di Chiara Bergonzini
La lettera di Francesca Biondi e Claudio Panzera riporta l’attenzione su una situazione ormai tanto plateale quanto grave, e – almeno per chi segue da quasi tre lustri le questioni di bilancio – suona come un invito alla comunità scientifica a perseverare nella denuncia di un reiterato vulnus istituzionale. In sintesi, e con la consapevolezza di parafrasare con una certa brutalità le osservazioni dei due Autori: il cuore di quella che dovrebbe essere la decisione politica (e democratica) per eccellenza – che, attraverso il bilancio inteso come “bene pubblico” (Corte cost., n. 184/2016), è funzionale a garantire i diritti (nessun pasto è gratis, dicono gli economisti), la tenuta del tessuto sociale, il ruolo che l’Italia può giocare in un contesto europeo e globale in fulminea trasformazione, e addirittura, in ultima analisi, la sopravvivenza del sistema, almeno come immaginato dai Costituenti – è ridotto a una parvenzadi procedimento tecnicamente aberrante e, ancor prima, logicamente insensata. E, per di più, pervasiva: è pacificamente riconosciuto che le sessioni di bilancio rappresentano il laboratorio dove sperimentare soluzioni sempre più lontane dal testo costituzionale, poi esportate nell’attività ordinaria.
Per contribuire alla riflessione può allora essere utile differenziare i piani su cui si collocano i quattro profili indicati dagli Autori, tentando di distinguere, per così dire, cause ed effetti.
In questa prospettiva, bisogna togliere subito dal tavolo la questione dell’incidenza del Semestre europeo, che ormai non «rischia» più di essere, ma senza dubbio è un alibi dietro cui i governi usano nascondersi per giustificare ritardi e azzeramento dei tempi di discussione parlamentare, addossando “all’Europa” responsabilità tutte nazionali. Vero è che dal 2011 le politiche di bilancio devono essere coordinate; altrettanto vero è che lo spazio di interlocuzione con la Commissione sul bilancio in senso stretto è “ridotto” alla seconda metà dell’anno, perché nella prima si ragiona (rectius: si dovrebbe ragionare) di verifiche e di programmazione. Ma, a parte il fatto che proprio la fase – verrebbe da dire: il concetto stesso, in Italia evidentemente ancora incompreso – di programmazione dovrebbe consentire di arrivare a settembre con linee operative almeno relativamente definite, l’alibi è smascherato dalla già menzionata data di attivazione del Semestre europeo, cioè appunto il 2011. La difficoltà di coordinare il processo interno con le nuove scadenze fissate a livello sovranazionale era comprensibile nel 2012, ancora accettabile forse nel biennio successivo; ma se a distanza di dodici anni dalle “innovazioni” ancora non si è riusciti a sincronizzare i meccanismi, la questione del coordinamento non può essere invocata a giustificazione, rappresentando piuttosto un’aggravante. Sul piano della tempistica, concretamente più rilevante è semmai quella del rilascio e quindi della disponibilità dei dati macroeconomici su cui il bilancio deve basarsi, che l’ISTAT continua a definire difficilmente modificabile; ma si tratta comunque di un ostacolo tecnico ben noto agli addetti ai lavori, che non può essere accettato come un elemento estrinseco e immutabile.
Sgombrato il campo dal pretesto europeo, restano i tre piani rispettivamente delle procedure parlamentari, dei controlli costituzionali e delle fonti, in relazione ai quali a chi scrive sembra ormai chiaramente delineabile una sequenza causale: la deriva delle procedure interne alle Camere, iniziata nei primi anni Duemila, mai realmente arginata e che negli ultimi anni pare addirittura avallata nei passaggi di controllo esterno alle Camere, ha condotto all’attuale assetto delle fonti. Non solo tra ottobre e dicembre si concentra il «trittico» (Rivosecchi, Nomos 3-2020) composto da decreto-legge cd. Fiscale - legge di bilancio - decreto cd. Milleproroghe, ma anche le decisioni economico-finanziarie in corso d’anno sono sistematicamente adottate passando per l’art. 77 Cost., producendo atti normativi in cui la mera ricostruzione di una singola fattispecie può richiedere un tale sforzo da chiedersi come sia possibile che ancora qualcosa, in Italia, funzioni. E se l’affermazione suona iperbolica, basta guardare oggi – febbraio 2023 – al caso del cd. Superbonus e dei relativi crediti fiscali: una vicenda di natura squisitamente politico-economica, la cui “sede naturale” avrebbe dovuto essere proprio la programmazione pluriennale di bilancio; vicenda che è stata invece gestita tramite decretazione d’urgenza, sulla base di contingenze estemporanee, perciò inevitabilmente destinata a deflagrare sul sistema economico e, in ultima analisi, sulla tutela di numerosi diritti fondamentali, con conseguenze la cui magnitudo non si è ancora del tutto manifestata.
Venendo così alla domanda di fondo, se si guarda alle «trasformazioni su più fronti che sta subendo il nostro assetto costituzionale», pare evidente che esse risultano ormai incompatibili «con i principi e l’equilibrio fissati nella Carta», a maggior ragione dopo la revisione costituzionale del 2012.
Quali rimedi si possono opporre? Se la sequenza causale individuata è corretta, l’origine del problema è all’interno delle Camere, dove da almeno quindici anni le prassi hanno sostituito i regolamenti, e l’arbitrio procedurale a sostegno delle contingenti esigenze delle maggioranze ha sostituito la legalità, anche costituzionale. Interne dovrebbero quindi essere le soluzioni, su cui peraltro la dottrina insiste da tempo. In estrema sintesi, sul piano generale sarebbe necessario almeno ripensare il ruolo dei Presidenti, abbandonando la mistica dell’arbitro imparziale; recuperare il nemine contradicente, riportandolo alla decisione dell’Assemblea; rinforzare i poteri delle Giunte per il Regolamento, che potrebbero diventare sedi di “appello” delle decisioni presidenziali. Guardando nello specifico alla sessione di bilancio, va innanzitutto ribadito che i deliri procedurali cui si è assistito negli ultimi anni non sono addebitabili tanto a disposizioni regolamentari anacronistiche, quanto piuttosto al fatto che esse sono state prima aggirate, poi eluse e poi definitivamente superate in via di prassi. Volendo comunque rivederle, gli elementi da cui partire sono l’instabilità del testo governativo originario (presentato sapendo che subirà modifiche radicali, quando non l’integrale sostituzione) e soprattutto la possibilità per il governo, direttamente o tramite i relatori di maggioranza, di proporre emendamenti in qualsiasi momento: di fatto, i veri motivi della compressione dei tempi di esame.
Le soluzioni interne richiederebbero, tuttavia, una pre-condizione di base: la percezione e il rispetto della legalità, anche costituzionale, all’interno delle Camere, partendo dal presupposto che le disposizioni costituzionali sulle fonti sono presidio della separazione dei poteri soprattutto – anche se, ovviamente, non solo – in materia di decisioni sui fondi pubblici. Il problema è che tale pre-condizione è ormai tanto evanescente, nel Parlamento italiano, da rendere oggi inverosimile l’idea che sia il Parlamento stesso – non vittima, ma corresponsabile insieme ai governi delle derive su cui riflettiamo – a tornare sui propri passi, attraverso una auto-riforma. Anche l’argine costituito dal potere dissuasivo di un eventuale rinvio ex art. 74 Cost. non può, da solo, contenere il fenomeno, per quanto i moniti presidenziali su leggi di conversione tutt’altro che omogenee siano sempre più perentori (paradigmatica, da ultima, la lettera dello scorso 24 febbraio, con cui il Presidente Mattarella ha accompagnato la promulgazione della legge di conversione del cd. “Milleproroghe” 2022). Per questo da più parti, e da diverso tempo, si invoca l’intervento della Corte costituzionale nel ruolo di “ultima fortezza” (Bin, 1996), quindi in sede di conflitto di attribuzioni, così da non chiamare neanche in causa l’annullamento dell’atto prodotto. L’involuzione delle procedure ha infatti ormai raggiunto un livello tale da rendere difficile comprendere perché la Corte non abbia ancora abbandonato il (pur commendevole fino a un certo momento storico) self-restraint nei confronti delle procedure interne, nonostante nemmeno i moniti contenuti nelle ordinanze del 2019 e del 2020 abbiano prodotto effetti percepibili sulle sessioni successive. In altre parole: a quali «deformazioni» (Corte cost., ord. n. 60/2020) si dovrà ancora assistere, prima che l’unico soggetto legittimato a farlo decida di (almeno iniziare a) imporre il ripristino di un livello minimo di legalità costituzionale?