di Chiara Bologna
Alla base della decisione assunta dalla maggioranza nel caso Dobbs vi è, come ben illustrato da Corrado Caruso, la lettura originalista del XIV emendamento, in passato considerato dalla Corte suprema idoneo, attraverso la due process clause, a garantire libertà non espressamente enumerate qualora fossero «profondamente radicate nella storia e tradizione del Paese» ed «essenziali nello schema di ordinata libertà». È nell’applicazione di tali criteri che emerge l’approccio fortemente originalista della maggioranza della Corte, che ritiene di doverli verificare ripercorrendo secoli di storia giuridica non dei soli Stati Uniti, ma più in generale del common law per dimostrare l’eventuale presenza (o meglio l’inevitabile assenza) del diritto all’interruzione di gravidanza. L’esito del reasoning conduce la Corte a denunciare l’abuse of judicial authority realizzato dai giudici supremi che, con la decisione Roe v. Wade, invasero nel 1973 la sfera del potere legislativo «interrompendo un processo politico» che stava gradualmente, nel rispetto della volontà del popolo e dei suoi rappresentanti, conducendo all’approvazione di leggi statali che riconoscevano e disciplinavano il diritto all’interruzione di gravidanza.
Esaminando i problemi dell’interpretazione costituzionale, Riccardo Guastini scrive che la loro analisi mostra come essi siano non “propriamente problemi di interpretazione”, ma “piuttosto problemi dogmatici”. La fondatezza di tale affermazione è evidente tanto nel dibattito sorto sul sito dell’Associazione quanto nella dottrina statunitense, che da più di cinquant’anni pone la questione dell’interpretazione costituzionale al centro della sua riflessione.
Ad accendere il dibattito dottrinale, negli anni Sessanta del secolo scorso, fu la reazione di studiosi, conservatori e non, all’attivismo della Corte suprema guidata dal Presidente Warren, Corte che non solo con la decisione Brown sulla desegregazione razziale nelle scuole avviò un nuovo momento costituzionale, ma che rivoluzionò l’efficacia del catalogo costituzionale dei diritti. Tramite la dottrina dell’incorporation, infatti, il Bill of Rights federale venne ritenuto vincolante non più per la sola legislazione di Washington, ma anche per quella di ciascuno Stato, realizzando il progetto di Warren che, al momento della sua nomina, aveva dichiarato che la Carta dei diritti federale, dopo la sua presidenza alla Corte, «non avrebbe avuto lo stesso significato che aveva al momento in cui la ricevettero dai loro padri».
È in questo contesto che Bickel invoca la difficoltà contro-maggioritaria nel celebre volume The Least Dangerous Branch e Berger, rievocando Le gouvernement des juges di Lambert, pubblica il testo Government by Judiciary, sostenendo la necessità di una lettura originalista della costituzione. L’originalismo si propone infatti come antidoto alla giuristocrazia: interpretare la costituzione secondo l’intenzione dei costituenti (intentionalism) o meglio secondo il significato che una qualunque “persona ragionevole” avrebbe attribuito al testo costituzionale al momento della sua adozione (new originalism) impedisce, come spiega Scalia, il vulnus del principio democratico, evitando che il giudice costituzionale si sostituisca ai rappresentanti del popolo nell’attuazione della Costituzione (Pedrini).
Il tema non è nuovo nel dibattito americano e trova anzi nelle radici della storia costituzionale di quel Paese le sue coordinate fondamentali. Uno degli elementi che dividevano politicamente i federalisti guidati da Hamilton dal partito democratico-repubblicano guidato da Jefferson era proprio il ruolo del potere giudiziario, rispetto al potere politico, nell’attività di interpretazione della costituzione. Jefferson scriveva che «considerare i giudici come gli arbitri ultimi delle questioni costituzionali» è «una dottrina molto pericolosa», che espone «al dispotismo di una oligarchia» e che dunque ogni potere ha pari diritto di decidere autonomamente quale sia il significato della costituzione nei casi sottoposti alla sua azione; specialmente quando deve agire in maniera definitiva e senza appello». Jefferson appare dunque un sostenitore (ante litteram) del departmentalism, una delle tesi centrali del Popular Constitutionalism, che oggi, in polemica con il Legal Constitutionalism, contesta l’eccessiva giuridificazione della vita costituzionale, rifiuta la supremazia della Corte suprema nell’interpretazione della costituzione, ritenendo che ognuno dei tre poteri della federazione abbia un’autorità indipendente nell’interpretare la carta fondamentale.
È il principio della sovranità popolare, dunque, unito a quello della separazione dei poteri, a costituire il fondamento teorico dell’interpretazione originalista della costituzione, che è -prima di tutto- una teoria sulla funzione della giustizia costituzionale, che deve avere un ruolo non creativo di nuove norme e nuovi diritti, la cui definizione spetta invece al legislatore. Se per il Popular Constitutionalism e per lo stesso Scalia i diritti non costituzionalizzati restano quindi in toto nella disponibilità del legislatore, è proprio nel pensiero di Thomas Jefferson che troviamo invece la principale contro-argomentazione degli anti-originalisti. Se infatti Jefferson, influenzato da Rousseau, considerava il popolo idoneo più di chiunque altro a tutelare tramite la legge i diritti dei cittadini, egli riteneva al contempo che la tutela dei diritti dovesse rappresentare per il potere legislativo anche un limite, poiché, come nel pensiero di John Locke (che più di tutti lo aveva influenzato), i diritti naturali dovevano essere indisponibili dalla maggioranza. Il fil rouge delle tante teorie anti-originaliste è dunque sì il rifiuto di una lettura della costituzione pietrificata al tempo della sua adozione, ma è soprattutto la necessità che il giudice costituzionale svolga un ruolo diverso, un ruolo di difesa dei diritti degli individui e delle minoranze anche quando la costituzione non li protegga esplicitamente.
Agli anti-originalisti non sfugge il tema della difficoltà contro-maggioritaria e infatti, nella maggior parte dei casi, rifuggono da teorie dell’interpretazione che, come il dworkinismo, assegnano un ruolo eccessivamente normogenetico al giudice costituzionale (Tribe e Dorf).
La maggioranza del caso Dobbs opera tuttavia sul punto, secondo i giudici dissenzienti, una semplificazione mistificante, indicando come uniche teorie interpretative possibili l’originalismo democratico e il contrapposto anti-originalismo oligarchico: il primo attento ai confini della giurisdizione e rispettoso della volontà popolare, il secondo intento a realizzare le priorità etiche e politiche dei giudici costituzionali. L’originalismo invece, come sottolinea la minoranza, non esclude una discrezionalità dell’interprete nell’individuare il significato originario del testo costituzionale (Vanoni) e non necessariamente conduce alla judicial modesty. Nel caso Dobbs, ad esempio, la maggioranza della Corte non si trova dinanzi a un nuovo diritto, ad un nodo etico che l’ordinamento non ha ancora sciolto e che i giudici decidono di lasciare alla decisione dei rappresentanti del popolo; la Corte suprema si trova invece dinanzi ad un’istanza riconosciuta ormai da mezzo secolo, un’istanza che i giudici decidono di tornare a porre completamente al di fuori della costituzione (Valentini; M. D’Amico), con un overruling non strettamente necessario a decidere il caso concreto e criticato dallo stesso Chief Justice Roberts.
La principale mistificazione svolta dalla maggioranza è tuttavia, secondo i dissenzienti, quella di indicare l’anti-originalismo come una teoria interpretativa arresa alle “ardenti opinioni dei giudici circa la libertà di cui i cittadini dovrebbero godere”: esiste invece, scrive la minoranza, una terza via, quella di ritenere che la libertà e l’eguaglianza “possano evolvere rimanendo radicate nei principi costituzionali, nella storia costituzionale e nei precedenti della Corte stessa”.
Nelle parole della minoranza si sente l’eco delle argomentazioni di Ackerman (secondo il quale ogni regime costituzionale è definito dal constitutional canon composto dal testo costituzionale ma anche dalle principali decisioni della Corte suprema e dalle leggi con cui il popolo fissa «pietre miliari») o del già citato Balkin che propone un Living Originalism, adottando il criterio del “testo e principio” secondo il quale l’interprete deve sì essere fedele al significato originale del testo e ai principi sottesi ad esso, ma senza dimenticare che ogni generazione ha l’obbligo di “implementare il testo e i principi nel suo tempo, costruendo istituzioni, approvando leggi, creando precedenti giudiziari e non”. Teorie non lontane da quanto suggerito da Augusto Barbera, secondo cui il testo costituzionale va letto alla luce del più ampio ordinamento costituzionale che include, oltre alla costituzione stessa, il “contesto normativo” (il complesso degli altri testi normativi, spesso non formalmente costituzionali, che ad essa si collegano strettamente) e l’“ordine costituzionale”, vale a dire il contesto politico-sociale e politico-culturale entro cui si produce il riconoscimento dei principi costituzionali fondamentali.
È possibile allora ritenere, si chiedono i giudici di minoranza, che l’interruzione di gravidanza esuli completamente, nel 2022, dalle garanzie che il giudice costituzionale deve riconoscere alle donne contro le maggioranze legislative degli Stati? Una costituzione che sia liberale oltre che democratica può permettere al parlamento di ciascuno Stato di controllare fin dal primo istante della gravidanza “il corpo di una donna e l’intero corso della sua vita” qualunque siano le sue condizioni psichiche, fisiche, economiche, familiari e sociali?
È contro le maggioranze legislative degli Stati che la Corte suprema ha garantito in passato anche il diritto alla contraccezione e quello a relazioni omosessuali, penalmente punite in alcuni Stati del sud fino al 2003. La Corte suprema ha ritenuto infatti che tali garanzie, anche se non previste esplicitamente in costituzione dai delegati di Filadelfia, proteggessero “la libertà da un governo che controlla ogni scelta privata” (Dobbs, dissenting). Una lettura, dunque, non chiusa dei diritti costituzionali che sembra avvicinarsi a quella che la nostra Corte costituzionale ha sostenuto sin dal 1987, quando riconoscendo il diritto alla libertà sessuale ritenne maturi i tempi, come sottolineò il Presidente Saja nella relazione annuale, per accettare “un elenco aperto” dei diritti costituzionali che utilizzasse gli “strumenti dell’interpretazione storico-evolutiva”.
La scelta per un’interpretazione evolutiva della costituzione guidata dai principi fondamentali (Camerlengo), secondo un originalismo moderato (Chessa), prova dunque ad ancorare il giudice costituzionale a parametri diversi dalla sua morale, ma lascia inevitabilmente aperta una questione centrale del costituzionalismo contemporaneo: il self-restraint che il giudice deve applicare quando rischia di assumere decisioni di natura politica sindacando il potere discrezionale del Parlamento, come ricorda il rievocato art. 28 della l. n. 87/1953 (Zanon). Il passaggio dalla ragionevolezza “a rime obbligate” alla proporzionalità “a rime libere”, il rischio di trasformare in “diritto fondamentale qualsiasi pretesa individuale che il costituzionalismo dei bisogni consegni alla custodia del giudice costituzionale” (Morrone) ci ricordano l’importanza di una riflessione permanente sui limiti della giustizia costituzionale. Se il costituzionalismo europeo (continentale) è inesorabilmente plasmato dall’idea kelseniana secondo cui “ogni conflitto che venga qualificato come conflitto di interessi, di potere o politico può essere deciso come controversia giuridica”, la cultura costituzionale statunitense considera centrale, fin dalle sue origini, il We the People e non può non interrogarsi, come fa anche la dottrina favorevole alla Living Constitution, sui limiti che il judicial review deve avere per rispettare il principio democratico (vedi il dibattito sorto dopo il caso Obergefell che ha riconosciuto il diritto costituzionale al matrimonio omosessuale).
Nella famosa nota 4 del caso Carolene Products, la Corte suprema nel 1938, appena divenuta indulgente nel confronti del New Deal dopo il braccio di ferro con il Presidente Roosevelt, spiegherà che rispetto alle decisioni di natura economica, adottate dai poteri dotati di legittimazione democratica, la Corte deve osservare il massimo self-restraint, riservando uno scrutino più stretto ai casi in cui la legislazione a) violi manifestamente un diritto indicato in costituzione; b) escluda i cittadini dal processo politico; 3) porti un pregiudizio verso determinate minoranze.
Sono posizioni in parte analoghe a quelle espresse da Jesse Choper nel volume Judicial Review and the National Political Process, pubblicato nel 1980. In quello scritto lo studioso sosterrà l’opportunità che la Corte suprema si sottragga ove possibile al compito di dirimere questioni tra governmental actors (inclusi i rapporti tra federazione e stati), in cui gli interessi costituzionali coinvolti sono già rappresentati nell’arena politica. E questo non solo per rispettare il principio democratico o la separazione dei poteri, ma per utilizzare con oculatezza il patrimonio di legittimazione di cui il giudice costituzionale gode, patrimonio che rischia di impoverirsi quando la Corte suprema sia costretta a svolgere un ruolo arbitrale tra soggetti istituzionali. Tale patrimonio deve invece, secondo Choper, essere utilizzato prevalentemente per difendere individui e minoranze che non riescano a trovare, nel circuito democratico, rappresentanza per le loro istanze.
Nel far questo, però, la giustizia costituzionale, come sosteneva il giudice Breyer con posizione non dissimile da Ruth Ginsburg (Razzano), deve preservare quando possibile la national conversation, nella quale “una nuova comprensione della legge emerga dal basso”, ed evitare di fermare un processo politico di riforma rischiando di accrescere lo scontro. Al giudice costituzionale resta il compito di proteggere i diritti anche non espliciti, che emergano come fondamentali nell’ordinamento costituzionale, quando essi siano vittime dell’“indifferenza delle masse” o della “riluttanza delle élite” (Bognetti).