, il diritto all’aborto (Dobbs pp. 9, 12). Questa ‘operazione’, lungi dall’essere neutrale come sostiene il parere del Giudice Kavanaugh (Zanon), esprime e attua una scelta politica: ponendo un’istanza di tutela fuori dalla Costituzione, essa interrompe il corso di una protezione giuridica che andava assumendo contorni sempre più definiti. L’interpretazione originalista cosi non cambia soltanto i termini in cui la Corte legge il XIV Emendamento, ma anche quelli in cui l’esigenza di interrompere una gravidanza può essere garantita e perfino discussa nella sfera pubblica. I cittadini, le corti, gli organi politici, non possono più usare il linguaggio dei diritti costituzionali. La Corte, in particolare, non valuta più gli interventi istituzionali che riguardano quell’esigenza con il rigore che usa quando è in gioco un diritto costituzionale, ma si limita ad una rational basis review, la tipologia di scrutinio meno esigente (Dobbs pp. 77-78). Ciò riduce l’incisività e la portata del sindacato della Corte e, con esse, lo spettro delle ragioni che può prendere in considerazione e mettere in circolo.
Ridimensionare l’azione giudiziale in questi termini non è cosa di poco conto perché, nelle democrazie costituzionali mature, essa può dare un contributo importante al confronto su questioni controverse e divisive. Per un verso, le Corti possono dar voce a istanze che spesso nel processo politico sono prive di visibilità perché minoritarie o facenti leva su esigenze che quel processo non può o non deve esprimere. Tipicamente, esso punta ad una sintesi rappresentativa di interessi e preferenze emergenti in una comunità politica, mentre il processo giurisdizionale deve valutare se, e in quali termini, delle istanze di tutela giuridica possano essere accolte. Come noto, ciò richiede imparzialità nel giudizio e tensione verso soluzioni giustificate da ragioni che, seppur non condivise dalla maggioranza di una comunità politica, siano accettabili alla luce delle esigenze normative che riguardano quella comunità nel suo complesso, dunque anche le minoranze e ciascun individuo (Dworkin). Per altro verso, le Corti espongono queste ragioni in termini diversi rispetto a quelli usati nei fori della politica democratica, giacché con le loro sentenze sono chiamate a chiarire se, e come, possano trovare un riscontro pratico in casi specifici, fornendo coordinate giudiziali che gradualmente stabiliscono dei ‘punti fermi’ (Sunstein).
Le Corti, insomma, possono dare il ‘proprio’ contributo alla discussione su questioni fondamentali e divisive costruendo nel tempo una narrativa giurisprudenziale con cui il processo politico è chiamato a misurarsi, per condividerla o superarla (Friedman). Questa narrativa, da Roe in poi, aveva dato voce all’esigenza delle donne di interrompere una gravidanza. L’abbandono di questa narrativa da parte della Corte, oggi, impoverisce il dibattito pubblico sull’aborto oscurando le ragioni individuali a favore di quelle che, su base maggioritaria, riescono ad aggregarsi ed imporsi nel processo politico.
Le donne, è vero, possono partecipare a questo processo (D’Amico) e puntare a costruire delle maggioranze che portino avanti le istanze più condivise tra loro. Il punto, però, è che la rivendicazione del diritto a interrompere una gravidanza è una rivendicazione della donna come individuo. In quanto tale, essa non trova la propria legittimazione nel numero di consensi, e voti, che si esprimono in suo favore, ma nell’accettabilità delle ragioni usate per giustificarla in un ordinamento che non è soltanto democratico, ma anche liberale. Un ordinamento, quindi, chiamato a un pluralismo ragionevole: a tenere insieme uno spettro di ragioni ‘pubbliche’ (Rawls) quanto più inclusivo possibile, gestendo eventuali disaccordi su questioni fondamentali con strumenti politici e giuridici, tra loro complementari.
In quest’ottica Rawls ha reso esplicito ciò che, sul terreno dell’aborto, si esige in una democrazia costituzionale: un confronto in più fori – giudiziali e politici – che sia teso al bilanciamento tra i diversi valori rilevanti rispetto all’interruzione di gravidanza in una società liberale (“due respect for human life, the ordered reproduction of political society over time, the equality of women as equal citizens”). La ragionevolezza di questo bilanciamento dipende dall’accettabilità dei suoi esiti secondo un criterio di reciprocità argomentativa: le ragioni per cui un soggetto lo giustifica devono poter essere accettate, seppur non condivise, dai suoi interlocutori nella sfera pubblica. Ciò accade se non si sacrifica del tutto nessuno dei valori fondamentali in gioco, ma si cerca di soddisfarli tutti nei limiti imposti dal soddisfacimento di valori confliggenti.
La ragion pubblica, in definitiva, richiede ai membri di una comunità politica di cercare sulle questioni più divisive un consenso per intersezione, rinunciando in parte a far valere le proprie ragioni per far spazio a tutte quelle che possono entrare, con esse, in un bilanciamento ragionevole. A tal fine, un ordinamento democratico e liberale affida le decisioni di governo alle maggioranze politiche, ma deve lasciare aperta la via della giustizia costituzionale contro gli eccessi di quelle maggioranze che possano sacrificare irragionevolmente l’interesse dell’individuo, fondamentale e primario, alla realizzazione dei suoi piani di vita. Con Dobbs, mi sembra che purtroppo la Corte abbia voluto precludere questa via alle donne, o comunque consentire loro di percorrerla solo fino ad un certo punto.