di Quirino Camerlengo
1. A proposito di film.
In una delle ultime scene di Mary per sempre, film del 1989 diretto da Marco Risi, nel rivelare al suo insegnante, magistralmente interpretato da Michele Placido, la propria intenzione di evadere dal carcere minorile in cui si trovava recluso, Pietro Giancona (un bravo Claudio Amendola) sintetizza la propria esistenza, gravata da un destino ineluttabile (o che almeno percepisce essere tale, essendo un ragazzo “tinto”), in un celebre detto: «cu nasci tunnu, nun pò morriri quadratu».
Nella trasposizione cinematografica di Gomorra (2008, regia di Matteo Garrone), Totò è un tredicenne che, come tanti altri ragazzi di Scampia, cresce nel mito del Sistema, al quale cede dopo un inquietante rito di iniziazione, intraprendendo la carriera criminale dal gradino più basso, quello della vedetta. Figlio di una madre single, che si arrangia come può, vive in un piccolo appartamento delle “vele”, dopo aver abbandonato la scuola. Totò è sveglio, veloce, intraprendente.
Due storie tristemente simili, di destino che opprime lasciando un’impronta indelebile. Due ragazzi nati e cresciuti in condizioni di svantaggio, ai quali lo Stato ha messo a disposizione servizi, strutture, aiuti di diverso genere, ma che frettolosamente saremmo indotti a dire che hanno posto in essere scelte devianti: anzi, più correttamente, che hanno deliberatamente scelto la strada più facile di riscatto sociale, quale quella lastricata dal crimine nelle sue forme più aggressive. Due ragazzi che si potrebbero ben collocare nella formula magica del secondo comma dell’art. 3 Cost., ossia due ragazzi sul cui percorso esistenziale si sono frapposti ostacoli di ordine economico e sociale che, limitandone di fatto la libertà e l’eguaglianza, ne hanno precluso tanto il pieno sviluppo della personalità, quanto l’effettiva partecipazione alla vita comunitaria in tutte le sue qualificanti espressioni. Insomma, due “soggetti deboli”, come direbbe Michele Ainis.
Come (purtroppo) nel caso di tanti altri nati e cresciuti ai margini della società (quale, poi, quella cd. “civile”?), parrebbe che il principio di eguaglianza sostanziale, le cui virtù sono state opportunamente esaltate dagli studiosi più sensibili ed empatici rispetto alla vocazione sociale della nostra Costituzione (da Romagnoli ad Esposito, da Paladin a Caravita, da Rescigno a Ferrara, da Cerri a D’Aloia, chiedendo scusa a chi non ho citato), non abbia funzionato, tradendo la rivoluzione promessa (Calamandrei) e lasciando i soggetti deboli al loro destino. L’immobilità sociale, confermata da tanti e anche recenti studi condotti in diversi ambiti, è la prova di quanto le origini familiari e sociali siano ancora oggi determinanti nel determinare il tragitto esistenziale delle persone, benché dalla combinazione virtuosa dei princìpi fondamentali (eguaglianza, democrazia, pluralismo, libertà, solidarietà) affiori nitidamente il valore altrettanto basilare della “promozione sociale” (Camerlengo), come concreta occasione di riscatto per coloro che hanno mosso i primi passi su di un terreno ostile e incerto. E questo immobilismo, oltre a generare diffuse forme di frustrazione, di esasperazione, di devianza, oltre a indebolire la nostra democrazia non ancora pienamente matura, come ha opportunamente osservato proprio il promotore di questo confronto, ossia Fabrizio Politi, alimenta un tessuto umano congeniale al reclutamento di manovalanza criminale nei contesti sociali dove si è spenta la speranza di riscatto sociale per via legale. Non a caso il dott. Ayala, protagonista della lotta alla mafia, in una intervista televisiva disse chiaramente che in quegli ambiti, che noi colpevolmente sentiamo lontani e inaccessibili, la mafia è il principale, se non esclusivo, motore di mobilità sociale. Non la scuola, non le altre formazioni sociali, non il duro lavoro, ma un boss che promette rispetto, onore, ricchezza ad un prezzo sin troppo chiaro nella sua fatale e irreversibile entità.
2. Eppure, sia Pietro che Totò sono i destinatari delle tante e variegate prestazioni che le istituzioni repubblicane, per adempiere al compito loro assegnato dal citato art. 3, secondo comma, hanno erogato e continuano a garantire sotto forma giustappunto di diritti sociali. Lo Stato non li ha abbandonati al loro destino nel momento stesso in cui ha aperto scuole in cui studiare (art. 34), ha allestito ospedali in cui curarsi (art. 32), ha fornito loro una abitazione sia pure modesta ma pur sempre un tetto sotto cui vivere dignitosamente (perché il diritto all’abitazione, pur non esplicitamente menzionato come tale dalla Costituzione, è senza dubbio un diritto fondamentale, come ha riconosciuto la Corte nella sentenza n. 217 del 1988), ha prestato assistenza in caso di malattia o invalidità (art. 38), si è impegnato nel favorire l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (art. 4), ha aiutato le famiglie numerose (art. 31). E nonostante questo immane impegno, culminato nella progressiva costruzione di un sistema di Welfare tra i più credibili al mondo, Pietro e Totò, come tantissimi altri ragazzi e ragazze, sono rimasto schiacciati da una sorte segnata in partenza: alcuni commettendo reati, altri rifugiandosi nella droga, altri ancora abbandonandosi alla rassegnazione.
Perché? Altre discipline hanno offerto interpretazioni e ipotesi, più o meno persuasive. E la nostra?
Ho l’impressione che uno dei fattori maggiormente responsabili del disincanto che ha segnato la vitalità dell’eguaglianza sostanziale e dei diritti sociali ad esso associati sia stato il fattore economico o, meglio, la sopravvalutazione del medesimo. Pensare, infatti, di escludere la dimensione economica dal novero delle variabili che incidono anche sulla concretizzazione degli istituti giuridici è un errore, ma lo è ancor di più piegare ogni fenomeno attratto nell’orbita tracciata dal diritto alle ragioni del sistema economico, in qualsiasi veste (Luciani; Azzariti).
L’eguaglianza sostanziale, declinata come eguaglianza delle opportunità o nei punti di partenza, è stata pensata, vissuta, riformulata, come condizione ottimale di equilibrio raggiungibile grazie alla leva economica. Il soggetto debole è colui o colei che difettando dei beni a ciò necessari si trova a subire il divario di fatto tra l’astratta titolarità dei diritti fondamentali (che c’è) e l’effettivo esercizio o godimento degli stessi (che manca). E l’azione dello Stato immancabilmente si risolve in una mera liberazione dal bisogno economico. Come se il pieno sviluppo della personalità e l’effettiva partecipazione alla vita sociale fossero traguardi raggiungibili solo aumentando la ricchezza finanziaria individuale o sopperendo a lacune rilevanti proprio dal punto di vista economico. Questa visione miope e parziale ha generato una attenzione esclusiva verso la povertà come condizione di disagio finanziario, e non come situazione di vulnerabilità ad ampio spettro tale da investire tutte le dimensioni esistenziali della persona (Franchini, Fattibene).
Questa filosofia ha trasformato i soggetti deboli in destinatari diretti o indiretti di provvidenze economiche e, facendo leva sul bisogno di incrementare la propria condizione finanziaria, v’è chi ha strumentalizzato la povertà alimentando nient’altro che populismo e demagogia.
Anche la fortuna dei diritti sociali, il più delle volte etichettati come diritti condizionati (principio di gradualità), è dipesa in misura decisiva dalla dimensione finanziaria, per effetto della quale il tasso di tutela e, dunque, di concreto inveramento dipende dalle risorse disponibili. Solo alcune pronunce della Corte hanno ridimensionato tale approccio, senza però comportare la rinuncia definitiva a quello stesso approccio contestato, come ricorda Fabrizio Politi, da Holmes e Sunstein (si pensi alle sentenze n. 275 del 2016 e alla più recente sentenza n. 10 del 2022 dove si parla di «prestazioni sociali incomprimibili»). E, così, l’inviolabilità dei diritti sociali (D. Bifulco, soprattutto, ma anche Giorgis, Salazar, Pezzini), che dovrebbe essere la cifra condivisa con i diritti di prima generazione in uno Stato autenticamente e sinceramente “sociale”, ne è uscita gravemente compromessa, senza dimenticare il grave colpo attestato con la costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio.
3: L’eguaglianza sostanziale, e i diritti sociali che ne sono la paradigmatica espressione, nulla possono se all’affrancamento dal bisogno economico non segue una autentica rivoluzione culturale e sociale che, attualizzando le ricchissime potenzialità del principio di pari dignità sociale, creino un terreno più fecondo in cui possa attecchire la vocazione sociale della Costituzione. A nulla serve l’assistenza focalizzata sulla fragilità economica se poi, una volta realmente conseguite le utilità associate ai servizi sociali, la persona (di nuovo, il soggetto debole) non riesce a concretizzare quelle utilità in occasioni concrete di riscatto sociale, restando sopraffatto da chiusure, pregiudizi, residui di una ostinata gerarchia sociale (Groppi) che tende a serbare intatte le diseguaglianze non solo in termini di distribuzione della ricchezza, ma ancor di più in termini di redistribuzione delle occasioni di assecondare i propri talenti, le proprie inclinazioni, le proprie capacità, anche quelle che agli occhi dei più tali non appaiono (Nussbaum, Sen). E tutti i consociati saranno davvero parimenti degni dal punto di vista sociale se a questa rigenerazione del principio di eguaglianza sostanziale e dei diritti sociali si accompagni un rimescolamento delle carte che redistribuisca innanzitutto la speranza di un futuro migliore: quella speranza che Pietro e Totò hanno smarrito da tempo. Come testimoni privilegiati dei princìpi costituzionali, noi tutte e tutti abbiamo il dovere di assecondare questo anelito di rinnovamento formulando inedite letture del dettato costituzionale e rivedendo criticamente pregresse soluzioni interpretative.