di Elisabetta Catelani
Uno degli obiettivi indicati nel programma del nuovo governo è quello di dare compimento all’art. 116 terzo comma Cost. “in attuazione dei principi di sussidiarietà e solidarietà”, ma anche “in un quadro di coesione nazionale”. Obiettivi questi non facili da far convivere insieme, ma da cui non si può prescindere e che devono condizionare ogni intervento normativo.
A tal fine si stanno percorrendo due strade: da un lato sono state approvate alcune disposizioni all’interno della legge di bilancio 2023 (commi 791-804 della legge n. 197/2022), che stabiliscono le modalità per disciplinare i livelli essenziali delle prestazioni al fine di attuare sia il regionalismo differenziato, che il PNRR, dall’altro un disegno di legge più specifico per l’attuazione dell’art. 116. 3 Cost. elaborato dal Ministro per gli affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, ora approvato in Consiglio dei ministri.
Due interventi che hanno sollecitato il dibattito, in realtà mai sopito, ma certamente condizionato dal diverso attivismo della maggioranza governativa sull’opportunità, in ordine alle modalità di attuazione di una delle norme più controverse della riforma del titolo V. I tentativi fino ad ora non hanno avuto esito, ma questa legislatura può avere i presupposti per portare a quella trasformazione, disegnata in modo assai criptico nella norma costituzionale, desiderata da alcuni, ma vista con grande preoccupazione da molti per gli effetti che può determinare sulla forma di Stato, sulla tutela dei diritti sociali e sul rispetto della parità di trattamento dei cittadini.
È inutile, pertanto, tornare ancora una volta sui limiti della formulazione della norma costituzionale, che dovrebbe essere oggetto di revisione, che avrebbe dovuto limitare le materie differenziabili e che avrebbe dovuto dare indicazioni maggiori in ordine al procedimento da seguire. Rilievi questi ragionevoli, ma inutili in questo contesto.
Occorre prendere atto del contenuto attuale della norma costituzionale e capire come il regionalismo differenziato possa essere realizzato senza incidere sull’unità ed indivisibilità giuridica ed economica della Repubblica, tenendo conto che l’art. 116.3 Cost. non vive di vita autonoma, ma nel contesto di un più ampio disegno autonomistico, che parte dall’art. 5 Cost e che ora si completa in particolare con gli art. 117, 118 e 119 Cost., che caratterizzano ed indirizzano anche le nuove asimmetrie. D’altra parte, l’autonomia porta di per sé come conseguenza la differenziazione, ma si deve trattare di una differenziazione che non vada contro i principi costituzionali ora richiamati e contro la tutela dell’eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini, già messa in serio dubbio con l’attuale assetto dell’autonomia regionale.
Tutto ciò non esclude di dimenticare le ragioni di questa maggiore richiesta di autonomia da parte delle regioni del Nord, confinanti con le regioni speciali e che vivono ogni giorno, e più di altre, la differenziazione organizzativa ed economica, che non è invece riconosciuta alle regioni ordinarie.
A questo si accompagna un’altra e strutturale ragione connessa al tendenziale eccesso di centralismo della legislazione statale, dei rilievi, talvolta pretestuosi, che vengono spesso sollevati nei confronti delle leggi regionali e che hanno incrementato per lungo tempo la conflittualità fra le regioni. Ed anche se il numero di questioni rimesse alla Corte costituzionale nell’ambito del giudizio in via principale si è ridotto negli ultimi anni, non viene meno la necessità di “contrattare” con le Amministrazioni centrali ogni legge che in qualche modo possa andare a incidere sulla legislazione statale, imponendo alle regioni modifiche successive ed in linea con la volontà, non del governo nel suo complesso, ma delle singole Amministrazioni centrali che si interfacciano con le regioni. Dall’altro lato, le leggi statali, una volta passate dal parere favorevole o dall’intesa in Conferenza, raramente sono oggetto di impugnazione, nel rispetto del principio della leale cooperazione. Cosicché le regioni percepiscono le proprie competenze, specialmente quelle concorrenti, come ingabbiate entro limiti nebulosi, spesso affidati al criterio interpretativo del singolo dirigente ministeriale, che rende invalicabili tali muri e, viceversa, con una grande difficoltà a porre freni alla legislazione dello Stato, che spesso va oltre i limiti costituzionali. Da qui la convinzione della necessità di ridurre quei limiti derivanti dalla determinazione dei principi fondamentali (che poi non si limitano ad essere solo principi fondamentali e generali con l’avallo della Corte costituzionale), ma di avere un’autonomia normativa piena nelle materie oggetto di differenziazione.
La terza e forse principale ragione è quella economica, al fine di consentire alle regioni di avere maggiori fondi da poter gestire autonomamente senza vincoli, in un numero sempre più ampio di materie, con i trasferimenti che potrebbero arrivare una volta attuato il 116. Si pone quindi preliminarmente il presupposto per l’avvio del 116, che, come dice la norma, può operare “nel rispetto dei principi di cui all'articolo 119”, quindi a condizione che tale norma sia effettivamente e pienamente attuata. Già questo aspetto ci fa comprendere come la strada per giungere ad un regionalismo differenziato è assai più lunga di quanto possa apparire dal combinato disposto legge di bilancio ‘23/DDL Calderoli.
Molte sono state le critiche mosse ed i rilievi di incostituzionalità su tale disegno di legge, che inducono ad alcune riflessioni in proposito.
Innanzitutto, è parsa anomala la tipologia di atti normativi o para normativi che regoleranno la materia (più oltre si farà riferimento al ruolo dei DPCM). Ci si è domandati se una legge ordinaria possa costituire parametro e condizionare proceduralmente le successive leggi atipiche e rinforzate di approvazione delle intese. Da un punto di vista dei rapporti fra fonti esiste evidentemente un problema di fondo della tipologia degli atti, perché se è normale dare attuazione a norme costituzionali con la legge formale, qui si va a condizionare ed indirizzare il contenuto di una legge che ha una natura diversa. D’altra parte, la nostra Costituzione non prevede la possibilità di emanare leggi organiche, anche se sarebbe auspicabile, cosicché spesso il legislatore ordinario è intervenuto per regolare l’attività normativa e la relativa disciplina è stata prevalentemente rispettata (si pensi agli artt. 14, 15 e 17 della legge n. 400 del 1988).
La strada che era stata percorsa alla fine del governo Gentiloni con intese fra le regioni interessate ed il governo, non era sicuramente adeguata, come già ho cercato di dimostrare allora, né quella ora prospettata della semplice modifica dei regolamenti parlamentari, che sarà sicuramente necessaria, per quanto riguarda le competenze delle singole Camere, ma non idonea a disciplinare le modalità attraverso cui si formeranno le intese.
Cosicché è ragionevole, direi necessaria, la previsione e la regolamentazione della materia con una legge, anche se il suo valore e il rispetto del contenuto è affidato alla buona volontà del governo/parlamento, perché solo con la futura legge si può condizionare l’iter che il governo potrà seguire ed in particolare si potranno disciplinare gli interventi degli altri soggetti interessati e coinvolti al procedimento, non richiamati formalmente dall’art. 116, come quelli delle Conferenze, sicuramente essenziali al buon esito dell’intesa. “Intese” che non possono essere pienamente assimilate a quelle disciplinate dall’art. 8 Cost., perché i soggetti coinvolti sono plurimi e non limitati a due soggetti (regione/Stato), così come hanno una natura diversa dalle “intese” che troviamo come preliminari all’attività legislativa o amministrativa che interessa materie concorrenti.
Sono “intese” queste che andranno a modificare la forma di Stato e, proprio per questo, richiedono un’attenzione particolare per il coinvolgimento adeguato di tutti gli organi ed i soggetti interessati e che possono subire effetti da esse, ossia le altre regioni che non intendono aggiungere altre competenze e gli enti locali delle “altre” regioni che altrimenti non potrebbero far sentire la loro voce.
Una seconda critica che viene mossa al combinato disposto legge di bilancio/DDL riguarda il ruolo marginale del Parlamento nella formazione del procedimento preliminare alla formulazione del disegno di legge che conterrà l’intesa, perché egemonizzato dal governo ed in particolare dal rapporto fra governo statale e regionale di riferimento. Critiche che non tengono conto, da un lato dell’evoluzione della forma di governo nella costituzione materiale con una centralità del governo in ogni attività normativa, ma anche del fatto che la complessità nella discussione tecnico/economica dell’intesa, anche per quanto riguarda i riflessi amministrativo/contabili non può essere espressione degli apparati legislativi, ma appunto dei tavoli tecnici governativi. Quindi è da apprezzare che proprio nella discussione preliminare alla formulazione del disegno di legge contenente l’intesa, il Parlamento sia coinvolto con un’attività consultiva delle Commissioni parlamentari, così come le altre regioni e gli altri enti locali possano interloquire grazie al parere della Conferenza unificata (art. 2). Certo si tratta di interventi contingentati nei tempi, come se si fosse in fase di approvazione di un decreto legislativo.
Anzi tutto il procedimento è caratterizzato dalla fretta di giungere al risultato finale. Secondo la legge di bilancio 2023 la Cabina di regia entro il prossimo giugno dovrebbe aver fatto una ricognizione della normativa statale e delle funzioni dello Stato e delle regioni, alla cui identificazione sono state chiamate a contribuire anche le regioni, che potranno rispondere o meno, data la genericità del presupposto del loro intervento, lasciando così allo Stato la loro identificazione, che inevitabilmente sarà sommaria. La Cabina di regia deve poi provvedere alla ricognizione della spesa storica di tutte le materie dell’art. 116 (su cui tanti dubbi sono stati sollevati in ordine alla capacità d’influenza anche sui futuri costi standard, e di cui non c’è più traccia nel Ddl Calderoli) ed infine, cosa più delicata, l’individuazione delle “materie o gli ambiti di materie” che possono essere individuati come LEP. Ma se dalla legge di bilancio 2023 sembrava che la competenza fosse tutta interna al governo (Cabina di regia e poi direttamente DPCM regolativi dei LEP e dei relativi costi standard), l’art. 3 del DDL nell’ultima stesura affida, giustamente, alla legge la determinazione delle materie LEP e non LEP.
Se quindi l’estensione del ruolo dei DPCM si è in parte ridotto, non vengono meno i dubbi in ordine all’uso assai disinvolto di questi atti negli ultimi tempi. Utilizzo volontariamente il termine generico di atto, perché l'impiego e la sua stessa qualificazione non è sempre omogenea, dimostrando la sua capacità di essere duttile e adattabile alle varie situazioni, in particolare passando da atto espressione solo della volontà del Presidente del Consiglio dei ministri, come abbiamo constatato durante l’emergenza, ad atto che vede un coinvolgimento degli altri soggetti ed organi interessati. In questo caso l’adozione dei DPCM è subordinata, infatti, all’ “intesa” della Conferenza unificata, al parere delle Camere, ossia all’insieme dei pareri delle varie Commissioni competenti della Camera e del Senato (compresa la bicamerale per le questioni regionali) ed infine ad una deliberazione di tutto il Consiglio dei ministri. Uno o più DPCM che devono essere oggetto di ampia condivisione da parte di tutti i soggetti interessati e che rappresenta un condizionamento sicuramente apprezzabile. Atti questi che non possono essere qualificati “atti amministrativi tipizzati” (come precisato nella sent. n. 198 del 2021), ma veri e propri regolamenti ministeriali, atti normativi secondari di esecuzione diretta della legge, come d’altra parte già affermato dalla stessa Corte con sent. n. 134 del 2006 con riguardo ai LEA.
Si tratta quindi di un procedimento complesso, nonostante le apparenze ed i tentativi di comprimere i tempi di decisione, che presuppone l’individuazione delle materie LEP e non LEP, la determinazione dei costi e fabbisogni standard per le materie LEP, il trasferimento delle risorse umane, strumentali e finanziarie per entrambe, ma, prima di tutto, l’attuazione dell’art. 119 Cost., sempre rinviata, ma che costituisce la premessa a tutto il procedimento. Le nuove e maggiori risorse auspicate dalle regioni “autonomiste” o non potranno essere minimamente erogate, vista la clausola dell’invarianza finanziaria prevista dall’art. 8 DDL ovvero, e questo è il maggior problema che si pone, ulteriori e maggiori disparità si verrebbero ad aggiungere all’attuale divario nella tutela dei diritti sociali nelle regioni, in particolare in quelle del sud.
Ammesso e non concesso che con l’iter ora indicato si giunga alla formulazione delle intese fra governo statale e regionale, le competenze si trasferiscono poi agli organi legislativi, con il procedimento previsto in Costituzione da cui non si può prescindere. Illegittimo costituzionalmente pare pertanto il comma 6 dell’art 2 DDL Calderoli che ipotizza la presentazione di un disegno di legge del governo e non della “regione interessata” come indicato dalla norma costituzionale. L’art. 116.3 Cost. fa riferimento all’iniziativa della regione e non si può prescindere da un atto formale di essa. Come si è cercato di ricostruire, il ruolo del governo nella formulazione dell’intesa non può essere marginale, ma, una volta che l’intesa sarà raggiunta dai governi statali e regionali, non il Consiglio dei ministri, bensì il Consiglio regionale o comunque l’organo a cui lo Statuto regionale affiderà tale competenza (art. 2.5) presenterà il disegno di legge contenente l’intesa che sarà oggetto di esame e poi approvazione a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, secondo le norme dei rispettivi regolamenti.
Saranno le Camere, quindi, a poter decidere l’opportunità di una modifica regolamentare e solo in questo contesto potranno decidere il loro ruolo, la loro volontà d’interferire sulle precedenti decisioni adottate, oppure si affiderà tutto alla prassi, come avviene per il procedimento di approvazione delle intese con le confessioni religiose. In via regolamentare si potrà scegliere la soluzione del mero accoglimento o rigetto dell’intesa nel suo complesso da parte delle Camere, prevedere la possibilità di accoglimento parziale, o ancora ipotizzare un iter ulteriore in caso di emendamenti formali e/o sostanziali.
Se tutto questo si realizzerà, la differenziazione sarà sostanzialmente irreversibile. Altro profilo di cui occorre avere piena contezza. L’art. 7 del DDL Calderoli apparentemente lascia spazio ad una revisione e fa intravedere una temporaneità della riforma, ma se la prima intesa non verrà circostanziata in modo rigido e netto proprio in ordine alla possibilità dello Stato di revocare la maggiore autonomia, individuando specificamente i presupposti che consentano allo Stato un trasferimento delle competenze (es: situazioni di emergenze, pandemie ecc.), sarà molto difficile tornare indietro, come l’esperienza del rapporto Stato/regioni speciali ha dimostrato. A ciò si aggiunga che la legge che contiene l’intesa è atipica e rinforzata e che pertanto non potrà neppure essere oggetto di referendum abrogativo come precisato dalla Corte per tali tipologie di leggi fin dalla sent. n. 16 del 1978.
Un ultimo riferimento non può non essere fatto all’estensione della differenziazione anche alle regioni speciali, come parrebbe potersi desumere dall’art. 10 comma 2 del DDl Calderoli. Come già è stato ben spiegato da tempo in dottrina, quelle “altre” regioni a cui fa riferimento l’art. 116.3 Cost. non può non essere interpretato se non in contrapposizione alle destinatarie prevalenti dell’articolo che sono appunto le regioni speciali. Varie sono le ragioni che inducono a non ritenere ragionevole e forse anche illegittima tale estensione, vista la stessa formulazione della norma costituzionale. Innanzitutto, si aggiungerebbe asimmetria ad asimmetria, con una rincorsa delle regioni speciali all’estensione delle competenze, che in questo caso non sarebbe riconosciuta a tutte le regioni, ma solo ad alcune di esse, con riguardo alle specifiche esigenze di quella regione, ed eventualmente con un ritaglio di materia connessa a quel contesto. In ogni caso, la clausola “generale” di maggior favore, presente nell’art. 10 della legge cost. n. 3/2001, non può prevalere sulla disciplina speciale contenuta nel comma 3 dell’art. 116 introdotta con la stessa legge costituzionale. Ulteriore conferma può poi essere desunta dal contenuto della riforma costituzionale Boschi-Renzi, che espressamente prevedeva l’estensione alle regioni speciali delle norme dell’art. 116.3 Cost. Una legge ordinaria non si può pertanto sostituire ad una disposizione costituzionale che sarebbe eventualmente necessaria.
In definitiva, il disegno di legge Calderoli presenta luci ed ombre. Può essere utile per chiarire il contenuto dell’art. 116.3, ma contiene una procedura legislativa che potrà essere rispettata, come invece superata da altra tipologia di procedimento che la legge contenente l’intesa ed approvata dalle Camere a maggioranza assoluta vorrà seguire. È un disegno di legge che tiene conto del ruolo centrale dell’esecutivo nella nostra forma di governo e dell’essenzialità di un suo intervento preparatorio alle intese, visto che lo stesso Parlamento non ha dato attuazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 sulla integrazione della Commissione bicamerale per le questioni regionali. Nello stesso tempo, l’attività del governo nella formazione delle intese viene condizionato dal rispetto degli interessi degli altri soggetti coinvolti al procedimento (altre regioni, altri enti locali, varie Commissioni parlamentari) non lasciando quindi piena autonomia all’esecutivo. L’ultima parola poi sarà affidata alle due Camere che attraverso i propri regolamenti potranno disciplinare l’iter di propria competenza.
La strada per giungere al regionalismo differenziato è ancora lunga e tortuosa.