di Luca Pietro Vanoni
«I think that the word liberty in the Fourteenth Amendment is perverted when it is held to prevent the natural outcome of a dominant opinion, unless it can be said that a rational and fair man necessarily would admit that the statute proposed would infringe fundamental principles as they have been understood by the traditions of our people and our law».
Attraverso queste parole, contenute in una delle più note e discusse dissenting opinion della storia, Justice Holmes esprimeva tutto il proprio disappunto per la decisione assunta dai suoi colleghi nel famoso caso Lochner v. New York. Deciso nel 1905, Lochner poco ha a che fare con l’originalismo, o quanto meno con la sua moderna interpretazione sviluppatasi nelle università e nelle aule giudiziarie statunitensi solo a partire dagli anni ‘80. Né, certamente, si può rimproverare ad Holmes di essere un giurista conservatore, ancorato ad una interpretazione rigidamente testualista della Costituzione; lui che, al contrario, è comunemente indicato come uno dei padri del realismo giuridico. Eppure, già ad inizio secolo, il celebre giurista americano metteva in luce uno dei temi oggi più che mai al centro del dibattito costituzionale negli Stati uniti (e non solo). Come da lui stesso ricordato, infatti, la Costituzione «non è pensata per incarnare una particolare teoria economica, sia essa quella del paternalismo e del rapporto organico del cittadino con lo Stato sia essa quella del laissez fair». Muovendo da questo presupposto, diventa quindi fondamentale capire se e quanto la parola liberty possa essere artificialmente riempita di significati interpretativi utili, nello specifico caso, a supportare una teoria economica rispetto ad un’altra.
Più di cento anni dopo, tutti i giuristi concordano nel ritenere Lochner una decisione profondamente sbagliata ma, ricorda acutamente Chessa, non sempre per le medesime ragioni. Alcuni pensano, infatti, che erroneo sia «il giudizio di moralità politica» formulato dai giudici in quella occasione; altri, invece, che la vera scorrettezza risieda nel fatto che «i giudici della Corte suprema» abbiano formulato «un giudizio di moralità politica» (Chessa). La differenza non è di poco conto, e solleva una domanda che ancora oggi affligge gli studiosi del costituzionalismo. Quello che è certo, però, è che per gli originalisti la risposta è chiara: in Lochner come in Roe l’errore dei giudici supremi non è stato quello di aver abbracciato una certa soluzione ma, piuttosto, di aver «legislate from the bench».
Si comprende così perché il più rilevante contributo offerto dalla teoria dell’originalismo è quello di aver riportato al centro del dibattito americano il tema dei confini della giurisdizione (Pin). A seguito del New Deal, l’espansione del potere dei giudici ha assolto la funzione di inverare quella trasformazione informale della Costituzione che ha mutato la ripartizione liberale dei poteri. Il peso esercitato dalla Corte Suprema all’interno dell’ordinamento ha finito però per condizionare le modalità con cui il sistema stesso affronta i casi più divisivi; invece che provare a trovare soluzioni comuni all’interno di organi di rappresentanza, gli schieramenti politici hanno cinicamente utilizzato (e forse con la strategic litigation, abusato) il potere di judicial review per raggiungere i propri rispettivi obiettivi. La stessa Roe v. Wade è stata letta come una soluzione pragmatica volta ad accelerare un mutamento giuridico senza transitare per il procedimento legislativo (Posner); non è un mistero, del resto, che anche Justice Ginsburg, paladina dei diritti civili e della parità di genere, ha ritenuto la storica sentenza del 1973 «too far-reaching and too sweeping» dal momento che alterava il processo politico già in atto cristallizzando in un diritto costituzionale un dibattito che meritava forse di essere discusso e risolto altrove.
Sebbene dopo la presidenza Trump possa apparire più immediata una equivalenza tra originalismo e conservatorismo, rimane fuorviante – a parere di chi scrive – qualificare gli argomenti originalisti esclusivamente quali «stratagemmi retorico-persuasivi funzionali alla realizzazione di un attualissimo programma politico di stampo conservatore» (Caruso). Sostenere oggi questa teoria, sviluppatasi già a partire dal famoso discorso tenuto nel 1985 dall’Attorney General Reaganiano Edwin Meese (Post, Siegel), è quanto meno difficoltoso per almeno tre ordini di ragioni.
Innanzitutto, l’originalismo è soggetto ad una continua evoluzione tanto che, nel descriverne lo sviluppo storico, Lawrence Solum individua almeno tre macro-tipologie che si differenziano a seconda dei criteri che vengono impiegati per ricavare l’original meaning delle disposizioni. Senza inoltre considerare come le diverse sfumature di originalismo incidano anche sul modo in cui esso è utilizzato dai singoli giudici: significativa, in questo senso, è la differente lettura offerta da Scalia e Thomas della dottrina dello stare decisis. Pur criticata da entrambi, se per Scalia essa deve però comunque trovare spazio nelle argomentazioni giuridiche originaliste, poiché l’originalismo «cannot remake the world anew», secondo Thomas, invece, «quando si è in presenza di un precedente di cui è dimostrabile l’erroneità, la mia regola è semplice: non dovremmo considerarlo» (Gamble v. United States).
In secondo luogo, sono alcuni tra i più illustri giuristi liberal americani a smentire l’equivalenza tra originalismo e conservatorismo; su tutti il già menzionato Solum che, nell’appoggiare la candidatura di Gorsuch, ha rammentato ai senatori del Judiciary Committee che «l’originalismo potrebbe e dovrebbe essere abbracciato sia dai democratici che dai repubblicani, dai progressisti come dai conservatori». In modo non dissimile, Akhil Reed Amar ha recentemente chiarito che l’originalismo «non è né partigiano né stravagante», tanto che, a suo parere, il più illustre esponente della teoria non sarebbe Nino Scalia bensì Hugo Black, ovverosia «a towering liberal Democratic Senator-turned-Justice». Infine – ma l’elenco potrebbe essere ancora lungo – Jack Balkin ha suggerito di superare lo storico conflitto tra living constitutionalism e originalism, proponendo una lettura di quest’ultimo che ha come fine quello di fornire ai giudici una cornice di principi e regole (c.d. framework originalism) che lasciano però aperta la possibilità per le future generazioni «di costruire e realizzare la Costituzione-in-pratica». La teoria originalista patrocinata da Balkin si discosta da una accezione conservatrice per focalizzarsi su una interpretazione che, lungi dal «pietrificare ex auctoritate il senso della Costituzione» (Caruso), sembra in grado di abbracciare anche tesi in linea con il pensiero progressista.
Da ultimo, non mancano esempi di come, già oggi, l’originalismo sia riuscito ad ottenere risultati forse più graditi ai giudici liberal attraverso una lettura tradizionalmente più affine allo stile interpretativo dei giudici conservatori (Zanon). È il caso delle sentenze Bostock v. Clayton County e Nin-Chavez v. Garland, in cui Justice Gorsuch, facendo aggio su argomenti squisitamente testualisti, ha, rispettivamente, esteso il divieto di discriminazione tra sessi ai transgender e difeso i diritti di un immigrato irregolare. In particolare, in Nin-Chavez, svelando il rigore metodologico che orienta il suo lavoro, Gorsuch ha ancorato le proprie argomentazioni sulla lettura dell’articolo indeterminativo “a”. Per quanto possa sembrare singolare fondare l’intera decisione sul significato di un’unica parola, come ricordato dallo stesso giudice «words are how the law constrains power». È quindi ai poteri, e non solo ai diritti, che i giudici originalisti volgono lo sguardo quando sono chiamati ad interpretare la legge.
Ciò non significa che l’originalismo come teoria interpretativa della Costituzione sia infallibile o esente da critiche. Il più grande studioso italiano dell’ordinamento americano, Giovanni Bognetti, sosteneva che «la regola metodologica, meccanica, del dovere di interpretazione-applicazione secondo gli “intendimenti originari” (…) è una regola occultatrice che non pare conveniente accogliere e mettere in pratica». Anche perché, gli fa eco Chessa, «quando sono in gioco termini costituzionali valutativi, nessuna ricerca storico-empirica può assicurare la certezza e l’univocità dell’attribuzione di significato».
A maggior ragione, ugualmente criticabili possono essere le decisioni dell’attuale term. Nota, e riportata dallo stesso Caruso, è la critica di Amar alla lettura del II emendamento che, in realtà, prima ancor che contrapporsi a NYSRPA v. Bruen metterebbe in crisi la stessa ricostruzione storica svolta da Scalia nel caso Heller. Allo stesso tempo, giuristi indubbiamente a favore del diritto di aborto hanno riconosciuto (proprio come Alito in Dobbs) l’erroneo legame artificialmente elaborato nel 1973 tra l’interruzione di gravidanza e il binomio liberty-privacy (Sustein, Siegel, Ely), senza che questo abbia però impedito loro di fondare tale diritto sul principio della uguaglianza tra sessi, o di ancorarne il riconoscimento nell’original meaning nel XIV emendamento (Balkin). Al di là delle diverse opinioni, quindi, non si può non riconoscere che i casi Roe e Casey hanno di fatto prodotto una lacerazione del tessuto democratico-costituzionale non solo in forza di ciò che si è deciso, ma anche per come lo si è fatto (Baraggia). Ciò costringe l’interprete a volgere lo sguardo sulla modalità con cui i sistemi costituzionali, ognuno nella sua particolare modalità storica, inverano e realizzano lo scopo delle Costituzioni, che devono certamente «durare per unire» (Caruso) ma sono anche «made for people of fundamentally differing views» (Holmes). In altri termini, soprattutto quando in gioco ci sono tematiche divisive, occorre riflettere sul come decidere, ma anche su chi sia legittimato a farlo (Zanon).
Si potrebbe allora dire che l’originalismo possa essere utile per provare a correggere una sorta di presbiopia costituzionale che, nello sforzo di mettere a fuoco l’universalità dei diritti, ha finito per perdere di vista i confini dei poteri. Spostando dal piano dei poteri a quello dei diritti il luogo di risoluzione dei conflitti, infatti, il costituzionalismo ha privilegiato un approccio prevalentemente dialettico che – attraverso le sentenze delle Corti – stabilisce la supremazia di un’opzione sulle altre a discapito di una ricomposizione dialogica del disaccordo in cui – nello scontro democratico tra poteri – diverse posizioni possono provare a coesistere all’interno di una cornice comune. Mentre infatti il compito dei giudici è quello di porre fine al dibattito decidendo il torto e la ragione, un sistema costituzionale che non trascuri la divisione verticale ed orizzontale dei poteri «non è pensato per concludere il dibattito» quanto piuttosto «per avviare il dibattito, costringendo i poteri politici in lotta tra loro a riportare le questioni controverse alla comunità». (Kramer).
Nel commentare il deprecabile leak del draft di Alito lo scorso maggio, Amar ricordava che «I am a Democrat who supports abortion rights but opposes Roe» perchè «the Court’s ruling was simply not grounded either in what the Constitution says or in the long-standing, widely embraced mores and practices of the country. Perhaps I’m wrong in thinking that, and perhaps the Dobbs draft is wrong too. But there is nothing radical, illegitimate or improperly political in what Justice Alito has written».