di Alessandra Algostino
Il 24 febbraio 2022 l’aggressione di Putin all’Ucraina riporta, dopo il sanguinoso conflitto nella ex-Jugoslavia, la guerra in Europa e un clima belligerante pervade il discorso pubblico.
Piero Calamandrei nel 1945 scrive: «la dottrina democratica non è fatta per arrestarsi e per concludersi alle frontiere nazionali. è verità ormai troppe volte tragicamente scontata che totalitarismo e dittatura all'interno significano inesorabilmente nazionalismo e guerra all’esterno»; si può chiosare: e viceversa.
Il nesso fra pace e democrazia emerge in tutta la sua pregnanza in relazione alla guerra in Ucraina.
La logica della guerra, con la militarizzazione del discorso pubblico, travolge dissenso e pluralismo, ovvero quel conflitto che della democrazia costituisce l’essenza. La propaganda bellica espelle, tacciandole di tradimento, le opinioni non allineate, scagliandosi contro ogni contestualizzazione e tentativo di lettura all’insegna della complessità: la semplificazione binaria amico/nemico, in chiave schmittiana, non appartiene all’orizzonte di una democrazia conflittuale e pluralista. La guerra tinge con un’aura etico-eroica il processo di criminalizzazione del nemico, in un crescendo di omologazione culturale, distrazione dal conflitto sociale e occultamento del disastro ambientale.
Guerra ed emergenza quindi sono alleate del processo di verticalizzazione del potere, di ormai lungo corso e già accelerato con la gestione dell’epidemia di Covid-19, contribuendo a svuotare la democrazia costituzionale. L’esautoramento, o auto-marginalizzazione, del Parlamento è evidente nella risoluzione approvata il 1 marzo 2022 dall’Assemblea del Senato della Repubblica e dall’Assemblea della Camera dei deputati che nel suo fraseggiare vago e indefinito configura una delega in bianco al Governo.
La guerra ridisegna la geopolitica degli Stati ma rimodella anche la democrazia, comporta «una certa dose di militarizzazione della democrazia» (Asor Rosa).
A fronte di quanto detto, appare, allora, la forza del legame fra pace e democrazia e il senso del riconoscimento del principio pacifista.
L’articolo 11 Cost. sancisce gli obiettivi di pace e giustizia come fini che attraversano trasversalmente le tre proposizioni dell’articolo e costituiscono la cornice nella quale si inserisce armonicamente il ripudio della guerra.
Il ripudio – forte – della guerra (basti ricordare come il termine «ripudia» fu scelto dai costituenti rispetto a «condanna» e «rinunzia» perché più «energico»), come noto, contempla solo l’eccezione della guerra di legittima difesa ed è inscindibilmente legato all’azione per la pace: dunque, ne consegue per l’Italia l’obbligo di perseguire il “cessate il fuoco” e una soluzione pacifica, mentre l’invio di armi (di cui all’art. 1 del decreto legge n. 16 del 28 febbraio 2022) si configura come una forma di partecipazione alla guerra, in quanto tale vietata. La doverosa solidarietà nei confronti del popolo ucraino aggredito – senza dimenticare che essa è/dovrebbe essere un principio universale, seguito nei confronti di tutti i popoli oppressi e di tutti i rifugiati – deve seguire le vie della pace (nell’orizzonte del “si vis pacem para pacem”), in coerenza con la volontà di rifuggire, e non prolungare, la spirale di violenza e di sofferenza che la guerra reca con sé.
Il principio pacifista, e, in esso, il ripudio della guerra rappresentano un controlimite a fronte di qualsivoglia consuetudine internazionale e obbligo internazionale volti ad estendere l’ambito della legittima difesa (rispetto all’attacco armato ad un territorio), vuoi introducendo l’ossimoro della guerra umanitaria vuoi l’aggressione mascherata della guerra preventiva vuoi ricorrendo ad una interpretazione “estensiva” della Responsibility to Protect.
A fronte di una consuetudine o di un obbligo internazionale opera il limite dei principi fondamentali (ex multis, Corte cost., sent. n. 238 del 2014), fra i quali il principio di ripudio della guerra con l’esplicito bando della guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
Il riferimento è all’art. 11 Cost., mentre non sono pertinenti l’art. 52 Cost., con la previsione della «difesa della Patria» come «sacro dovere del cittadino», e gli articoli 78 e 87 Cost., che trattano dello stato di guerra, stabilendo il ruolo di Parlamento, Governo e Presidente della Repubblica, in una prospettiva garantista e di equilibrio fra i poteri: tutte le norme citate trovano inderogabilmente attuazione solo all’interno dei confini delineati nell’articolo 11 (ovvero nell’ipotesi della guerra di legittima difesa).
Si aggiunga che nel caso di specie non si pone nemmeno la questione di un eventuale sostegno ad un membro dell’Alleanza atlantica (Trattato Nord Atlantico, 4 aprile 1949, art. 5) o dell’Unione europea (art. 42 TUE), non essendo l’Ucraina parte di nessuna delle due organizzazioni.
Quanto alla partecipazione alla NATO, può precisarsi come essa sia un’organizzazione dalla quale discendono obblighi internazionali sulla base della sottoscrizione di un trattato internazionale, che si riferisce all’art. 11 Cost. (solo) in quanto è tenuta a rispettarne i parametri, a partire dal ripudio della guerra, con conseguente illegittimità dell’adesione nel caso di sconfinamento rispetto agli stessi (si pensi al Kosovo 1999, Iraq 2003, Libia 2011).
In altri termini: non è certamente la NATO, ma sono le Nazioni Unite l’organizzazione alla quale pensavano i costituenti quando ragionavano di «limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11 Cost.) e pace e giustizia permeano, come detto, tutto l’articolo 11 costituendo un unicum con il ripudio della guerra, donde la simbiosi fra il principio pacifista e il principio internazionalista. L’apertura alla comunità internazionale avviene all’insegna del ripudio della guerra e del perseguimento della pace: la partecipazione ad organizzazioni internazionali non solo non può giustificare deroghe al principio pacifista, bensì può avvenire solo se non determina una sua violazione.
Il diritto internazionale, quindi, insegna come non sia in discussione il diritto dell’Ucraina di esercitare la legittima difesa, ovvero «il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva» a fronte di un’aggressione, ovvero di un attacco armato, quale indubbiamente è quello condotto dalla Russia, ai sensi dell’art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite.
Quanto agli altri Stati, l’art. 51, in coerenza con la volontà di «salvare le future generazioni dal flagello della guerra», precisa: «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale».
La legittima difesa è associata alla previsione di un’azione da parte della comunità internazionale tesa al mantenimento o al ristabilimento della pace; un’azione che ai sensi della Carta dell’Onu prevede un ruolo incisivo del Consiglio di Sicurezza, il che, nel caso di specie, costituisce evidentemente un elemento di debolezza quanto al possibile ruolo delle Nazioni Unite, ma non esime tutti gli appartenenti alla comunità internazionale dal compito di ricercare una soluzione pacifica.
La ricerca della pace, dunque, come fine da perseguire, non un’escalation nel linguaggio e nell’invio di armi che normalizza scenari apocalittici come l’olocausto nucleare e rende sempre più palese come, dietro l’immagine di uno scontro manicheo fra democrazia e autocrazia, si occulti la realtà di una competizione viepiù violenta per l’egemonia dove, tra i molteplici interessi in gioco, nel sovrapporsi di politica di potenza ed interessi economici, emerge la volontà degli Stati Uniti (e di una NATO che opera come in una riedizione allargata della dottrina Monroe del 1823) di stroncare ogni possibile tentativo di creare un blocco europeo indipendente (un tentativo, invero, che una tentennante Europa manifesta assai flebilmente), così come di indebolire il potenziale asse russo-cinese.
La pace richiama l’essenza profonda del costituzionalismo come limitazione del potere, che nella guerra si esprime nella più cruda e violenta materialità, e, a fronte della «morte universale» (Manifesto Russel-Einstein, 1955), evoca altresì la ricerca della pace come espressione di una hobbesiana autoconservazione dell’uomo che usa la ragione: la ragione che si sta perdendo nella «vertigine della guerra» (Caillois).