di Paolo Costa
Il contributo di Corrado Caruso intorno ad «alcune tendenze del costituzionalismo odierno» tocca temi cruciali che richiedono, oggi forse più che in passato, un’attenzione critica.
La riflessione si svolge sullo sfondo poco rassicurante della crisi del costituzionalismo. Al centro di questa crisi vi sarebbe, tra le altre cose, un’enfasi eccessiva sulla dimensione individuale dei diritti.
È una valutazione che condivido.
Già diversi anni fa, in note pagine, Gustavo Zagrebelsky contrapponeva «principi di giustizia» e «diritti-volontà»: i primi, fattori di una «tendenza all’integrazione»; i secondi, fattori di una «tendenza alla disintegrazione». E denunciava come un disequilibrio in favore dei secondi, non meno di un disequilibrio in favore dei primi, avrebbe comportato rischi per la libertà: «L’enfasi sui diritti individuali è la risposta costituzionale all’eccesso di strutturazione sociale; l’enfasi sulla giustizia, allo scatenamento delle energie individuali che producono sopraffazione dei (diritti dei) più forti sui (diritti dei ) più deboli, secondo quel che afferma il “paradosso della libertà”, cioè la tendenza della massima libertà a rovesciarsi nella massima oppressione» (Il diritto mite, Torino 1992, p. 129).
Lo spazio pubblico tollera solo un certo grado di individualismo giuridico; oltre tale grado, si innescano regolarmente processi di re-integrazione dagli esiti imprevedibili (non casualmente oggi assistiamo alla parabola dei neo-populismi, da un lato, e dei neo-elitismi, dall’altro).
Il costituzionalismo può essere esso stesso l’antidoto ad un simile rischio? La risposta, ovviamente, non va ricercata, ancora una volta, nella garanzia dei diritti. La si può invece rinvenire soffermandosi sull’essenza più profonda dell’altro suo principio centrale: quello della divisione dei poteri.
Tale essenza, secondo l’insegnamento di Montesquieu (non di rado stilizzato da una «arcinota vulgata montesquieuiana» – com’è stata definita da Aljs Vignudelli – in una semplice specializzazione di funzioni), poggia sull’equilibrio tra poteri determinato dalla meccanica della reciproca hybris. O si raggiunge l’accordo (la «leale collaborazione», nel lessico della Costituzione) o non si decide alcunché. È un dispositivo istituzionale che gli stessi padri del costituzionalismo moderno hanno escogitato guardando con ammirazione all’esperienza della res publica di Roma antica. Non è fortuito se l’ideale del costituzionalismo sia quasi sovrapponibile a quello del repubblicanesimo.
Tale ideale, in sintesi estrema, antepone gli esiti libertari del conflitto alla necessità che questo venga risolto per il tramite di una decisione superiore. È il realismo dell’«itio in partes» e non quello – caro agli hobbesiani – del «quis iudicabit?».
Credo che la questione si addensi tutta qui. Più l’epicentro del sistema costituzionale si sposta verso la decisione (quale che essa sia), più si allontana dallo spirito del costituzionalismo repubblicano; e viceversa.
Non ci vuole un grande sforzo per constatare che il nostro sistema costituzionale è vieppiù sbilanciato verso la decisione. Poco conta (e, anzi, la circostanza complica ulteriormente il problema) se quest’ultima venga intestata alla giurisprudenza costituzionale; e conta altrettanto poco se l’organo di giustizia costituzionale venga rappresentato, o si autorappresenti, come organo giuridicizzante di sentimenti o interessi sociali. È già stato ampiamente illustrato da Andrea Morrone il rischio a cui un certo «suprematismo giudiziario» espone il principio della divisione dei poteri. È un rischio insidioso, spesso sottovalutato anche da autori sinceramente liberali. Basti rammentare le pagine in cui Nicola Matteucci affermava, senza mezzi termini, che la Corte costituzionale sarebbe «la massima autorità dello Stato» (N. Matteucci, Positivismo giuridico e costituzionalismo, in N. Matteucci-N. Bobbio, Positivismo giuridico e costituzionalismo, Brescia 2021, nota 84, p. 95). Anche il «suprematismo politico», peraltro, è stato un rischio talvolta sottovalutato da autori non meno liberali. Giovanni Bognetti, nella sua celebre e sapientissima disamina del principio della divisione dei poteri, lamentava in modo un po’ sorprendente che il nostro sistema appariva viziato da «lentocrazia indecisionista» (G. Bognetti, La divisione dei poteri. Saggio di diritto comparato, Milano 2011, p. 137).
L’invocazione della decisione purchessia fa il paio con la logica della lacuna sostanziale quale appare dalla critica di Hans Kelsen: uno scarto non gradito tra diritto positivo e diritto desiderato (H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, Torino 2000, p. 124 e ss.). L’attualità impone una decisione politica derogatoria del diritto vigente, dice il political constitutionalist. I diritti non possono attendere le more parlamentari, dice il legal constitutionalist. Nessuna delle due posizioni ammette la semplice evidenza per cui la mancata assunzione di una decisione equivale ad una decisione essa stessa. Il non detto è che il risultato della mancata decisione semplicemente non piace.
Il costituzionalismo correttamente inteso ambisce a definire e garantire una sfera dell’indecidibile: non si decide sulla libertà, la si garantisce. Il resto è rimesso alla libera cooperazione degli organi di indirizzo, che potrebbero, in thesi, anche non decidere alcunché, in quanto ogni potere potrebbe – per rievocare il prototipico modello romano – scagliare verso gli altri la propria intercessio. Un sistema che aneli ad una perfetta chiusura giusvolontaristica (fosse anche quella rappresentata dalla decisione di una Corte costituzionale) rischia di generare una costituzione senza costituzionalismo e, per conseguenza, una repubblica senza repubblicanesimo. Una costituzione repubblicana esige un certo grado di possibile incompiutezza e di potenziale conflitto politico, che non possono e non debbono essere soffocati in un angusto sistema di rimedi giuspositivistici.
Il rischio, in ultima analisi, è dunque quello di una democrazia senza repubblica: un demos legittimante e un kratos legittimato, senza che tra di essi vi sia la dimensione del publicum. È questa l’immagine di una formula politica nota e poco rassicurante.
Non è un caso, allora, se nel lessico della Costituzione la democrazia divenga un’aggettivazione della repubblica. È un dato costituzionale da non trascurare, nel tempo del “centripetismo” decisionista. Quando nel 23 A.C. l’imperium e la tribunicia potestas, con il relativo potere di intercessio, si concentrarono nella medesima carica, la res publica romana, com’è noto, ebbe fine.