di Gian Luca Conti
Massimo Cavino affronta - con coraggio e mitezza - un tema assai scottante: quanto ci deve essere di condiviso fra qualche centinaio di studiosi che hanno come scopo l’elaborazione di valori che sono destinati a tenere unita una comunità statale, problema sbattuto sul tavolo e negli scaffali dal volume di Zagrebelsky (G. Zagrebelsky, Tempi difficili per la Costituzione, Bari - Laterza, 2023, II ed. 2023). Uno di quei libri che non sanno stare fermi.
Cavino supera il disagio e la disincantata malinconia di Zagrebelsky spostando il problema sul piano del linguaggio: il costituzionalista è colui che sa usare il linguaggio tecnico del diritto costituzionale per discutere complesse questioni e aiutare nella scelta fra le opzioni che esse pongono.
Di qui, l’idea di Cavino che il ruolo dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti sia organizzare occasioni di dibattito e confronto in cui gli appartenenti alla comunità dei costituzionalisti possano adeguatamente confrontare la loro capacità di fornire argomenti utilizzando il linguaggio proprio della loro scienza.
Non invece proporre soluzioni approvando ordini del giorno o mozioni che vincolino i propri associati.
E’ una posizione molto ragionevole, non solo con riferimento alla polemica agitata nelle pagine che si sono richiamate ma anche in questi tempi in cui - ancora una volta - il demone della riforma costituzionale si aggira inquieto fra Montecitorio, Chigi e Palazzo Madama. Molto ragionevole ed equilibrata ma che, forse, merita due piccoli commenti e una lieve chiosa.
Il linguaggio del costituzionalista è necessariamente composto di argomenti assiologicamente orientati intorno ai valori costituzionali: nel diritto costituzionale, infatti, non esiste un giudizio di legittimità che non sia fondato su valori e, perciò, l’assiologia è inevitabile. Il costituzionalista è uno studioso che forma la sua opinione a partire dai valori in cui crede e che, di conseguenza, può proporre argomenti solo se questi sono coerenti con i valori da cui parte.
La sua associazione, perciò, deve essere aperta a diversi valori, spesso in radicale conflitto fra di loro, e consentire l’intersezione fra questi, costruendo una teoria dell’interpretazione della Costituzione come strumento di overlapping consensus, nel quale nessuno ha una pretesa di verità assoluta, ma nello stesso tempo assicurando a ciascun componente di questa comunità il massimo della sua libertà di ricerca, di pensiero e di espressione.
A mio avviso, infatti, è questo il rischio che corre la nostra scienza in questo contesto storico.
Il rischio di diventare il luogo in cui taluni ritengono di possedere una verità e censurano chi non condivide quella verità, anche se questa verità è semplicemente un linguaggio.
Qualcosa di molto simile alla ideologia Woke, nel senso deteriore che questa espressione ha assunto nel dibattito pubblico statunitense e assai lontano dalla nobiltà epistemologica che ha nel pensiero di Hilde Lindemann (Lindemann H. (2016). Holding and Letting Go: The Social Practice of Personal Identities. Oxford: Oxford University Press).
Sotto questo aspetto, il ruolo principale dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti è la difesa della propria comunità contro qualsiasi censura che riguardi il contenuto dell’argomento (e i valori supposti all’argomento sostenuto) piuttosto che il linguaggio tecnico utilizzato.
Anche quando la censura proviene dalla comunità stessa e viene formulata con cortesemente curiale crudeltà.
Dall’altra parte, però, è inutile nascondersi che il costituzionalista è uno studioso del potere e come tale tende ad esserne affascinato, ha la terribile tentazione di farsi instrumentum regni o consigliere del principe e, nel caso in cui non vi riesca, a manifestare la propria frustrazione con eccessi polemici che possono essere considerati imbarazzanti ed è difficile scriverlo senza arrossire.
Ma questo riguarda unicamente la coscienza di ciascuno e non certo il ruolo dell’Associazione di cui fa parte.
In secondo luogo, mi pare che, in questo momento, il diritto costituzionale stia vivendo una sorta di crisi di identità: il paradigma di sovranità al quale la maggioranza dei suoi studiosi è abituata è entrato da tempo in crisi e non più solo sul piano della forma di Stato. Il potere è uscito dalla forma di Stato e si sta evolvendo in direzioni che la Costituzione (le Costituzioni contemporanee della sfera occidentale del mondo) non immaginava e che per certi aspetti rammentano forme di Stato da tempo superate: che cosa è più simile al mondo dei social dello Stato patrimoniale in cui il Sovrano è colui che possiede il territorio? la complessa galassia degli unicorni che si suddividono i mercati della pubblicità online non assomiglia alla Firenze del duecento come descritta con toni assai diversi dal giovanissimo Salvemini e dall’anziano Ottokar (G. Salvemini, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze _ Carnesecchi, 1899; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento. Firenze - Sansoni,1926)?
Qui, siamo tutti smarriti e tutti ci poniamo delle domande cui i più coraggiosi azzardano delle risposte che talvolta sembrano scritte come se Jeff Bezos avesse il tempo di sfogliare la dottrina costituzionalistica italiana e avesse letto Mortati da piccolo.
Ma c’è una domanda che, dal mio punto di vista si impone, prima ancora dell’invito a occuparsi con ragionevole prudenza, di temi che presuppongono una consapevolezza tecnica assai specialista e piuttosto lontana dalla tipica formazione di un giurista che ha studiato Schmitt più di Gauss: si tratta ancora di diritto costituzionale?
E qui, forse, è uno dei ruoli più importanti dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti: discutere che cos’è e che cosa deve essere diritto costituzionale.
Se questi sono i due commenti che le ragionevoli e prudenti parole di Cavino mi hanno suggerito, la chiosa è quasi esistenziale.
Non ricordavo che l’associazione dei costituzionalisti Jugoslavi aveva inviato un appello alla Associazione Italiana dei Costituzionalisti perché prendesse posizione intorno al conflitto in Kosovo e nemmeno avevo mai ricollegato a quell’appello il seminario di studi su Diritti umani e uso della forza che Cavino ricorda, però non sono sicuro che l’organizzazione di un simposio scientifico fosse la risposta più adeguata e, sicuramente, per chi non sia avvezzo alle logiche di un’associazione accademica, può suonare come una pilatesca presa per i fondelli.
Pilato non ebbe dei cronisti in grado di alleviare la damnatio memoriae cui lo condannò la sua timidezza.
Si può sperare di essere più fortunati nella certezza di essere meno letti.
Tuttavia, dal mio punto di vista, allo scoppio di una guerra, non vorrei che i nostri studenti e allievi pensassero che la Costituzione sia un linguaggio tecnico e non una norma che esprime univocamente il più fermo ripudio di ogni forma di aggressione.