di Fabrizio Politi
La campagna referendaria ha riproposto il tema del ruolo della magistratura nelle dinamiche istituzionali. Dei cinque quesiti referendari, tre riguardavano direttamente l’assetto ordinamentale della magistratura (separazione delle carriere, giudizio sui magistrati, candidatura al Csm), ma anche i restanti due erano stati prospettati come strumento di riduzione di un asserito “eccesso di potere” della magistratura.
Negli ultimi decenni, le questioni relative alla separazione delle carriere, alla responsabilità dei magistrati, alla partecipazione degli stessi alla vita politica, sono entrate spesso nella lotta politica quotidiana, con il conseguenziale smarrimento di un equilibrio nelle relative riflessioni. Appare pertanto importante ripartire dalla considerazione che, nelle dinamiche dei rapporti fra poteri dello Stato, la magistratura (sia quella requirente che quella giudicante) viene sempre a rivestire un ruolo dialettico con gli altri assetti istituzionali. In ogni sistema democratico il rapporto fra potere giudiziario e potere politico tende a porsi in una dimensione dialettica sia per la funzione di controllo che il primo è chiamato a svolgere sul secondo, sia perché spetta al potere giudiziario quella “interpretazione della legge” che il potere politico elabora ed approva (e non a caso fin dall’antichità ogni legislatore mira a restringere gli spazi dell’interprete!).
Altro discorso è riflettere sulle forme specifiche (e sulle relative cause) che tale conflittualità assume nei diversi decenni. La Costituzione repubblicana contiene principi chiari e strumenti ben definiti a tutela dell’indipendenza della magistratura. Da ultimo, anche in ragione del verificarsi di gravi episodi, si è avvertita l’esigenza di un intervento legislativo destinato a disciplinare il fenomeno dei magistrati impegnati in candidature politiche (e di quelli che “ritornano” alle funzioni giudiziarie dopo essere stati impegnati per anni in cariche politiche) e, più in generale, l’assetto ordinamentale della magistratura. Il relativo dibattito ha portato all’approvazione alla Camera dei deputati di un disegno di legge al momento all’esame del Senato. Tale testo introduce nuove disposizioni in merito alla composizione del Csm, all'assetto ordinamentale della magistratura, e all’eleggibilità a cariche politiche dei magistrati ed al ricollocamento degli stessi a seguito della cessazione di mandati elettivi. Un esame approfondito delle nuove norme richiederà uno spazio maggiore di quello a disposizione della presente “Lettera”, ma sembra potersi riscontrare l’assenza di rilevanti cambiamenti rispetto alla normativa vigente quantunque la stessa presentazione di una nuova disciplina sia indice del riconoscimento dell’esistenza di nodi problematici.
Il nuovo testo contiene sia una delega al Governo per la “riforma ordinamentale della magistratura" (concernente in particolare: l’assegnazione degli incarichi direttivi; le tabelle organizzative degli uffici giudicanti; il collocamento fuori ruolo del magistrato; la valutazione del magistrato; l’accesso in magistratura), sia nuove disposizioni in materia di ordinamento giudiziario (l’organizzazione degli uffici; l’incompatibilità di sede per ragioni di parentela o coniugio; il collocamento in aspettativa; la disciplina degli illeciti disciplinari con l’inserimento anche di condotte nuove). In questo ambito, quale risposta alla vexata quaestio della separazione delle funzioni, vengono introdotte nuove disposizioni in merito al passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti (il passaggio può essere effettuato una volta nel corso della carriera entro nove anni dalla prima assegnazione e, trascorso tale periodo, è ancora consentito, per una sola volta, a determinate condizioni).
Il primo dato su cui appare importante riflettere è quello dell’efficienza della macchina della giustizia. Il disegno di legge in itinere cerca di rispondere a tale profilo delineando una nuova disciplina di assegnazione degli incarichi direttivi. A questo proposito si deve rilevare che i vertici della magistratura hanno sempre difeso (ed a ragione) la propria autonomia organizzativa quale strumento di difesa della propria indipendenza, ma al tempo stesso va ricordato che l'inefficienza della macchina giudiziaria discende anche da deficit organizzativi (basti pensare alle modalità di programmazione delle udienze che i magistrati contemporanei hanno ereditato dai loro predecessori e questi ultimi da chi a loro volta li aveva preceduti), su cui è necessario riflettere. Le rappresentanze della magistratura hanno sempre assegnato la responsabilità della lentezza della giustizia ad elementi “esterni” (il numero degli avvocati, le inefficienze delle cancellerie, la litigiosità del popolo italiano, ecc.) ma non si è mai registrata una seria analisi sull’efficienza dei presidi di giustizia basata sulle modalità più strettamente organizzative. Il PNRR ha assegnato ingenti risorse per l’eliminazione dell’arretrato quale volàno economico. A questo fine è stato istituito il c.d. “ufficio del processo”, composto da “assistenti” (assunti a tempo determinato) chiamati a svolgere funzioni preparatorie dei provvedimenti del giudice. Chi scrive spera che le proprie perplessità siano smentite dai fatti, ma nell’immediato prevalgono piuttosto i dubbi sulla validità di tale strumento (che prevede “assistenti” chiamati a svolgere “ricerche” per i giudici) che di certo crea solo un esercito di precari ai quali fra cinque anni bisognerà comunicare la cessazione delle proprie funzioni, a meno che non si voglia rendere stabile una struttura creata in via provvisoria. Ed è agevole ricordare che questo fenomeno si è già registrato con la creazione di diverse figure di giudici onorari istituiti per eliminare l’arretrato e poi rimasti in funzione per decenni e per i quali - in ragione del dovere di recepimento di pronunce della Corte di giustizia - il legislatore ha approvato una legge di stabilizzazione che contiene norme di dubbia costituzionalità (quale quella che pone l'obbligo della rinuncia ad ogni pretesa qualora si intenda accedere alla procedura di stabilizzazione). Ma va sottolineato che le norme appena ricordate – tutte relative all’amministrazione della giustizia ed approvate con il placet dell’Anm - sono conseguenza di una debolezza intrinseca del potere politico che si dimostra incapace di elaborare autonomamente discipline adeguate alle sfide del presente. Ulteriore esempio da citare è la soppressione dei tribunali minori, che non ha accresciuto minimamente la produttività della globale macchina giudiziaria ed ha invece sguarnito interi territori di importanti presidi di giustizia.
Noti sono gli effetti nefasti prodotti dalla degenerazione del fenomeno delle correnti e su tali aspetti è la magistratura stessa che deve innanzitutto riflettere al proprio interno. La separazione delle carriere non è tema che possa liquidarsi in poche righe ma qualunque osservatore sufficientemente attento non può non rilevare le frizioni che l’attuale sistema genera sia con il principio del giusto processo, sia per il rischio di un eccessivo peso dei magistrati requirenti nelle decisioni assunte dal Csm sugli incarichi direttivi degli uffici giurisdizionali. E la commistione fra correnti e politica non può che finire per accentuare i fenomeni degenerativi. Ed è per questa ragione che si dovrebbe riflettere sulla portata della norma costituzionale che vieta l’iscrizione del magistrato ad un partito politico. Ad avviso di chi scrive (che peraltro è ben consapevole che la via seguita nel nostro paese è ben altra), tale norma costituzionale è espressione del più generale principio di non partecipazione del magistrato alla vita politica: per la generazione dei costituenti una candidatura in una lista politica non era concepibile al di fuori di un’adesione ad un partito politico (ed appare un velo pietoso affermare che una candidatura all’interno di una lista politica non significhi l'adesione ai valori di quella parte politica). Ma queste considerazioni intendono rimarcare la preliminare necessità – oltre che delle opportune norme legislative – del recupero della dimensione deontologica del magistrato. A questo proposito piace ricordare le parole di Calamandrei che (in Elogio del giudice scritto da un avvocato) scriveva che l'indipendenza del giudice “è un duro privilegio, che impone, a chi ne gode, il coraggio di restare solo con se stesso, a tu per tu, senza nascondersi dietro il comodo schermo dell'ordine superiore”. Con l'avvento dell'ordinamento repubblicano Calamandrei (nella terza edizione del volume) aggiungeva che il pericolo nuovo incombente sui magistrati era la politicizzazione (la “partitizzazione”) e che il magistrato che scambia il suo seggio con un palco da comizio “cessa di essere magistrato”. Il Maestro fiorentino ammoniva che “per un magistrato mantenere la sua indipendenza” è forse “più difficile in tempi di libertà che in tempi di tirannia” e per questa ragione, oltre all’introduzione delle opportune discipline legislative, è necessario il recupero di un abito etico del magistrato, riguardo al quale “anche le più lievi sfumature di pigrizia, di negligenza, ci sembrano, quando si trovano in un giudice, gravi colpe”. I giudici per Calamandrei sono “asceti civili”, condannati “alla solitudine”. Ecco, ciò che si deve innanzitutto richiedere alla magistratura è forse una rinnovata attenzione alla propria, necessaria, “solitudine”.