di Michele Belletti
Le vicende politico/istituzionali che hanno condotto alla rielezione di Sergio Mattarella hanno evidenziato diverse problematiche meritevoli di attenzione.
In primo luogo, le forze politiche e la società civile hanno mostrato una crescente insofferenza per il protrarsi degli scrutini, quando, nel passato, non sono mancate procedure elettorali protrattesi nel tempo, in un contesto sociale e istituzionale ove la c.d. accountability delle istituzioni nei confronti della società era decisamente più sfumata.
Invero, le preoccupazioni e le difficoltà nascevano dall’inedita situazione politica che il quadro istituzionale esprimeva: il Capo dello Stato avrebbe dovuto essere espresso dalle coalizioni di partiti, con il rischio di determinare una crisi di governo, oppure, doveva essere votato dalle forze dell’eterogenea maggioranza governativa, con conseguente rottura delle coalizioni?
È noto come sia costante il tentativo delle forze politiche di rivendicare e conseguentemente intestarsi l’elezione del Presidente della Repubblica.
Tendenza risalente alla prima elezione presidenziale, quando, dopo il rifiuto alla conferma da parte di De Nicola e l’accantonamento dell’ipotesi Carlo Sforza, gradito a De Gasperi, l’elezione di Einaudi fu preceduta da un tentativo di Togliatti di far convergere sullo stesso i voti delle sinistre per consentirne l’elezione al terzo scrutinio, bloccato dai democristiani che si opposero alla sospensione della seduta, impedendo ai gruppi parlamentari di consultarsi. Tant’è che al quarto scrutinio, nel quale venne eletto Einaudi, le sinistre votarono V.E. Orlando, con l’intento di dividere la maggioranza.
Questa volta, i diversi scrutini hanno fatto emergere una virtuosa istanza dal basso, proveniente dai singoli parlamentari, comunque sintomatica di partiti non coesi, se non precorritrice di preoccupanti tendenze assembleari.
Era dunque necessario individuare un autorevole successore di Mattarella, senza produrre lacerazioni nel tessuto parlamentare e soprattutto all’interno dei partiti e delle coalizioni.
V’è stato chi ha ricordato la proposta di Tosato alla Costituente (Guzzetta); ovvero, pervenire all’elezione diretta del Presidente della Repubblica nell’ipotesi in cui le forze politiche non fossero riuscite ad eleggerlo nei primi tre scrutini a maggioranza qualificata, con lo scopo di emancipare il neoeletto Presidente dal legame con i partiti e con la maggioranza parlamentare, senza con ciò modificare la forma di governo parlamentare in semipresidenziale.
Tant’è che questa potrebbe essere un’ipotesi di riforma sulla quale riflettere per dare una legittimazione forte al Capo dello Stato, mantenendo immutata la forma di governo parlamentare, conservando la controfirma ministeriale per tutti gli atti presidenziali.
La candidatura di Mario Draghi, in quanto Presidente del Consiglio in carica, costituiva
un’indubbia novità, ma, nonostante qualcuno palesasse “rotture” costituzionali, non pare sussistesse alcuna problematica di ordine istituzionale, soprattutto con riguardo all’automatismo contemplato per la supplenza del Presidente del Consiglio.
Sono stati finanche evocati rischi di torsione della forma di governo in senso semipresidenziale, senza tenere conto del dato giuridico/costituzionale dell’immutata valenza dell’art. 89 Cost., ma soprattutto della “poliedricità” degli atti e del ruolo del Capo dello Stato “che fanno del Presidente della Repubblica italiana un unicum nel panorama dei capi di Stato delle democrazie parlamentari per qualità e quantità dei poteri esercitati” (Scaccia). Il che non ha mancato, da sempre, di determinare incertezze in ordine al ruolo da riconoscere al governo e al Capo dello Stato, soprattutto con riguardo agli atti a più elevato contenuto politico, come la nomina del governo e lo scioglimento delle Camere.
In sostanza, il Presidente della Repubblica non è mai stato quel “fannullone” evocato da V.E. Orlando, non ha subito alcun “svuotamento” o “annichilimento sostanziale” della sua figura (Galeotti).
È noto che proprio all’autorevolezza di Einaudi si deve l’affermazione degli “atti propriamente presidenziali”, con conseguente riconoscimento della polifunzionalità dell’istituto della controfirma (Chessa).
Per citare soltanto alcuni casi al riguardo, si pensi alla contesa tra Ciampi e Castelli sul potere di Grazia; al rifiuto di Scalfaro nel ’94 di sciogliere le Camere, legittimando il Governo Dini; al forte condizionamento di Napolitano alla nascita del Governo Monti con la nomina di questi a Senatore a vita; al rifiuto di Mattarella di nominare Savona Ministro dell’Economia e all’apporto determinante dello stesso nella nascita in Parlamento di tutte e tre le maggioranze parlamentari che hanno sostenuto i tre esecutivi dell’odierna legislatura.
Il Capo dello Stato non viene dunque completamente estromesso dalle dinamiche fiduciarie. Nomina, infatti, un governo che entra in carica prima dell’ottenimento della fiducia, potendo significativamente incidere su quelle medesime dinamiche, quasi a dare l’impressione di un semipresidenzialismo in nuce.
In realtà, l’unico vero ostacolo all’elezione di Draghi era di natura strettamente politica: l’impossibilità di individuare un sostituto alla guida di un esecutivo, sostenuto da una eterogenea maggioranza, in grado di arrivare a fine legislatura.
Con l’ansia di “liquidare” Draghi, non è mancato chi ha perorato soluzioni di dubbia opportunità istituzionale, come la Direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, oppure un magistrato in pensione, o addirittura, un magistrato ancora in attività.
È evidente che queste opzioni avrebbero problematicamente rotto la separazione dei poteri, inaugurando pericolose prassi, tali da spingere funzionari dello Stato ad esercitare le loro delicate funzioni non già al servizio della Nazione, ma in ragione dell’investitura ad eventuali, future e prestigiose cariche istituzionali.
Così, la soluzione più rassicurante è parsa la rielezione di Sergio Mattarella, senza alcun dubbio la migliore per garantire la continuità dell’azione di governo e la conduzione a termine della legislatura senza troppi scossoni.
Soluzione non certo in contrasto con la Costituzione, in quanto non vietata, ma nemmeno prevista, ancorché presupposta dal c.d. “semestre bianco”.
Si tratta della seconda rielezione, in un contesto ove la prassi gioca ruoli a tratti determinante, con il rischio che questa prassi diventi regola in situazioni di stallo.
La questione investe però, non tanto la legittimità, quanto l’opportunità istituzionale.
Un Presidente rieletto permarrebbe in carica 14 anni, rompendo quel delicato equilibrio di durata degli organi costituzionali pensato dai Costituenti.
Il Capo dello Stato, organo di garanzia, rimane in carica dopo lo scioglimento delle Camere che lo hanno espresso, così da consentirgli una sicura emancipazione dai partiti che lo hanno votato, comunque garantita dal prestigio del suo ruolo e delle sue funzioni.
Solo i giudici della Corte costituzionale, organo tecnico di chiusura e garanzia costituzionale, durano in carica di più del Presidente della Repubblica.
È istituzionalmente opportuno che il Capo dello Stato permanga in carica più a lungo dei giudici costituzionali che nomina?
Il mandato presidenziale settennale, a fronte di quello novennale dei giudici costituzionali rende sostanzialmente improbabile che tutti i giudici di nomina presidenziale siano espressi dallo stesso Presidente, così da garantire una pluralità ed eterogeneità di orientamenti in seno alla Consulta.
Nonostante sia considerato illegittimo il conferimento di un mandato a termine al Capo dello Stato (Lippolis), è comunque probabile che Mattarella, così come già successo a Napolitano, decida di dimettersi prima della scadenza naturale del mandato.
Tuttavia, qualora rimanesse in carica fino a novembre 2023, dovrebbe nominare altri tre giudici costituzionali, con la conseguenza che tutti e cinque i giudici di nomina presidenziale sarebbero stati espressi dallo stesso Presidente, come già accaduto al predecessore Giorgio Napolitano.
Considerato che proprio sulla nomina dei giudici costituzionali si consumò il confronto tra Einaudi e De Gasperi in ordine alla titolarità effettiva dell’atto, è forse proprio per queste ragioni di opportunità, non certo per indisponibilità personale, che Sergio Mattarella, alla luce della sua spiccata sensibilità istituzionale, aveva richiamato le note posizioni di Segni e Leone, in ordine all’opportunità di prevedere il divieto di rielezione del Capo dello Stato, con conseguente eliminazione del semestre bianco.