di Sandro Staiano
Dalla vicenda che ha condotto alla rielezione del Presidente della Repubblica proviene la conferma di una connotazione del sistema evidente all’analisi avvertita dei fatti istituzionali, eppure in certa misura sempre oscurata, negata o disattesa da parte non piccola degli attori politici, la più visibile e ipercinetica: la tenuta della forma di governo parlamentare, nella sua forte capacità di adattamento derivante dalla elevata elasticità delle relazioni – tra gli organi Parlamento, Governo, Presidente della Repubblica – che ne costituiscono lo schema sotto l’impulso delle dinamiche provenienti dal sistema dei partiti.
Tale impulso, e le circostanze storiche, rendono mobili i confini tra i campi d’azione di tutti e tre tali organi costituzionali, e ne ricalibrano reciprocamente i poteri. E il rimodellamento che specificamente si produce trova le premesse più dirette nella sequenza elettorale e nel suo esito. Ma la forma di governo italiana conserva la sua natura e la sua struttura.
La cronaca elettorale del gennaio 2022 lo conferma senza residui, nonostante quell’atmosfera da “ultimi giorni dell’umanità” che è stata creata innanzi all’annaspare dei partiti.
Tutte le ipotesi che sono state prospettate avrebbero avuto modo di essere tenute entro le ordinate forme costituzionali e, in termini più generali, entro la legalità costituzionale: anzitutto, è ovvio, quella che convenzionalmente possiamo chiamare “tipica”, l’elezione di una personalità politica presente in Parlamento ovvero esterna a questo e scelta per la sua esperienza tecnica, nel campo dell’economia o del diritto, o per l’altezza della sua testimonianza morale (e la scelta di nessuna, tra le persone alle quali si è fatto riferimento nel concitato dibattito politico, avrebbe potuto produrre effetti eversivi, trattandosi piuttosto di stabilire quale segno conferire al rapporto tra il Presidente e gli apparati dello Stato e tra il Presidente e la comunità nazionale, e quale immagine del Paese proiettare fuori di esso: che non è certo poco, anzi è moltissimo, ma non mette in discussione la permanenza della forma di Stato); il “passaggio” del Presidente del Consiglio in carica alle funzioni di Presidente della Repubblica; la rielezione, come poi è avvenuto, del Presidente della Repubblica uscente. Tutte allo stesso titolo. Nessuna avrebbe potuto condurre né ha condotto a una lacerazione del sistema, ad un mutamento “materiale” della forma di governo.
Le ragioni per la quali l’ipotesi “tipica” non si è prodotta deriva dalle connotazioni attuali del sistema partitico nel suo complesso e dalla posizione dei singoli partiti in tale sistema: cioè non solo da quanto i partiti sono “forti” (sul che tanti equivoci sono insorti, fino a far coltivare la fallacia della “morte dei partiti”), ma anche da come i partiti sono fatti e da come si collocano nella trama dei loro rapporti.
Invero, la elezione del Presidente della Repubblica ha colto i partiti in impegnativi processi di trasformazione, in consolidamento o ancora in corso, o giunti a maturazione e già interessati da nuova crisi. Si può dire che tutti i partiti oggi dotati di rappresentanza parlamentare hanno attraversato una fase di personalizzazione del centro di comando e di originaria connotazione populista, o di deriva verso l’acquisizione di una mentalità populista, o dominante l’intero partito o concernente una componente significativa di esso. Inoltre, alcuni partiti si sono connotati per la forte articolazione territoriale, con la costituzione di veri e propri partiti personali regionali, la cui leadership coincide con la presidenza di Regioni, tra le più rilevanti per dimensione demografica e composizione economica, che si sono “federati” con il partito nazionale di riferimento. Con la rapidità tipica di questo tipo di processi, una parte del sistema partitico, anche al prezzo di disarticolazioni e scissioni, si è ridefinito, dismettendo l’assetto di “personalizzazione populista”, per tentare di riapprodare a una forma “novecentesca”, con le varianti necessarie. Tra i partiti ispirati a mentalità populista, taluno, all’origine programmaticamente antisistema, si è assoggettato a un difficile, ma necessario, processo di istituzionalizzazione, ancora in corso, segnato, inevitabilmente, da conflitto e competizione per la leadership. Talaltro, già del tutto istituzionalizzato, vede profilarsi il rischio che si compia, per la sua leadership, la sorte tipica a essa riservata negli assetti populisti, specie quando tali formazioni assurgano alle funzioni di governo: rapido declino quanto rapida è stata l’acquisizione del ruolo. Sorte evitabile, nel tempo breve, solo curando di conservare, e far percepire come tale, una posizione antagonista rispetto alle sedi in cui si assumono decisioni di governo.
Questi partiti – in fase di crisi o colti in mezzo al guado nei processi di trasformazione e chiamati a essere partner disomogenei in una tormentata esperienza di governo – molto difficilmente avrebbero potuto identificare una personalità di comune garanzia operando secondo spirito repubblicano. E invero non lo hanno fatto.
La ragione per la quale, invece, non si è realizzata l’ipotesi del “passaggio” del Presidente del Consiglio alla carica di Presidente della Repubblica è nell’avversione di ampie componenti interne ai partiti a una linea di forte continuità Governo-Presidente della Repubblica che si sarebbe determinata, ed era temuta, tanto più perché il Presidente del Consiglio aveva manifestato forte capacità di controllo dell’Esecutivo nella sua attività di maggiore significato in una missione specifica: il dominio dei processi economici nell’attuazione del PNRR, in raccordo con le sedi europee. Si è temuto cioè un Presidente della Repubblica “governante”, in rapporto, subito o più avanti, con un Governo di suo prevalente gradimento e a lui strettamente legato.
Con la rielezione del Presidente della Repubblica uscente, tale linea di continuità si è egualmente realizzata, ma certo non incentrandosi intorno alla personalità temuta, quanto piuttosto intorno al Presidente rieletto, e in via temporanea, in attesa che i partiti, usciti dall’interludio, possano riprendere più agevolmente e compiutamente campo.
Ecco, dunque, la rielezione, che ha anche il suo precedente. Esce perciò di quadro, o comunque perde molta della sua attualità, la discussione intorno al formarsi di una convenzione costituzionale preclusiva della rielezione del Presidente della Repubblica, che avrebbe sofferto una deroga con la prima rielezione, la quale ha immediatamente preceduto quella attuale.
Alcune domande.
Ci saremmo trovati innanzi a un semi-presidenzialismo “di fatto”, opposto “materialmente” al parlamentarismo ricavabile dalla lettera della Costituzione, se ci fosse stato il “passaggio” del Presidente del Consiglio in carica nelle funzioni di Presidente della Repubblica?
La riposta va data senza eccessiva sicumera, perché nella ricostruzione dei sistemi il dato dell’esperienza costituzionale non è prescindibile, e ragionare secondo approccio controfattuale è piuttosto inutile. Tuttavia, sulla base dell’esperienza storica, si può dire che casi di Presidenti della Repubblica capaci di manifestare una influenza particolarmente rimarchevole nelle sedi dell’indirizzo politico di governo vi sono stati. E, nonostante ciò, la forma di governo parlamentare ha conservato i suoi caratteri.
Il Presidente rieletto, se eserciterà – fino alla scadenza temporale prevista, come non è affatto fuori dell’ordine delle cose – un così lungo mandato, assumerà i tratti del Capo effettivo del Governo?
La risposta più plausibile è che ciò non avvenga, e che la forma di governo parlamentare mostrerà ancora una volta la forza di conservarsi: l’ampiezza della legittimazione ricevuta dai grandi elettori e la dimostrata capacità di rappresentare l’unità nazionale, sul versante del consenso ottenuto nel rapporto con la società italiana, daranno al Presidente rieletto una considerevole capacità di influenza; ma la variabile partitica continuerà a modellare le dinamiche della forma di governo, che resta parlamentare.
Da ultimo: l’evidente deficit di leadership nei partiti, dal quale è derivata la loro difficoltà a governare il procedimento elettorale per il Presidente della Repubblica, ha dato il massimo campo alla posizione del Parlamento, che ha finito col dominare autonomamente la sequenza, mentre i leader di partito sono pervenuti di rincalzo.
Taluno ha letto questo esito come un’intollerabile disfunzione, spingendosi a proporre una revisione costituzionale intesa a introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Ma non v’è chi possa sensatamente ritenere che da ciò non deriverebbe un mutamento della forma di governo, uno slittamento verso il presidenzialismo o il semi-presidenzialismo.
Si tratta di valutare se ciò sia desiderabile.
Non lo è per chi ritiene che la forma di governo parlamentare italiana abbia dato, come tale, buona prova, contribuendo, in alcune assai difficili fasi dell’esperienza costituzionale, a contrastare minacce gravi alla conservazione dell’assetto democratico del sistema. E per chi osserva, sul piano comparativo, che essa si mostra oggi la più congruente con i tratti della forma di Stato democratica. Semmai elementi di disfunzione derivano dall’interrelazione col sistema partitico; e allora i correttivi debbono intervenire su questo versante, a partire dalla legge elettorale.
Ma forse non è inutile rilevare altresì che siffatte proposte di modificazione costituzionale vengono avanzata da chi si fa massimo esaltatore del profilo politico e istituzionale del Presidente rieletto e della sua funzione di equilibrio. Ebbene tale profilo e tale funzione non sono pensabili che per un Presidente eletto dal Parlamento, sia pure nella composizione integrata con altre rappresentanze territoriali, e non in via diretta dal popolo; cioè nella sede naturale della moderazione e della composizione del conflitto e non in quella della (naturale e necessaria, ma inevitabilmente oppositiva) relazione vincitori-vinti.