di Francesca Biondi
La tornata referendaria in corso ripropone al costituzionalista alcuni interrogativi sia sull’istituto referendario nell’ordinamento costituzionale italiano, sia sul giudizio che la legge costituzionale n. 1 del 1953 ha affidato alla Corte costituzionale.
In primo luogo, non è inutile (ri)chiedersi quale funzione svolga il referendum abrogativo e quale potrebbe svolgere in futuro. Premesso che si tratta di istituto che ha una natura polifunzionale, l’impressione è che in questa tornata i proponenti avessero perlopiù l’obiettivo di rivitalizzare le dinamiche della forma di governo parlamentare: infatti, anziché porre nel dibattito pubblico argomenti nuovi, si intendeva piuttosto richiamare le Camere al dovere di occuparsi di temi già da tempo all’attenzione del Parlamento. È certo così per i quesiti in tema di ordinamento giudiziario (la cui riforma è da tempo auspicata), ma anche, e soprattutto, per il referendum che aveva ad oggetto l’art. 579 c.p. che tocca i temi del fine vita.
C’è però una circostanza che distingue questa vicenda da quelle del passato: questa tornata referendaria si colloca in una fase della storia parlamentare italiana in cui la maggioranza è così ampia ed eterogenea da trovarsi in difficoltà quando la decisione da assumere esce dal perimetro tracciato dal programma di Governo. E, allora, in un contesto politico-parlamentare che induce a mettere da parte temi divisivi, il voto referendario non assume, più che in passato, la funzione di integrare la rappresentanza politico-parlamentare?
Una seconda riflessione investe l’uso che i partiti politici possono fare del referendum abrogativo.
In questa tornata, sui sei referendum “sulla giustizia” (presentati da un comitato promotore il cui Presidente era un segretario di partito) era iniziata la raccolta delle firme; in seguito, però, quegli stessi quesiti sono stati presentati da più Consigli regionali, retti dalla stessa maggioranza politica, i quali hanno assolto il comitato promotore dall’onere della raccolta delle firme e dei certificati elettorali. Si tratta di un esempio quasi “di scuola” della possibilità che il referendum possa essere usato dai partiti per incidere, anche dall’esterno, sulle dinamiche parlamentari.
Nel contempo, sempre nei mesi scorsi, si è per la prima volta sperimentata la possibilità di firmare digitalmente. Potrebbe la tecnologia favorire iniziative spontanee “dal basso” o il referendum abrogativo, a prescindere dalla modalità di presentazione, è strumento che si presta comunque, al fondo, ad essere perlopiù “guidato” dai partiti politici?
Ancora, la “facilità” di raccogliere firme in forma digitale altera in qualche modo forme e condizioni relative alla richiesta di referendum ex art. 75 Cost.?
Il terzo, forse più ampio, tema di riflessione riguarda il “dono avvelenato” che la legge costituzionale n. 1 del 1953 fece alla Corte costituzionale (così Leopoldo Elia). Il giudizio di ammissibilità, una volta sganciato dall’art. 75 Cost., si è in concreto trasformato in un giudizio “senza parametro” o, se si preferisce, “rispetto ad ogni parametro”. La Corte costituzionale, infatti, può mettere in discussione la scelta dell’oggetto (attraverso il canone dell’omogeneità), la formulazione del quesito (chiarezza, univocità, manipolatività), e, soprattutto, può esprimere valutazioni sul rapporto tra le norme oggetto della richiesta e qualunque norma costituzionale, al fine di verificare se una legge è a contenuto costituzionalmente vincolato, è costituzionalmente necessaria o se contiene il livello minimo di tutela richiesto da alcuni principi costituzionali.
Tutto ciò rende quello di ammissibilità un giudizio dall’esito particolarmente incerto, come dimostrato anche dalle più recenti pronunce.
In particolare, con riferimento al limite della manipolatività, un conto è che la Corte si preoccupi di garantire l’espressione di un voto consapevole (è evidente che “tagliare e ricucire” un periodo lo rende incomprensibile), altro è il controllo sulla natura abrogativa (e non propositiva) del quesito. Ormai la Corte verifica sempre se il referendum parziale è preordinato a restituire una disciplina diversa da quella che si otterrebbe attraverso meccanismi di riespansione o autointegrazione dell’ordinamento. Ma regge davvero la distinzione tra referendum abrogativo e referendum propositivo? Riesce davvero la Corte, con questo criterio, ad assegnare al referendum la natura di fonte a valenza unidirezionale? O è giunto il momento di ammettere che qui il terreno è davvero scivoloso, sia sul piano teorico, sia per gli esiti imprevedibili di tale verifica (da ultimo, si legga la sentenza n. 49 del 2022 con cui è stato dichiarato inammissibile il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati)?
In ordine, poi, alla distinzione, ribadita nella sentenza n. 50 del 2022, tra il giudizio di ammissibilità del referendum e il controllo di legittimità costituzionale, se ben se ne comprendono le ragioni (perché ciò consente alla Corte di non vincolarsi ad affermazioni rese nel controllo di ammissibilità), è tuttavia evidente – soprattutto a partire dalla sentenza n. 45 del 2000 – che la linea di demarcazione è evanescente. La Corte non si sottrae affatto dal verificare la compatibilità tra la situazione normativa che produrrebbe il referendum e la Costituzione (si legga ora soprattutto la sentenza n. 50 del 2022 sul reato di omicidio del consenziente, ma anche la sentenza n. 49 del 2022 in cui la Corte, come mai nelle precedenti pronunce, definisce quella sulla responsabilità civile dello Stato una legge costituzionalmente “dovuta”, escludendo in radice la possibilità di applicare la comune disciplina codicistica). Nel contempo, poiché è il referendum abrogativo che spesso impedisce ai promotori di costruire diversamente il quesito, una verifica di compatibilità costituzionale preventiva rende ancora più limitate le armi a disposizione dei comitati.
Al cospetto di questa giurisprudenza, si potrebbero immaginare riforme di rango costituzionale dirette a fissare con maggiore precisione i parametri del controllo di ammissibilità oppure, in radice, a riformare l’istituto del referendum, eventualmente creando un raccordo più stretto con la decisione parlamentare?
Vi è infine un altro aspetto strettamente legato al precedente, ma particolarmente attuale. L’alto tasso di discrezionalità del controllo rimesso alla Corte aumenta il rischio di minarne la legittimazione, soprattutto considerando che il referendum alimenta aspettative collettive?
Il controllo di ammissibilità costituisce l’ultimo tassello di un procedimento che vede impegnati i comitati promotori per quasi un anno ed è inevitabile che l’attesa sia mediaticamente enfatizzata.
Proprio per questo, ci dobbiamo chiedere se le modalità di comunicazione di recente adottate dalla Corte costituzionale si adattano a questo tipo giudizio. Come noto, qualche giorno prima della camera di consiglio i mezzi di comunicazione della Corte hanno diffuso affermazioni del Presidente della Corte sul modo in cui avrebbero dovuto essere istruiti i quesiti da parte degli assistenti di studio dei giudici costituzionali; in seguito, i comunicati sull’esito dei giudizi sono stati accompagnati da una lunga conferenza stampa durante la quale il Presidente del Corte ha personalmente spiegato le ragioni che avevano indotto il collegio a dichiarare ammissibili o inammissibili i singoli quesiti, rispondendo a tutte le domande dei giornalisti. Questo modo di comunicare, di dialogare, di rapportarsi con i cittadini e con i promotori all’esito di un giudizio che – come visto – sconta un alto tasso di discrezionalità è coerente con il ruolo che la Costituzione assegna alla Corte nel nostro ordinamento?