di Francesco Gabriele
Per quanto sicuramente verosimili, gli esempi “cinematografici” richiamati (specialmente nell’ottima e completa sintesi di Politi) non sembrano, tuttavia, generalizzabili oltre un certo limite. Altri, infatti, potrebbero rinvenirsene nella realtà di tutti i giorni, e non da ora, di soggetti inizialmente “deboli” ai quali, invece, l’acquisita possibilità dell’esercizio di almeno alcuni diritti sociali (per es., quello allo studio fino ai gradi più alti) ha consentito “anche” promozione e riscatto (sociali). Ciò non toglie, però, che le origini familiari e sociali possano limitare, e, spesso, limitino gli effetti che al loro concreto esercizio dovrebbero accompagnarsi se, invece, le condizioni generali dell’ambiente sono “ostili” e la “mobilità” di fatto impedita. Sono, insomma, necessari, ma non sufficienti perché “altre” origini familiari e sociali possono, di fatto, ugualmente riuscire a (continuare a) ostacolare e/o a prevaricare e a “conservare” (il discorso può, peraltro, farsi complesso molto dipendendo anche dalle doti personali).
Il “disincanto” è comprensibile, ma non deve, a sua volta, condizionare. Il fattore economico, soprattutto, non può essere svalutato essendo comunque un presupposto. I diritti sociali e la eguaglianza sostanziale pur limitata alla (sola) parità delle chances, anche se avulsi dalla compresenza, nella società, della solidarietà e della dignità, quanto meno liberano dal bisogno e aiutano lo sviluppo della personalità. Quella dell’art. 3, II comma, della Costituzione non è una formula “magica”, né maghi erano, o si ritenevano, i Costituenti. È, però, “felice” perché esprime al meglio gli obiettivi dei suoi Autori. Contornata dagli altri principi fondamentali, e specificata in numerose disposizioni successive della Parte prima (e, però, non senza “compromessi”, sia pure “nobili”), chiaramente configura, con il massimo di normatività possibile ed in piena consapevolezza, in mirabile ed efficace sintesi, l’obbligo della Repubblica del perseguimento e del conseguimento della trasformazione di tutti i lavoratori in cittadini liberi e uguali nella partecipazione alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese (starei per dire davvero “optimo iure”). Com’è ovvio, essa, comunque interpretata e ricostruita nella sua specifica capacità normativa, che, nell’ordinamento, non è unica, ma “variabile” proprio al variare della struttura ecc. delle disposizioni-fonti, difficilmente, per sua natura, varrà, come altre disposizioni sui diritti sociali, a rendere la garanzia e la tutela giuridica di questi diritti come quella, piena e diretta, di altri (civili e politici), che, di solito, li hanno preceduti anche se, in un certo senso curiosamente, ne sono bisognosi quanto alla pienezza e alla effettività, in concreto, delle possibilità di esercizio, o, se preferisce, di godimento (non occorre richiamare, del resto, né la pluralità delle interpretazioni, né, nel corso del tempo, le no sempre coerenti quella di “riletture”: v., per es., l’art. 41). La stessa tutela giurisdizionale, anche se e quando ben disposta, per così dire, spesso non può prescindere da un qualche tertium comparationis e, comunque, ed in primis, da una qualche interpositio del legislatore ordinario, che finisce con l’avere, con la sua inerzia, anche se illegittimamente e senza possibilità di sanzione, e comunque in dispregio della Costituzione, il “potere” di rendere deboli, e magari di vanificare, i diritti (costituzionali) dei “deboli” e, con essi, il compito che la Costituzione stessa attribuisce alla Repubblica, ovviamente pro quota, ma con un suo ruolo eminente, per la rimozione degli ostacoli in vista di una società più giusta e più libera e, quindi, più “vera”, cioè più autentica comunità. Sotto questo profilo, pur in presenza di innegabili miglioramenti via via avvenuti, l’attuazione costituzionale è, però, ancora carente anche là dove non è mancata. Basti, al riguardo, un richiamo al diritto fondamentale alla salute, l’unico formalmente dichiarato tale dalla Costituzione. Anche con la istituzione del comunque benemerito SSN fin dal 1978, a non pochi sono ancora di fatto negate, infatti, benché non senza ingenti costi e con inaccettabili diversità territoriali e sociali, prestazioni sanitarie indispensabili, che divengono possibili, a chi può permetterselo, solo ricorrendo a forme sostanzialmente private talora perfino nelle stesse strutture (pubbliche), che, altrimenti, lo farebbero con ritardi che le renderebbero inutili.
Più in generale, è la considerazione di fondo di cui, quasi meccanicamente, sembrano godere i diritti sociali che appare stridente con il dettato costituzionale. Sembra inaccettabile, per esempio, il loro frequente condizionamento, con una sorta di clausola generale, alla “disponibilità” delle risorse, cioè ad una condizione assolutamente priva di oggettività, che richiede solo una valutazione “politica” e l’adozione di una scala di priorità, cioè di “scelte”. Il ricorso, quasi sempre, al debito, significa che il loro finanziamento non può incidere sull’esistente, che rispetto a questo essi vengono “dopo”; che, in definitiva, nessuna forma di redistribuzione è presa in considerazione e che le diseguaglianze riconosciute dall’art. 3, II comma, sono colmabili solo in una direzione quando, in realtà, se la torta è una, per incrementare una parte occorre, in qualche modo, ridurre un’altra di ciò che, altrimenti, potrebbe configurarsi come privilegio sia pure nella necessaria relatività complessiva. Ciò avviene, e diviene più stridente, ma più significativo, nei casi di emergenza, quando non si considera che le capacità di affrontare le difficoltà sopravvenute dipendono dalle condizioni generali in cui si versa “normalmente”, per così dire, perché spesso non si è tutti nella stessa “barca”, come si suol dire, ma nello stesso “mare” con barche diverse (come, per es., nell’emergenza pandemica non tutti avendo potuto “riguardarsi” allo stesso modo; l’aumento dei prezzi, a sua volta, incide diversamente sulle capacità economiche rendendo persino impossibile, ad alcune categorie, il soddisfacimento di bisogni incomprimibili, come non dovrebbe mai avvenire secondo la stessa Corte costituzionale, e poco, e comunque molto diversamente rilevante i suoi effetti per altri). Le emergenze imputabili alla volontà degli uomini (per es., quelle belliche), per alcune categorie sono pressoché irrilevanti e, per altre, ai limiti della sopravvivenza e non dovrebbero passare inosservate né, quasi spontaneamente, da parte di chi, in definitiva, non ne risente, né, comunque, dei pubblici poteri (anche per evitare una sorta di “armiamoci e partite”). La debolezza dei diritti dei deboli (altri si è chiesto se diritti dei poveri siano “poveri” diritti), e, insomma, la permanente precarietà, qualitativa e quantitativa, se si vuole, dei diritti sociali e del loro “status”, si riflette, bensì, su quelle della eguaglianza sostanziale, della conseguente democrazia, ecc. . Non può sfuggire, però, come essa contribuisca a forgiare l’unità nazionale quale sintesi non formale, né retorica, né occasionale delle distanze sociali, della solidarietà, della giustizia sociale e della dignità tra le persone esistenti nella comunità sia pure, naturalmente, in un contesto nel quale non possono non essere considerati, essendone, anzi, spesso, almeno in parte anche protagonisti, se non alla radice, anche le varie componenti del sistema politico-istituzionale, che non sembra attraversare una buona fase dopo la crisi dei partiti tradizionali, ma anche la società civile, i mass media e i social.