di Corrado Caruso
1. Radicato nelle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo (la gloriosa rivoluzione inglese del 1688, la rivoluzione americana del 1776 e quella francese del 1789), il costituzionalismo moderno si è sviluppato attorno a due grandi ideali: la limitazione del potere a vantaggio dei diritti individuali e la legittimazione democratica delle istituzioni politiche. Simili aspirazioni, ancorché in costante relazione dialettica, sono assurte, pure nella diversità delle concrete esperienze giuridiche, a ragioni costitutive di un movimento politico-culturale che ha ispirato anche la nostra Carta fondamentale. Molti dei principi positivizzati in Costituzione sono il riflesso o, meglio, incarnano l’evoluzione di quegli ideali: sovranità popolare, personalismo, pluralismo, eguaglianza, rappresentanza politica, parlamentarismo sono concretizzazioni normative dei valori fondativi del costituzionalismo.
Si tratta di principi tra loro complementari e di eguale rango, che contribuiscono a delineare l’identità del nostro sistema costituzionale. Nonostante tale equiordinazione, alcune tendenze attuali – che spesso riflettono, in un rapporto circolare di legittimazione, dinamiche sociali e orientamenti dottrinali – danno l’impressione di una certa ridondanza di alcune di queste istanze a detrimento di altre e sembrano preludere a un generale ripensamento di taluni concetti fondamentali. Tra queste tendenze vanno annoverati gli eccessi del pluralismo e l’inclinazione a elevare ogni aspettativa o bisogno sociale a diritto fondamentale, la frantumazione dell’eguaglianza e la progressiva diffusione di un diritto diseguale, l’attitudine, più in generale, a rivendicare o discutere di astratti principi sottostimando l’importanza dei processi di decisione politica.
2. Nel nostro sistema costituzionale si assiste, come in altre democrazie occidentali, a una spiccata effervescenza del pluralismo sociale. A una oramai sconfinata varietà di organizzazioni, associazioni, enti privati dai fini più disparati, sovente in conflitto e spesso in lotta fra loro per il riconoscimento e la conquista del potere pubblico, è andato affiancandosi un sentimento generale che, in nome della autorealizzazione, percepisce ciascun interesse o rivendicazione privata alla stregua di un diritto fondamentale. Dissolto ormai il paradigma giuspositivista delle situazioni giuridiche soggettive, fondato sulla predeterminazione legislativa dell’oggetto, della pretesa e del titolare, è andato affermandosi un «diritto ad avere diritti» (Rodotà) dai contorni indeterminati, una sorta di Grundnorm individualista in grado di legittimare e giustificare l’esistenza stessa dell’ordinamento.
Simile assunto può portare a conseguenze perniciose per la tenuta dei sistemi liberal-democratici. Dietro all’etimo dei concetti che costellano la grammatica dell’ordinamento riposa l’esigenza di fondare una comunità unita nel perseguimento di scopi comuni. Parole come giurisprudenza (prudentia iuris) o giustizia (ius-titia) derivano da iungere, che non significa altro se non tenere insieme, attraverso un comune legame (la cui radice riflette, non a caso, anche il termine lex), una determinata società. Come è possibile allora pensare un ordinamento se questo è esclusivamente chiamato a soddisfare bisogni individuali, a prescindere dal contributo di ciascuno alla vita della comunità, dal destino comune che i consociati sono portati necessariamente a condividere? I diritti non si realizzano automaticamente, né sono figli di una morale universale, ma sono il prodotto di scelte storicamente e politicamente condizionate che riflettono l’ordine di priorità definito dalla maggioranza dei cittadini. Il principio di maggioranza, funzionale, all’interno di un sistema politico, a decidere o a eleggere, non è una semplice tecnica di assunzione delle decisioni collettive ma è un valore procedurale che riflette il pluralismo ideologico e l’eguaglianza politica dei consociali.
Per quanto sia auspicabile, in chiave prescrittiva, un consenso per intersezione, che soddisfi «un criterio di reciprocità, consentendo ai membri di una comunità costituzionale di mettersi d’accordo sulle questioni più divisive» (Valentini, che riprende Rawls), non deve dimenticarsi come la aspirazione all’integrale realizzazione dei diritti rimandi inevitabilmente a una situazione generale di disaccordo sulle priorità da perseguire (Waldron). Il pluralismo restituisce un dato di realtà, e cioè la permanente conflittualità tra i fini e le istanze dei soggetti che costellano la società pluralista, una conflittualità che richiede l’assunzione di decisioni che superino le divisioni sociali secondo procedure coerenti con i valori del costituzionalismo. In effetti, ciascun individuo, nel momento in cui avanza una rivendicazione, aspira alla integrale realizzazione della sua aspettativa così da riaffermare un imprescindibile aspetto della propria personalità o, quanto meno, della propria particolare visione del mondo.
Senonché, a voler spostare l’attenzione dal momento soggettivo alle dinamiche oggettive dell’ordinamento, la garanzia dei diritti si traduce spesso in un gioco a somma zero (Bin), nel senso che la tutela di una situazione soggettiva è suscettibile di andare a detrimento di un’altra pretesa, in astratto egualmente meritevole di tutela. È dunque una scelta intrinsecamente politica quella di dare maggior peso a una preferenza individuale in luogo di un’altra, ed è per tale ragione che è necessario analizzare attentamente (ma sul punto si tornerà tra poco) i meccanismi di decisione collettiva.
Dal punto di vista istituzionale, questo costituzionalismo dei bisogni avalla un progressivo slittamento di potere: le rivendicazioni soggettive vengono ormai veicolate attraverso azioni giudiziali strategiche, intraprese forzando il dato positivo per riaffermare l’aspettativa individuale in questione. Simili tendenze portano a una sovraesposizione del potere giurisdizionale, che diventa una sorta di istituzione di trasformazione permanente dei bisogni sociali in diritti individuali. A risentirne è la separazione e, soprattutto, l’equilibrio tra poteri, a causa della conseguente emarginazione dell’intermediazione legislativa. La scelta intorno al se e al come regolare in via legislativa una situazione soggettiva ha necessariamente tempi lunghi e richiede, soprattutto quando investe temi eticamente controversi, un ampio processo di deliberazione sia all’interno delle aule parlamentari sia nell’opinione pubblica. La creazione per via giudiziale di nuovi diritti non è invece preceduta da alcun confronto deliberativo, se non all’interno del ristretto foro giudiziario o dell’ancora più limitato collegio giudicante: i meccanismi di riconoscimento giudiziale preludono a un procedimento orientato alla decisione che, in coerenza con le tesi del massimo teorico del decisionismo (Schmitt), rischia di assumere le sembianze della rimozione autoritaria di un dubbio.
Anche la giurisdizione costituzionale risente di queste tendenze, con le Corti costituzionali che hanno ormai acquisito una spiccata centralità nella promozione dei diritti fondamentali. A volgere lo sguardo alla nostra esperienza, è ormai conclamato l’anacronismo dell’appellativo Giudice delle leggi che la dottrina era solita rivolgere alla Corte costituzionale. I giudici di Palazzo della Consulta sono ormai a pieno titolo giudici dei diritti, che vengono garantiti e tutelati attraverso tecniche di scrutinio basate sul sindacato di ragionevolezza o proporzionalità della norma oggetto del giudizio. Si tratta di tecniche che possono avere effetti virtuosi, soprattutto nella generale risacca della politica rappresentativa, consentendo alla Corte di sindacare il concreto rapporto schermato dalla disposizione legislativa e adeguare l’ordinamento alle evoluzioni sociali.
Simili tendenze non dovrebbero però portare a una esautorazione degli organi politicamente legittimati dal voto. Ogni decisione della Corte dovrebbe rispondere a un postulato di proporzionalità istituzionale, nel senso di ritenere la decisione di incostituzionalità inevitabile e strettamente necessaria, evitando così di restringere eccessivamente il margine di azione delle istituzioni rappresentative. In fondo, le decisioni di incostituzionalità (e gli argomenti portati per sostenerle) presentano sempre un plusvalore di politicità: ad essere sopravanzato non è solo lo specifico interesse perseguito dalla legge dichiarata illegittima ma anche la generale libertà dei fini del legislatore.
3. La promozione a tutti i costi dei diritti cela la diffusione di un individualismo totalizzante, che rischia di postergare, sempre e comunque, interessi pubblici o valori collettivi che pure rappresentano, non diversamente dai diritti individuali, un collante imprescindibile per Costituzioni che ambiscono a governare comunità complesse.
L’accento sulla dimensione individualistica rischia di far dimenticare come la tutela dei diritti sia frutto, in diverse occasioni, di una qualche forma di doverosità che l’ordinamento è tenuto a richiedere. L’estensione e il grado di questa doverosità ovviamente cambiano da sistema a sistema, a seconda delle scelte compiute dalle singole Costituzioni. È emblematico, a tale riguardo, l’art. 2 della nostra Carta fondamentale, che richiede, accanto al riconoscimento dei diritti inviolabili, l’inderogabile adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, secondo una formulazione riassuntiva di una serie di situazioni di svantaggio puntualmente indicate nelle successive disposizioni costituzionali. Ad esempio, il diritto ad avere prestazioni sanitarie e a vivere in uno stato di buona salute è il riflesso di un interesse collettivo che può richiedere il soddisfacimento di prestazione sanitarie obbligatorie (art. 32 Cost.) quali i vaccini, necessari, come purtroppo si è visto di recente, a combattere un virus altamente infettivo e pericoloso per le fasce più deboli della popolazione. Le proteste, a tratti scomposte, contro le misure di contenimento del Covid-19 sono un buon esempio di questo individualismo totalizzante: i movimenti no-mask o no-vax in fondo promuovevano istanze assolute di realizzazione individuale a detrimento della salute pubblica che, come si è appena ricordato, ricomprende anche gli interessi dei più fragili.
In fondo, se la teoria liberale dei diritti postula una certa separazione tra Stato e società, avallando una contrapposizione tra pretese individuali e bene comune (Groppi), l’accento sui doveri rinvia alla istituzionalizzazione della comunità politica nel suo complesso (Lombardi). Per tale ragione il diritto ad avere diritti non può essere separato da uno speculare «dovere di avere doveri», capace di fondare un processo collettivo di civilizzazione (Violante).
Non solo: le richieste di valorizzazione giuridica delle situazioni individuali frammentano oltre misura l’eguaglianza di trattamento davanti alla legge (o, meglio, la pari dignità sociale, secondo l’espressione accolta dall’art. 3.1. Cost.). Dalla disciplina generale e astratta delle situazioni sociali l’ordinamento muove verso un diritto provvedimentale o eccezionale, chiamato a dare soddisfacimento al singolo bisogno ritenuto meritevole di protezione dallo stesso soggetto che se ne fa portatore. Ciascun individuo diviene così l’artefice di una propria, irriducibile dignità soggettiva, da riconoscersi contro o comunque a prescindere da quanto previsto per i propri simili, a sé uguali (che simili e uguali più non sono, se ciascun componente della comunità ambisce alla differenza di trattamento).
Non è certo il caso di indulgere in antiche nostalgie per il citoyen bourgeois su cui erano modellate le dichiarazioni liberali dei diritti. Il principio personalista accolto nel testo costituzionale, risultato del felice incontro in Costituente tra il personalismo comunitario delle forze cattoliche e il materialismo delle sinistre, ha sopravanzato l’individualismo astratto dello Stato liberale e ha portato a una moltiplicazione degli status meritevoli di tutela (il lavoratore, la donna lavoratrice, i coniugi, i figli, i disabili, lo straniero etc.). Non deve però dimenticarsi che questi status rinviano a categorie che condividono caratteristiche comuni ed eguali situazioni di svantaggio da correggere attraverso discipline generali. L’aspirazione all’eguaglianza di trattamento non è un relitto del passato: l’esigenza di una paritaria disciplina legislativa, sovente frutto di lotte o rivendicazioni collettive, rappresenta uno scudo contro vecchi e nuovi privilegi, contro i tentativi di subordinazione della persona all’interno di totalizzanti comunità culturali o alienanti centri di produzione industriale, contro le pratiche regressive (o forse eversive) del familismo e del clientelismo amorale, origine di molti dei problemi che oggi affliggono il nostro Paese.
Le pratiche disgregative connesse all’esasperazione del pluralismo possono risultare anche da processi di frammentazione territoriale, dai tentativi, riusciti o mancati, di secessione ad opera delle piccole patrie, enclaves identitarie ed etnocentriche che frantumano l’unità della comunità politica. Sono rivendicazioni spesso fondate su etnocentrismi o estremismi religiosi, che minano l’intrinseca vocazione universalista dei valori del costituzionalismo liberal-democratico.
4. Tra le cause della fortuna dei populismi di oggi e dei fascismi di ieri spicca l’incapacità delle istituzioni rappresentative di rispondere ai bisogni delle masse, a quegli interessi che non coincidono con o comunque non possono essere ridotti alle rivendicazioni di chi ha i mezzi, culturali e materiali, per rivolgersi al giudice. Si tratta spesso di pretese che hanno un rilievo economico e sociale, riguardanti la promozione dell’occupazione, la retribuzione «proporzionata alla quantità e qualità del […] lavoro» (art. 36 Cost.), la adeguatezza delle prestazioni sanitarie, la vivibilità dei centri urbani, e così via. Affinché queste aspirazioni vengano soddisfatte è necessario guardare non solo alle forme di rappresentanza degli interessi generali, ma anche ai meccanismi istituzionali volti alla loro realizzazione. È necessario in altri termini concentrare l’attenzione sui processi di decisione politica, troppo spesso sottostimati nelle analisi dei costituzionalisti ed evitare che, in una sorta di giusnaturalismo di ritorno, i chierici del tempo si presente si limitino a formulare dottrine “astratt[e] e letterari[e]” (Tocqueville), pronte a riaffermare grandi enunciazioni di principio ma disattente rispetto alle necessarie migliorie da apportare al circuito democratico-rappresentativo. Come rendere più efficace, trasparente ed accountable l’azione di governo di comunità complesse? Come trasformare l’energia popolare derivante dal voto in politiche pubbliche coerenti e rispettose del mandato elettorale? Come individuare, orientare e limitare (in una parola: governare) la pressione di interessi settoriali sulle scelte collettive? Come innestare le scelte nazionali di governo nel processo di integrazione europea? E come, viceversa, rendere responsive, rispetto alle aspirazioni dei popoli europei, le istituzioni della comunità sovranazionale? La decisione politica, cioè il processo di assunzione di scelte necessarie all’inveramento dell’interesse generale, occupa un posto centrale nella storia del costituzionalismo liberal-democratico perché rappresenta lo strumento per tradurre in risultati concreti i valori di questo movimento. Da semplice riflessione filosofica il costituzionalismo è anzi diventato reale esperienza politica proprio grazie ai meccanismi di istituzionalizzazione delle rivendicazioni culturali maturate al suo interno. È dunque necessario ridare centralità all’analisi dei processi di decisione collettiva, troppo spesso lasciati all’elaborazione teoretica o abbandonati nelle pessime mani dei cultori dei regimi totalitari.