di Nicolò Zanon
1.La concurring opinion di Justice Kavanaugh in Dobbs fornisce qualche ulteriore elemento alla discussione aperta dalla Lettera AIC su originalismo e recenti sentenze della Corte suprema USA.
Per vero, l’opinion di Kavanaugh è maggiormente incentrata sul testualismo nell’interpretazione della Costituzione, da un lato, e, dall’altro, sulla separazione tra sfera di intervento della giurisdizione e ambito nel quale può e deve esprimersi il processo politico-democratico. Ma, proprio per questo, contribuisce a mettere maggiormente in prospettiva costituzionale gli assunti contenuti nell’opinion di Alito, essenzialmente basati sulla ricostruzione storico-normativa del trattamento riservato in USA all’interruzione della gravidanza, e indirizzati a dimostrare la necessità di operare un overruling di Roe.
Il tema al cospetto della Corte in Dobbs, afferma dunque Kavanaugh, non è la “moralità” dell’aborto, ma ciò che la Costituzione afferma in materia. Per intendersi, non si è in presenza di una sentenza “confessionale”, che condanna in sé, per qualche ragione filosofica o religiosa, l’interruzione della gravidanza, ma di una pronuncia che intende distinguere tra ciò che appartiene alla Costituzione e ciò che le è estraneo. Sia i sostenitori del diritto della donna alla libertà di scegliere l’aborto, che i difensori del diritto alla vita del nascituro – riconosce Kavanaugh – hanno le proprie ottime ragioni. Ma ciò fa parte di un dibattito rispetto al quale il testo costituzionale non ha preso posizione. In aderenza alla opinion di Alito, egli sottolinea, in particolare, che il due process of law di cui al XIV° emendamento, in quanto garanzia procedimentale, non può diventare contenitore di alcuna garanzia sostanziale, che si tratti della privacy della donna o di un generale diritto di abortire. Ciò contribuisce a rendere egregiously wrong il precedente di Roe.
La Costituzione è perciò neutra sull’aborto, non è né pro-life, né pro-choice: essa, invece, lascia che la questione sia affrontata attraverso il democratic process negli Stati o nel Congresso, al pari di ogni altra delicata issue non direttamente decisa dal testo costituzionale.
Se la Costituzione è neutra, deve esserlo anche la Corte suprema. I nove “unelected members” della Corte non possiedono la legittimazione costituzionale per scavalcare (override) il “processo democratico” e per imporre a 330 milioni di americani una policy pro-life, oppure pro-choice, in materia di aborto: la Costituzione non attribuisce loro l’unilaterale autorità di creare nuovi diritti e libertà, fondati non già sul testo costituzionale, bensì su convinzioni morali o politiche del tutto soggettive.
In definitiva, non è vero – come invece molti hanno inteso – che la decisione della Corte in Dobbs ha posto l’aborto fuori legge. Essa ha “solo” restituito la decisione ai rappresentanti eletti dei singoli Stati. Attraverso il “processo democratico”, le rappresentanze degli Stati potranno consentirlo o limitarlo, secondo scelte di bilanciamento tra interessi che appartengono tipicamente (bisognerà tornare subito sul punto) alla valutazione politica. Come aveva scritto Scalia in Casey (in una opinion in parte concurring e in parte dissenting), «State may, if they wish, permit abortion on demand, but the Constitution does not require them to do so».
2. Tutto ciò posto, si aprono questioni di ampio respiro, che mostrano tutta la vastità dell’oceano che separa Europa e Stati Uniti.
Se esiste un aspetto che attualmente distingue l’approccio delle Corti supreme e costituzionali europee rispetto a quello della Supreme Court statunitense, essa, mi pare, consiste in ciò; mentre le prime scorgono nel bilanciamento tra principi (anche vagamente) desumibili dai testi costituzionali la cifra essenziale del loro intervento, la seconda, forte della propria nuova maggioranza, si è invece data alla ricerca degli stretti confini della materia costituzionale, che si esaurirebbe nel suo testo (su ciò, criticamente, Caruso nella Lettera iniziale). Soprattutto, per la Corte suprema di oggi, i confini del testo sono anche i confini dell’intervento giurisdizionale possibile e lecito (come ricorda Vanoni). Mentre le prime, dunque, “armeggiano” con i testi costituzionali (e legislativi) e costruiscono ex novo equilibri tra diritti e interessi, “ricavando” dalle Costituzioni soluzioni che queste, per vero, non parrebbero (almeno prima facie) contenere, la seconda decide di arrestarsi dove il testo costituzionalmente è formalmente muto o non argomenta nulla di essenziale. E dove deve tacere la Corte, può parlare la politica.
Roe e Casey erano molto più vicine all’approccio europeo, se così può dirsi. Avevano affermato che il diritto di abortire costituirebbe parte di un più ampio diritto della donna, che Roe definisce privacy, e Casey descrive quale libertà di compiere scelte intime e personali, funzionali alla dignità e all’autonomia della persona. Queste libertà, “ricavate” dalla Costituzione, hanno definito i confini invalicabili entro i quali dovrebbero muoversi i confliggenti interessi in materia di aborto: da un lato, l’interesse della donna che intende abortire, dall’altro, quello del singolo Stato che intende proteggere una “potential life” o la condizione di un “unborn human being”. Ora, invece, Dobbs sostiene risolutamente che i singoli Stati possono liberamente bilanciare questi interessi, proprio perché la Costituzione, in materia, è neutrale.
Ed anzi, più in generale, quando sia incerto ciò che la Costituzione vuole su una determinata questione, o quando si possa dire che essa nulla dice in materia, le scelte in tema di bilanciamento tra i confliggenti interessi – che l’approccio “europeo“ tende comunque ad attrarre alla sfera d’intervento del giudice supremo o costituzionale – secondo la dottrina che ora sembra prevalere tra i Justices appartengono invece alla politica democraticamente legittimata, non già ai nine unelected members of the Court…
Si potranno avere opposte opinioni su questa differenza, ma essa è davvero notevole. Aggiungo una piccola, ma significativa, testimonianza (che non credo sveli nulla di riservato). In una discussione in camera di consiglio mi è capitato una volta di richiamare all’attenzione dei colleghi ciò che afferma l’art. 28 della legge n. 87 del 1953 (“il controllo di legittimità costituzionale su una legge o su un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento”). La reazione, in sostanza, è stata paragonabile a quella di chi si trova improvvisamente al cospetto di un relitto consumato dalle onde del mare, cui può riservarsi una compunta curiosità….
3. Residuano, ovviamente, problemi vari.
Scrive Kavanaugh che, dopo Dobbs, i singoli Stati possono dunque liberamente bilanciare i “competing interests” in materia di aborto. Non manca, però, di rimarcare, richiamando (in una nota!) il dissent di Rehnquist in Roe, che l’eventuale divieto di aborto (che una legislazione statale ben potrebbe introdurre) dovrebbe soffrire una eccezione costituzionalmente necessaria, quando l’aborto sia necessario per salvare la vita della donna. Potrebbe allora facilmente osservare il giurista europeo: da questa parte dell’oceano lo si sapeva già, si tratta proprio di uno dei frutti (minimali!) del bilanciamento fra principi e diritti operato dalle valutazioni delle Corti...
Come si vede, nell’ampia libertà valutativa delle rappresentanze statali in tema di aborto, nuova cifra della dottrina della Corte, il vincolo costituzionale, mediato dall’operato del giudice supremo, non manca di insinuarsi comunque, e ciò merita una riflessione.
Altro formidabile problema: è possibile “mettere ai voti”, cioè condizionare al consenso delle maggioranze, la scelta della singola donna di abortire? Il presupposto teorico che ciò sia possibile perché non si ha a che fare con un diritto costituzionale (perché non riconosciuto nel testo, né radicato nella storia e nelle tradizioni nazionali) deve confrontarsi con convinzioni assai diffuse dalle nostre parti: quella per cui il costituzionalismo moderno/contemporaneo serve anche e soprattutto a proteggere i diritti del singolo, cioè della più piccola minoranza immaginabile, contro lo strapotere della maggioranza; oppure quella che sottolinea come una scelta che non si condivide, e che non si farebbe, non per ciò solo potrebbe legittimamente impedirsi ad altri.
Ebbene: sono, queste ultime, convinzioni valide solo sul terreno moral-filosofico, ma costituzionalmente ineffettuali, inutili a smontare il paradigma della libertà di valutazione politica (delle rappresentanze statali) in un ambito costituzionalmente neutrale? Immagino che la Corte suprema di oggi risponderebbe di sì.
Riportando il discorso proprio sul terreno del “democratic process”, il testualista-originalista potrebbe anzi osservare che proprio le donne, votando, potrebbero eleggere rappresentanze pro-choice, e che esse sono oggi, numericamente, in maggioranza tra gli elettori.
Non saprei dire se sia un argomento forte, o, al contrario, del tutto elementare e “primitivo”. Ma, in fin dei conti, quando il Presidente Biden ha invitato gli elettori americani a reagire “contro” Dobbs, e a votare in massa tenendo a mente questa sentenza, ha in realtà esattamente accettato il terreno che Dobbs ha indicato.