di Giovanna Pistorio
Dopo la pandemia, ora la guerra russo-ucraina. Il mondo intero è scosso. Molti i dubbi e le perplessità sui quali il costituzionalista si interroga, sia sul piano interno che internazionale. Innanzitutto, sorge una questione linguistica. In entrambi i casi, si tratta di emergenze, pur nella loro profonda diversità.
La pandemia è stata più volte paragonata a un’emergenza bellica, tanto da discutere, nel disorientamento della gestione iniziale, sull’opportunità di ricorrere finanche all’art. 78 della Costituzione, secondo cui, come è noto: «Le Camere deliberano lo stato di guerra e conferiscono al governo i poteri necessari». Ipotesi difficilmente percorribile sotto diversi profili, anche in considerazione del mancato ricorso alla previsione in parola, persino, paradossalmente, negli interventi in Golfo Persico, Kosovo, Afghanistan, quando le forze armate italiane sono state coinvolte direttamente.
La seconda emergenza è indubbiamente una guerra. Una guerra nel cuore dell’Europa. Un vero e proprio conflitto armato tra due Stati: un aggressore e un aggredito. Tuttavia, il Presidente della Federazione russa Vladimir Putin la definisce un’«operazione militare speciale». Qualificazione che desta legittimo scandalo nella comunità internazionale come nell’opinione pubblica, ancorché simili “giochi” linguistici, se non proprio infingimenti, non siano del tutto ignari anche alla prosa dell’Occidente: basti qui richiamare l’etichetta di “operazione di polizia internazionale” con cui sono stati appellati buona parte dei conflitti internazionali degli ultimi decenni, a partire dalla prima guerra del Golfo del 1991.
Tutto ciò induce a riflettere, ancora una volta, sull’importanza ma soprattutto sulla “pericolosità” del linguaggio. Dalla polisemia delle parole agli abusi linguistici, il passo è breve. Difficile da disegnare, perché spesso labile, incerto, poco chiaro, è il confine tra interpretazione, distorsione, ipocrisia.
Nel dibattito costituzionalistico, sul significato da attribuire al concetto di guerra si è molto discusso a partire dall’art. 11 della Costituzione, nella parte in cui prevede, come tutti sappiamo, che «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».
Nessun dubbio sull’opportunità di distinguere, in nome del principio pacifista che ha ispirato i Padri costituenti e che oggi orienta la politica nazionale, tra guerre da ripudiare – con quell’accento «energico» che il verbo evoca, come si legge negli atti dell’Assemblea costituente – perché offensive e guerre costituzionalmente necessarie, perché a difesa della Patria, quale «sacro dovere» del cittadino, sulla base dell’art. 52 della Costituzione.
Tra i due estremi, molte le zone d’ombra.
Il caso della guerra russo-ucraina ne è un emblematico esempio.
Non si tratta, per l’Italia, né di una guerra di aggressione, né di una reazione a tutela dell’indipendenza e dell’integrità territoriale nazionale. E soprattutto si tratta (almeno per ora) di un conflitto che non vede un coinvolgimento diretto delle nostre forze armate.
Nondimeno, non mancano interrogativi e perplessità sulla posizione assunta dal nostro Paese e, in particolare, sulla decisione di fornire armamenti alle Forze ucraine.
Scelta che interroga e chiama in causa la riflessione del costituzionalista.
Due le prospettive di indagine.
Emergono dubbi sia sull’an che sul quomodo.
Quanto al primo aspetto, occorre interrogarsi, a livello nazionale, sulla compatibilità costituzionale della cessione di armi all’Ucraina e, in particolare, sulla lettura della stessa alla luce del combinato disposto degli artt. 11, 52 e 78 della Costituzione.
Indubbiamente, l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni costituzionali nulla dice in merito a eventuali forme di partecipazione, sia pur indirette, dell’Italia a guerre difensive non della propria patria, ma di quella di altri Stati.
È altresì noto, però, che le missioni internazionali più rilevanti alle quali l’Italia ha partecipato, sotto l’egida di organizzazioni internazionali, quali l’ONU e la NATO, hanno trovato piena copertura nell’art. 11, comma 2, Cost., sulla base della stretta connessione tra legittimità internazionale e legittimità costituzionale. In tali interventi l’uso della forza, lungi dall’essere interpretato come «mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», è stato concepito come strumento finalizzato al ripristino «della pace e della giustizia tra le Nazioni» e, in quanto autorizzato da risoluzioni internazionali, legittimato dal secondo comma dell’art. 11 della Costituzione.
È conformemente a tale prospettiva, peraltro, che poi la legge n. 145 del 2016 consente «l’invio di personale e di assetti, civili e militari, fuori dal territorio nazionale». Resta quindi fuori dall’applicazione di tale disposizione e ricade nell’alveo del codice dell’ordinamento militare la cessione dei soli assetti, ovvero la fornitura di armamenti.
Fondamentale, dunque, in tale contesto, il ruolo dell’interpretazione.
È intorno a essa, infatti, nella sua funzione di sistematizzazione del diritto in funzione decisoria e non solo conoscitiva, che ruota, anche nel caso di specie, la valutazione della scelta nazionale.
Ecco allora che se l’invio di armi all’Ucraina viene considerato una forma di partecipazione alla guerra, ex art. 11, comma 1, Cost., perché contribuisce ad alimentarla, a esacerbarla, non è costituzionalmente consentito in quanto lesivo del principio pacifista che anima la Costituzione.
Se invece si legge nella cessione di armi all’Ucraina una forma di assistenza a favore dello Stato aggredito che reagisce all’attacco armato, a tutela della propria indipendenza, la prospettiva cambia. Un’interpretazione estensiva delle disposizioni costituzionali legittima, in tal caso, l’utilizzo della forza bellica – sulla base dell’art. 78 Cost. – se orientata – alla luce degli artt. 11, comma 2 e 52 Cost. – a prestare aiuto allo Stato aggredito.
A sostegno di tale ricostruzione milita una lettura internazionalmente conforme di siffatta scelta.
Vero è che fa parte delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute il principio di neutralità. Nessun dubbio sugli obblighi di astensione, ovvero di imparzialità rispetto alle parti belligeranti, che da esso discendono, né sulla qualificazione del divieto di cessione di materiale bellico, quale corollario della neutralità.
Tuttavia, posto che l’attacco armato della Federazione russa all’Ucraina è una guerra offensiva, inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale – che censura, ai sensi dell’art. 2, par. 4, della Carta delle NU, la minaccia o l’uso della forza –, l’invio di forniture militari allo Stato aggredito può essere letto come opportuna contromisura collettiva, sì antinomica rispetto al principio di neutralità, ma giustificabile – anche in assenza di un esplicito richiamo all’autodifesa collettiva, ex art. 51 della Carta delle NU e in mancanza di indicazioni chiare delle NU – in risposta alla più grave violazione del diritto internazionale perpetrata dallo Stato aggressore.
Non mancano letture di segno opposto, anche sul piano internazionale. Fornire armi, sia pur allo Stato aggredito, può essere interpretato come uso della forza contro l’altra parte belligerante, e dunque da condannare sulla base dell’art. 2, par. 4, della Carta delle NU.
Rispetto al quomodo, ovvero alle modalità prescelte per effettuare la cessione di armamenti all’Ucraina, diverse le perplessità manifestate.
Sul piano procedimentale, è la distorsione dei rapporti tra organi costituzionali che preoccupa, sia sul piano delle fonti che per gli effetti dirompenti sugli equilibri istituzionali della forma di governo.
Innanzitutto, a livello procedurale, l’ordine degli interventi collide con il dettato normativo.
L’art. 10, comma 1, lett. a) del dlgs. 15 marzo 2010, n. 66 prevede che le deliberazioni in materia di difesa e sicurezza siano adottate dal Governo e poi sottoposte all’esame del Consiglio supremo di difesa.
Scoppiata la guerra russo-ucraina, è invece quest’ultimo a intervenire per primo, il pomeriggio del 24 febbraio 2022, definendo, peraltro, in modo preciso e risoluto, la posizione dell’Italia rispetto all’aggressione militare della Federazione russa.
Non è il mero rispetto della forma che si invoca nel caso di specie, quanto piuttosto la garanzia della sostanza che si cela dietro la forma. L’intervento del Governo risponde all’esigenza di dar voce all’indirizzo politico del Paese, quello del Consiglio supremo di difesa, presieduto dal Presidente della Repubblica, all’espletamento di una funzione di garanzia.
Ecco il senso di rispettare l’“ordine”.
Garantire che il Governo eserciti le sue funzioni e non sia mero spettatore.
Le deliberazioni dell’esecutivo, una volta adottate, suscitano peraltro ulteriori dubbi.
Si tratta del decreto-legge n. 14 del 2022, intitolato “Disposizioni urgenti sulla crisi in Ucraina» e del decreto-legge n. 16 del 2022, intitolato “Ulteriori misure urgenti per la crisi in Ucraina”.
Esaminando con attenzione il rapporto che lega tali atti, emerge che, in sede di conversione del primo decreto-legge, il Governo propone e vede accolto un emendamento volto a recepire il contenuto del successivo decreto-legge, ad abrogarlo, facendo salvi però gli effetti da esso prodotti, così come gli effetti giuridici nel frattempo sorti.
Una combinazione di provvedimenti emergenziali che fa riaffiorare il ricordo della reiterazione, sia pur con una tecnica più “raffinata”. Che si tratti di abrogazione, denegata conversione o conversione “mascherata”, accompagnata da una sanatoria disposta in sede di conversione, sono comunque evidenti la confusione e il pregiudizio alla certezza del diritto che ne scaturiscono.
Non è la prima volta, peraltro, che si ricorre a siffatta “anomalia”, sebbene sia palese il contrasto con l’art. 77 Cost., come emerge dalla giurisprudenza costituzionale sulla omogeneità contenutistica e sulla tipizzazione della legge di conversione e come stigmatizzato, in più occasioni, dal Presidente della Repubblica e, nel caso di specie, anche dal Comitato per la legislazione che ricorda la necessità di circoscrivere a circostanze di eccezionale gravità «una simile confluenza tra decreti-leggi contemporaneamente all’esame per la loro conversione».
Se un tempo il ricorso quantitativamente eccessivo alla decretazione d’urgenza induceva a dubitare sull’esistenza di un’emergenza “infinita”, più di recente, a fronte del verificarsi di vere e proprie emergenze – la pandemia, la guerra – è l’abuso qualitativo che destabilizza.
Anche questa non è una novità. Anzi. Sembra proprio che le modalità di ricorso, in tali occasioni, alla decretazione d’urgenza ben si attaglino a quei tanti e gravi episodi di “violenza del diritto” realizzati, nel tempo, con decreto-legge.
Il che incide indubbiamente sui gangli nodali del rapporto tra Governo e Parlamento o, meglio, è espressione di quel disfunzionamento organico della democrazia maggioritaria.
Gli ingranaggi del sistema duale pare infatti abbiano girato a vuoto, dimostrando una profonda discrasia tra il dire e il fare, tra l’esigenza di ripristinare l’operatività dei pilastri portanti la forma di governo parlamentare e la prassi, ormai sempre più spesso sviluppatasi nel segno della regolarità.
I più recenti interventi legislativi, in armonia con il testo costituzionale, sembrano ispirati dalla necessità di ristabilire l’equilibrio decisionale tra organi costituzionali, in nome di un più marcato interventismo parlamentare.
La gestione dell’emergenza ucraina dimostra invece un’alterazione dello schema costituzionale e dell’impianto legislativo. Con il decreto-legge n. 14, infatti, il Governo è l’assoluto protagonista e relega in una posizione di totale marginalizzazione il Parlamento che, contrariamente a quanto indicato dalla legge n. 145 del 2016, non viene neanche interpellato per autorizzare la partecipazione dell’Italia alla missione internazionale. Quando, però, con il decreto-legge n. 16 del 2022 si dispone, almeno, l’acquisizione di un previo atto di indirizzo alle Camere, queste invitano il Governo a consentire la cessione di armi all’Ucraina, ricorrendo a formulazioni talmente generiche e indeterminate da spingere a ritenere che si tratti di una vera e propria “delega in bianco”.
Ma allora viene da chiedersi se, ancora una volta, è lo stesso Parlamento a contribuire a quella progressiva erosione del proprio ruolo decisionale, manifestando una certa “disaffezione” verso l’esercizio delle proprie funzioni, se non una passiva accettazione dello “strapotere” del Governo.