di Guido Rivosecchi
La lettera di Francesca Biondi e Claudio Panzera individua i punti essenziali entro cui si colloca la decisione di bilancio – rapporto con l’Unione europea; procedure parlamentari e assetto delle fonti; controlli costituzionali – e pone conseguentemente le domande cruciali: chi decide, oggi, sulla finanza pubblica? Come decide? E con quali effetti? Chi controlla?
Si tratta, invero, di alcuni degli interrogativi fondamentali del costituzionalismo e del diritto costituzionale perché scopo della decisione di bilancio è anzitutto assicurare il controllo democratico sulle decisioni di finanza pubblica. Non è certamente un caso che su tale istituto si sia storicamente sviluppato il conflitto tra i poteri per il controllo sull’impiego delle risorse. Se tutti i diritti “costano”, nel senso che sono condizionati nell’attuazione legislativa dalla disponibilità delle risorse o, almeno, da quella che le Corti costituzionali definiscono la «riserva del possibile e del ragionevole», chi controlla le tasse e la spesa pubblica è capace di conformare il rapporto tra poteri e diritti. La decisione di bilancio, quindi, è la più politica delle decisioni ed è per questo affidata dalla Costituzione al Parlamento.
Tanto premesso, è possibile tentare di sciogliere alcuni dei nodi problematici evocati nell’invito al dibattito.
Primo: l’Unione europea. Che la decisione di bilancio sia divenuta una procedura euro-nazionale, da cui esitano scelte condivise tra istituzioni di bilancio comunitarie e statuali, non è certo una novità: lo è almeno da dieci anni per effetto delle ripetute adesioni ai Trattati europei votate dal Parlamento nazionale in linea con il principio costituzionale sopra richiamato circa la centralità della rappresentanza politica nel governo dei conti pubblici (al punto tale da escludere il referendum abrogativo sulle leggi tributarie e di bilancio). Ma il Semestre europeo – come esattamente osserva Chiara Bergonzini – non dovrebbe diventare, per una sorta di eterogenesi dei fini, strumento di limitazione del ruolo costituzionalmente affidato a Governo e Parlamento nella decisione di bilancio e – soprattutto – non dovrebbe essere utilizzato per comprimere il dibattito parlamentare.
Secondo: procedure parlamentari e assetto delle fonti. Ribaltando quello che era stato il punto di approdo del conflitto ottocentesco sulla legge di bilancio, da almeno vent’anni il Governo ha conquistato il completo controllo sulle procedure di bilancio in elusione delle norme costituzionali sul procedimento legislativo e della riserva di esame parlamentare prevista dall’art. 81 Cost. mediante l’abuso della decretazione d’urgenza – capace di interferire con la legge di bilancio (v. decreti-legge “fiscali” e “proroga termini” che, come si è visto anche in questi giorni, costituiscono il vero “centro-motore” della disciplina di governo dell’economia) – e il sistematico ricorso alla questione di fiducia posta su maxi-emendamenti al disegno di legge di bilancio, spesso interamente sostitutivi del testo sino a quel momento discusso. L’effetto di tali prassi è quello di accantonare l’esame parlamentare dei contenuti della manovra e di precludere ogni altro argomento di discussione sull’allocazione delle risorse (lasciata a chi scrive il maxi-emendamento nell’“anticamera” del Parlamento). Inoltre, l’apposizione della questione di fiducia a ridosso del termine costituzionalmente previsto per la conclusione dell’esame dei provvedimenti preclude un effettivo esame da parte della Camera chiamata a svolgere l’esame in seconda lettura determinando il c.d. “monocameralismo di fatto” o “bicameralismo alternato”.
È difficile ipotizzare che tali torsioni possano essere contenute mediante riforme dei regolamenti parlamentari rivolte ad aggiornare la pur obsoleta disciplina regolamentare per la semplice considerazione che le violazioni delle norme costituzionali sul procedimento sono spesso perpetuate in via di prassi mediante l’applicazione di regole non scritte sulla scorta di una malintesa dottrina del “precedente” parlamentare: l’unica regola che governa l’intera sessione di bilancio determinando il rovesciamento della gerarchia delle fonti.
Lungi dal poter essere raddrizzate con gli strumenti del diritto parlamentare, le storture delle procedure di bilancio costituiscono una delle più rilevanti questioni problematiche di diritto costituzionale perché chiamano in causa la stessa prescrittività delle norme costituzionali. L’art. 81 Cost. costituisce, oggi, il principale strumento di produzione di fonti di rango primario poiché, assieme ai decreti-legge, il disegno di legge di bilancio è l’unico a tempi di esame costituzionalmente garantiti e in esso, quindi, confluiscono larga parte dei contenuti normativi. Quale fonte sulla produzione, esso dovrebbe assumere rilievo nella prospettiva della separazione dei poteri e, quindi, della distinzione dei ruoli tra Governo e Parlamento. All’opposto, le degenerazioni da tempo in atto vengono spesso sottostimate ed erroneamente ricondotte – anche in dottrina – a fisiologiche trasformazioni della forma di governo parlamentare.
Infine, i controlli costituzionali. Mi soffermo soltanto al ruolo del Giudice delle leggi, perché limiti di ordine costituzionale non consentono al Capo dello Stato di andare oltre i già significativi interventi a garanzia del ruolo del Parlamento. Si pensi alla lettera del Presidente Mattarella del 31 ottobre 2018, in cui, per la prima volta in sede di autorizzazione alla presentazione alle Camere del disegno di legge di bilancio, era auspicata la collaborazione tra istituzioni di bilancio nazionali ed europee per garantire un proficuo esame parlamentare e alla recentissima lettera del 24 febbraio 2023 contenente un severo monito sull’omogeneità della legge di conversione del decreto-legge “proroga termini”.
Alla Corte costituzionale, invece, si può e si deve chiedere di più sia in termini di sindacato sui vizi formali della legislazione finanziaria, in ipotesi di questioni sollevate in via incidentale, sia in ordine alla possibilità per singoli o gruppi di parlamentari di contestare le modalità di approvazione della legge di bilancio mediante il conflitto intra-potere a tutela, cioè, di attribuzioni dei parlamentari nei confronti della Camera di appartenenza. Dall’ord. n. 17 del 2019 in poi, pur essendo stato astrattamente legittimato il singolo parlamentare al conflitto (anche) sulla legge di bilancio, sono stati dichiarati inammissibili tutti i ricorsi promossi perché non sarebbe mai stata raggiunta la fantomatica soglia di «manifesta evidenza» della violazione delle attribuzioni. In particolare, con l’ord. n. 60 del 2020 – sposando una visione weberiana e luhmanniana della decisione di bilancio, rivolta, cioè, ad assicurare la prevalenza del principio di efficienza sulla dialettica democratica – la Corte ha affermato che l’indice di gravità della manifesta lesione, ai fini dell’ammissibilità del conflitto, deve essere vagliato di volta in volta in forza della «naturale elasticità» del diritto parlamentare, avvalorando la prassi per cui la discussione sul disegno di legge di bilancio ben può essere limitata a una sola Camera per effetto del maxi-emendamento, con buona pace del principio costituzionale del bicameralismo perfetto.
Tale orientamento costituisce un’occasione mancata. I ricorsi per conflitto tra poteri, sollevati da parlamentari di opposizione, esprimevano, infatti, la “reazione” estrema delle minoranze parlamentari alla limitazione del loro ruolo nella decisione di bilancio, chiedendo di assicurare la giustiziabilità del procedimento e, con essa, il diritto/dovere del singolo parlamentare di partecipare alla discussione per contribuire alla dialettica democratica ed esprimere un voto consapevole sulla decisione politicamente più rilevante, restituendo così al Parlamento il suo ruolo e affermando la legalità costituzionale.