di Andrea Guazzarotti
1.
La lettera di Fabrizio Politi coglie assai efficacemente il proprium dei diritti sociali, quali fattori indispensabili di realizzazione del principio democratico. Anche la suggestione del ricorso alle immagini cinematografiche ben coglie un altro aspetto fondamentale, ma spesso sottaciuto, del costituzionalismo democratico-sociale, quello della costruzione del soggetto, di cui i media e la produzione culturale sono vettori fondamentali. La domanda da cui partire, in tale prospettiva, è: quale immagine di cittadino propone la Costituzione repubblicana e quali strumenti essa prefigura per la sua produzione e riproduzione?
Una simile impostazione potrebbe essere accusata di essere paternalista, assimilazionista o addirittura autoritaria. Ricordo, però, che le riforme economiche del New Deal di Roosevelt furono accompagnate dal perseguimento di politiche “educative” e di mobilitazione di massa tese proprio alla costruzione di una coscienza collettiva capace di supportare quella nuova visione della politica economica (K.K. Patel), forse nella consapevolezza che lo sradicamento dei destini individuali e familiari prodotto dal crollo del liberalismo laissez-faire andava contrastato con un ri-radicamento delle individualità attorno un progetto condiviso di comunità (S. Weil).
La Costituzione repubblicana è frutto di una libera scelta democratica del popolo italiano e deve presumersi che coloro che la scrissero abbiano rappresentato al meglio le tendenze e le aspirazioni politiche dei loro elettori. Ma se ammettiamo che la “rivoluzione democratica” sfociata nell’approvazione della Costituzione si nutriva di alcuni requisiti (una diffusa coscienza avversa tanto all’integrazione fascista delle masse, quanto a quella del liberalismo laissez-faire, il cui fallimento era sfociato nel fascismo), dovremmo poi ammettere anche che la Costituzione costituisce un progetto teso a preservare e rafforzare nella società i caratteri che hanno permesso quella rivoluzione democratica. L’aver esorcizzato questa visione “materiale” della Costituzione (cfr. la Premessa a La Costituzione materiale di Mortati scritta da G. Zagrebelsky nel 1998) è stato forse un riflesso condizionato dettato dal crollo dei partiti della c.d. Prima Repubblica e dalla convinzione – di cui sono impregnati gli anni Novanta – della obsolescenza di certe parti della Costituzione, frettolosamente ritenute anacronistiche a causa dei vincoli di finanza pubblica e della programmata perdita della sovranità monetaria.
Dunque, una Costituzione a immagine e somiglianza dei cittadini che contribuirono a renderla possibile e – specularmente – un cittadino a immagine e somiglianza della sua Costituzione nazionale. Non credo molto alla famosa frase di Böckenförde sull’impossibilità per lo Stato liberale secolarizzato di garantire i presupposti per la propria preservazione, pena il tradimento della sua stessa anima. A parte il fatto che, per tutti i “Trenta gloriosi” e anche qualche anno dopo, nessuno avrebbe definito la forma di Stato italiana come liberale, un simile atteggiamento rinunciatario, che può ben ammantarsi di garanzie del pluralismo e di lotta al paternalismo statualista, finisce per lasciare gli individui esposti a un altro tipo di indottrinamento, stavolta gestito dalle forze del mercato (ma si ricordi che le forze del mercato hanno “nome, cognome e soprannome”: M. De Cecco). Ed è un indottrinamento capace di cooptare le politiche pubbliche: eloquente la politica per l’edilizia residenziale pubblica, sostituita con i sussidi alla proprietà privata dell’abitazione. Una scelta che è stata il fulcro della rivoluzione conservatrice, quale strumento di creazione di consenso e di un’egemonia culturale (S. Gainsforth, Abitare stanca. La casa: un racconto politico, Firenze 2022).
2.
Ma a monte della cooptazione delle politiche pubbliche, le “anonime” forze del mercato sono state in grado di plasmare il modo di concepire i diritti sociali, omologandoli ai diritti civili, così da far perdere loro quelle specificità che contribuiscono a configurare una forma democratico-sociale di Stato. Il fenomeno non è solo italiano, ovviamente, e non dipende neppure soltanto da vicende puramente interne ai singoli ordinamenti nazionali. Così come il superamento del liberismo laissez-faire nei singoli Stati dell’Europa occidentale è stato reso possibile dall’abbandono definitivo del gold standard e dell’accettazione degli USA di imprimere all’economia globale un’impronta fortemente limitatrice della finanza speculativa e della libera circolazione dei capitali (Bretton Woods), il ripudio di tale scelta fondativa da parte dei governi statunitensi negli anni Settanta ha segnato la crisi del modello keynesiano. Il che, a sua volta, si accompagnava al chiaro presentimento, in quegli stessi anni, dell’insostenibilità del modello sovietico di socialismo reale. Ma il “There is no alternative” (TINA) di thatcheriana memoria non è riferibile solo al modello neoliberale di politiche economiche, bensì probabilmente anche all’uniformazione del modo di concepire i diritti sociali, omologati a quelli civili di matrice liberale ottocentesca.
Tra gli argomenti a supporto della continuità tra diritti spicca il contrattualismo rawlsiano, secondo cui gli interessi che gli individui intendono tutelare attraverso il contratto sociale sono già compiutamente formati prima di quest’ultimo, ossia a prescindere dall’esperienza comunitaria solidale, quando invece il proprium dei diritti sociali è il loro scaturire dalla solidarietà (M. Goldoni, La materialità dei diritti sociali, in Dir. pubbl. 1/2022, 141ss.). E il “dogma” della solidarietà è necessariamente collettivo, nel senso che anche i meno esposti al rischio – cui il vincolo solidale vuole rimediare – hanno il dovere di solidarietà, nella misura in cui essi hanno contribuito a creare quel tipo di rischio (l’economia capitalista di mercato) e beneficiano della totalità della produzione sociale (Supiot, Somek).
Altro argomento continuista è quello del costo dei diritti (Holmes e Sunstein), che occulta fondamentali differenze di struttura tra diritti sociali e civili: puntare sull’esigenza di finanziamento pubblico, quale dato comune a ogni tipo di diritto, distoglie dalla differenza specifica del tipo di intervento pubblico richiesto e dal diverso impatto redistributivo dei diritti sociali (Goldoni, cit., 157). L’argomento del costo dei diritti, fra l’altro, offre un argine troppo debole alla suggestione del mercato, quale metodo più efficiente (dunque, meno costoso) di soddisfazione di certi diritti (lasciate che i ricchi e la classe media si paghino la propria sanità privata, senza “gravare” sul sistema sanitario nazionale, che potrà così più “efficientemente” occuparsi dei poveri; lasciate che le imprese private offrano asili e previdenza privata ai propri dipendenti, ecc.). L’argomento finanziario rischia di dare per scontato l’elemento della scarsità, già connotata nei suoi elementi strutturali, mentre i diritti sociali potrebbero valere proprio a rendere possibile il conflitto sui meccanismi che producono la scarsità delle risorse e a sconfessare il dogma liberale che la scarsità sia determinata pre-politicamente (Goldoni, cit., 163).
Nella logica continuista, i diritti sociali vengono spesso indagati con l’intento di promuoverne l’effettività attraverso la giustiziabilità, la quale tuttavia non si produce se non dopo aver ridotto i doveri di solidarietà in diritti individuali, con ciò sterilizzando ogni valenza sistemica dei diritti sociali costituzionalmente riconosciuti, cioè la possibilità di formulare la rivendicazione di certi diritti come questione collettiva tesa a contestare in radice l’organizzazione di questo o quel servizio (Goldoni, cit., 167s.). La giustiziabilità, specie quella “multilivello”, è diventata una sorta di oppiaceo volto ad anestetizzare la mutilazione dell’idea di emancipazione collettiva prodottasi con l’apertura indiscriminata ai mercati (Somek).
3.
Come scriveva Michael Walzer ancora nel 1983 (Sfere di giustizia), gli assetti “giusti” per la nostra società sono fatti di istituzioni fondate su una propria scala valoriale interna, la cui incommensurabilità va preservata, e tuttavia «istituzioni siffatte servono a poco se non sono abitate da uomini e donne che vi si sentano come a casa propria e siano pronti a difenderle». E in Italia si è da tempo riconosciuto che la crisi del rappresentato è più urgente della sempiterna crisi della rappresentanza (Luciani). Per tornare alle citazioni cinematografiche, io ho in mente il Fabrizio Bentivoglio de «Il capitale umano» di Virzì (2013), in cui un oscuro esponente della classe media faceva di tutto per entrare nel mondo dell’aristocrazia finanziaria che guadagnava speculando contro il proprio Stato. Negli anni dell’autunno caldo, una parte significativa del ceto medio e delle professioni liberali si era alleata con gli operai artefici della “democratizzazione” della fabbrica (Cantaro). Quello stesso ceto medio si è illuso poi di potersi alleare, almeno idealmente, con il famigerato 1% dei titolari dei redditi più alti, uscendone con le ossa rotte.
Il Deuteronomio prescrive il riposo sabbatico con una formula assai suggestiva: nel settimo giorno «non fare (…) nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo servo, né la tua serva, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il tuo straniero che sta dentro le tue porte, affinché il tuo servo e la tua serva si riposino come te». La pratica del riposo sabbatico (domenicale per i cristiani, del venerdì per gli islamici) reca un importante messaggio di giustizia sociale (la sospensione delle gerarchie sociali, addirittura anche di quelle tra uomo e animali), nonché l’uscita dalla razionalità economicista per celebrare il valore della gratuità. Si possono immaginare pratiche alternative di un simile rituale religioso, in cui possano riconoscersi anche i non credenti (quale il sottoscritto). Ma resta fondamentale capire che riposare assieme e contemporaneamente non è la stessa cosa che avere un giorno libero la settimana. Il Governo Monti azzerò questa distinzione con la liberalizzazione degli orari dei negozi, che poi significava libero afflusso ai centri commerciali la domenica. Le Regioni si opposero. La nostra Corte costituzionale giustificò la liberalizzazione, ricorrendo all’idrovora della concorrenza. Ecco: si potrebbe partire da vicende come questa per contestare e contrastare la destrutturazione del soggetto al centro del progetto di Costituzione democratico-sociale che ancora fonda il nostro ordinamento.